§ IL CORSIVO

Ancora folclore?




Brizio Montinaro



E' possibile in un'epoca in cui la scienza giorno dopo giorno ci sorprende con continue scoperte alle quali non riusciamo a tener dietro neanche soltanto a livello informativo, parlare ancora di tradizioni popolari, di usanze di questa o quella regione, di questo o quel villaggio senza apparire - o meglio - senza essere, per tale ragione, in una posizione di retroguardia? Che senso ha - mentre il computer entrato in questi anni nelle nostre case si assesta senza più suscitare meraviglie in un posto accanto al televisore, al videoregistratore e ad altri strumenti ad alta fedeltà a noi ormai familiari - riparlare dei perduni di Taranto, dei battenti della Madonna dell'Arco, delle repute oppure delle tarantate, per citare una realtà a noi salentini più vicina e nota?
Ha una qualche utilità o è solo un futile esercizio reazionario quello di guardarsi indietro per individuare le radici di comportamenti tradizionali, di portare in superficie storie di uomini o di intere comunità talmente inverosimili da sembrare appartenere ad un altro pianeta o ad un mondo ormai per sempre scomparso in confronto a quello che ci appare attraverso i mezzi di comunicazione di massa?
Queste sono soltanto alcune delle domande che vengono poste a chi come me si occupa di antropologia culturale e quindi di tradizioni, comportamenti, usi, miti, riti, religiosità popolare, ecc. Cercando di dare una risposta prima di ogni cosa, devo dire che queste domande, come tutte le domande, sono legittime. Legittime e anche giustificate forse, ma certo non corrette. Chi le pone di solito appare persona intellettualmente vivace e moderna, forse satura per quanto si è parlato negli anni passati di tradizioni popolari, ma non proprio attento alla realtà, non curiosa, non interessato, non correttamente informata. Senz'altro distratta dallo sforzo di tendere lo sguardo esclusivamente verso il futuro, nella convinzione che il futuro sia soltanto in ciò che appare nuovo o dovrà ancora venire. Tenterò di rispondere descrivendo a grandi linee la situazione attuale, mettendo in rilievo le cause che a tale situazione hanno condotto e sforzandomi, inoltre, di chiarire un concetto che oggi ormai dovrebbe essere per tutti già correttamente acquisito: mi riferisco al concetto di tradizione inteso come usanza.
Nel nostro Paese si è creata una realtà a mio parere contraddittoria. Non vi è città o frazione o posto balneare dove nel corso dell'anno non vi sia una celebrazione folcloristica, un palio, una giostra, una parata in costume, un alcunché a memoria di un episodio della storia locale passato, di un rito da tempo fisiologicamente scomparso, di un comportamento ormai desueto. Quasi tutte queste tradizioni sono state riesumate, riprese e istituite nuovamente nel corso degli ultimi due decenni sull'onda di una moda fatalmente generata dallo svilupparsi degli studi e dall'accresciuta attenzione verso il mondo popolare e subalterno causata da vitalissimi movimenti politici di sinistra di cui il sessantotto fu il più significativo. Troupes televisive leggere presero in quegli anni ad andare per ogni angolo d'Italia alla scoperta di qualcosa di diverso e colorito che appartenesse alla cultura popolare e intanto potesse far spettacolo. Riti antichi sono stati in questo modo banalizzati e distrutti per sempre, prima ancora di essere capiti. Appassionati ricercatori dilettanti, con magnetofono in spalla, attraversarono le campagne sotto il sole e sotto la pioggia, da soli o in compagnia, per iniziativa personale o inviati da qualche casa discografica pronto a cavalcare la tigre dei "folk", convinti di salvare con la loro opera instancabile l'enorme patrimonio musicale della tradizione contadina ai loro occhi infinito. Maniaci danarosi forniti di modernissimi videotapes percorsero ansiosi le autostrade, marciarono intrepidi per dirupi e vallate e fratte, si arrampicarono come capre selvatiche tra i sassi e gli sterpi pur di giungere primi al traguardo di un santuario situato su un pizzo di monte o al termine di uno sconosciuto tratturo, ignoto persino alle mappe dell'Istituto Geografico Militare. Una gran massa di contadini fu allora gratificata e in parte sconvolta da tanta generosa attenzione. In tale stadio di euforia della scoperta - di quello che era stato sempre allo scoperto cioè, sotto gli occhi di tutti e che nessuno fino ad allora aveva mai visto o degnato di uno sguardo - si cominciò a cantare peana e si dissero frasi grosse della semplicità di quelle storiche: "Finché un contadino avrò la voce per cantare io sarò lì a registrare i suoi canti per conservarli a futura memoria!", "Ogni parola dimenticata di un dialetto è un pezzo di lingua che se va!". Si parlò crudamente di "lingue tagliate", di memorie obnubilate, di culture annientate. Il discrimine tra la verità che queste espressioni affermano e la falsità sonante che esse stesse dicono è lampante e passa attraverso la ruvida realtà contadina e l'assurda forma di espressione e d'atteggiamento da crociata di coloro i quali tali frasi pronunciarono. Non nego quindi in esse una verità condivisa e da condividere, ma rifiuto decisamente la forma ostentata, superficiale e fatua che il tempo dimostrò essere la sostanza di chi le asserì. In questa situazione di caos che si venne a creare della quale furono protagonisti anche tantissimi giovani figli di contadini, artigiani, operai si cominciò ad isolare, evidenziare, descrivere e mettere in atto moltissime tradizioni locali, moltissime feste tradizionali in nome di uno "stare insieme" e di un "socializzare" che si risolvevano ogni volta immancabilmente in una fiera di pance gonfie di vino e pezzetti. Tutto questo avveniva confusamente perché alla base della maggior parte dei ricercatori spontanei non c'era una adeguata e specifica preparazione. La molla che aveva mosso tanti figli della classe operaia in questa direzione era stata una molla di natura più politica che culturale. Sotto sotto un legittimo desiderio spingeva effettivamente quei giovani: la voglia di rivalsa sociale, la voglia d'affermazione della propria presenza nella storia, di contare, a differenza di quanto era accaduto ai loro genitori. Questo riflettere scomposto su se stessi per la carenza di strumenti critici non servì molto però alla definizione e alla riappropriazione della loro cultura.
Mostrarono di comprendere poco, per esempio, il valore contestativo che le tradizioni popolari - per il fatto stesso di essere diverse, altre - avevano nei confronti della cultura dominante che combattevano: libresca, fastidiosa, a volte reazionaria, ma che tuttavia esercitava su di loro un grande fascino. Tutto quell'agitarsi, purtroppo, soprattutto di coloro i quali più avrebbero dovuto trarre giovamento da una così grossa ondata di interesse verso la cultura subalterna, non si risolvette altro che nel mantenere lo status qua quando addirittura non segnò il loro atto di fuga dalla classe sociale cui storicamente appartenevano.
Presero a ripetere riti tradizionali acriticamente, richiamarono in auge comportamenti e usi ormai da tempo desueti. Per quanto concerne la penisola salentina si rievocò, per esempio, nella settimana precedente la Pasqua, la tradizione del 'San Lazzaro'. Si cercarono ansiosamente del contadini che ricordassero a memoria la 'Passione del Signore' in lingua grica e li si spinse su dei palchetti improvvisati nelle piazze dei paesi della Grecìa a emettere svociati lamenti interrotti da paurosi vuoti di memoria. Drammatici, per loro e per quelli che erano accorsi ad ascoltarli, convogliati da megafoni che per tutta la mattinata avevano diffuso la notizia della manifestazione. Quando ancora non furono gli stessi volenterosi studenti universitari che organizzavano queste sconsiderate performances ad improvvisarsi penosi portavoce di una tradizione che "a tutti i costi" volevano salvare nell'atto stesso in cui, scimmiottandola nei modi,' definitivamente distruggevano. Alcune usanze "risorte" in quei giorni furono in seguito istituzionalizzate sotto l'egida dei Comuni o delle Pro Loco o di associazioni regionali sedicenti culturali (centri invece di sperpero dei denaro pubblico) e ancora si ripetono, tristemente, alla loro data calendariale.
Dopo anni di frustrazioni - vantate più che obiettivamente subìte - perché parlanti una lingua di minoranza, i figli dei contadini, degli operai, degli artigiani, dei salariati che in massa frequentavano l'università grazie ad una legge generosa dello Stato, passarono alla riscossa prendendo le difese della lingua grica che quasi nessuno di loro più parlava contro chi (neanche sapevano bene quali fossero i nemici) la voleva morta. Chiesero confusamente, con la testa avvolta in una nuvola densa che offuscava le menti, facendo proprie le caratteristiche di ben altre minoranze linguistiche di confine, che il greco fosse insegnato nelle scuole. Senza però sapere come e da chi. Non esistevano infatti insegnanti abilitati a farlo. E poi, quale greco insegnare? Quello dei nostri paesi, ridotto ormai un cencio, simile a tela consunta di cui in trasparenza si intravede solo la trama, o il greco di Grecia? Ci fu comunque chi, retribuito, ai bambini delle scuole elementari che in casa loro parlavano ormai esclusivamente una varietà di italiano sub-regionale, in nome di una lingua che a tutti i costi doveva essere salvata, impose di imparare a memoria delle poesie in grico di cui gli scolari non percepivano minimamente il significato. Ho visto personalmente alcuni di questi esserini ammaestrati corrucciare la fronte, angosciati, per un improvviso vuoto di memoria di quei puri suoni per loro senza senso.
Le proposte più fantasiose e stravanganti furono avanzate ufficialmente per arrestare la corruzione del nostro greco e promuoverne la diffusione tra il popolo. Ci fu chi, sempre con la testa dentro la nuvoletta che gli impediva di pensare razionalmente, propose, per risolvere la questione del greco, di occupare terre incolte dell'Epiro dove costruirsi delle casette e passare la stagione estiva. In pratica, trasferire intere popolazioni per alcuni mesi in Grecia.
Si potrebbe continuare a lungo ad elencare follie di professoroni e di studenti di allora se non si fosse pervasi da un sottile sentimento di vergogna per loro. Dirò invece, per amore di verità, che accanto a questo movimento di giovani, oppure confusa con esso, vi fu qualche voce ragionevole, sana, di chi aveva capito profondamente il senso di ciò che negli anni Settanta stava avvenendo. Fu una minoranza, ma ci fu. E questa sì, vivamente emarginata.
Passata la tempesta vedo gli studenti di allora, quelli che si affannavano più dissennati degli altri a far risorgere tradizioni, più accesi nella lotta, più focosi nel rivendicare una coscienza di classe, svolgere oggi la loro attività di professionisti: medici soprattutto, professori, avvocati inseriti in una classe ritenuta "superiore" di cui però non conoscono i codici di comportamento e non ne hanno assunto i tratti, esempi impeccabili di ciò che l'espressione "fuga di classe" vuoi significare. La loro lotta si è conclusa in realtà con la recisione totale delle loro radici.
No - per ritornare alle domande iniziali - non è lavoro di retroguardia occuparsi di tradizioni popolari. Anzi ciò ha un profondo valore sociale e non si è niente affatto reazionari. Basta non farlo come lo ha fatto la pletora di gente sopraddetta. Quella stessa magari che oggi, coerentemente, ci rimprovera di occuparci "ancora di quelle cose". Basta non voler mantenere in vita a tutti i costi i modelli di comportamento ormai superati, le tradizioni, i miti, i riti, le ricorrenze stagionali. E capire invece il perché di certe usanze, scoprire i motivi che le hanno generate, quelli che le hanno diffuse, quelli ancora che ne hanno causato la fine. E vigilare perché certi meccanismi di sopraffazione non si ripetano sotto apparenze differenti.
Una tradizione non deve essere necessariamente conservata. Non è un fossile. Non è un'istituzione statica. E' un momento vivo del quotidiano. Essa nasce solo se il contesto culturale permette la sua nascita. Muore quando l'humus che l'ha generata e nutrita muta. E' come una pianta che vive solo la dove le condizioni climatiche e del terreno le permettono di vivere. Un papiro cresce naturalmente in zone umide, trapiantato nel clima secco del deserto muore. Un mandorlo germoglia e dà i suoi frutti in zone temperate, dal clima mite, trasportato in climi artici muore. Se l'ecosistema si modifica - anche soltanto in alcuni dei suoi fattori - i vegetali, gli animali possono certo adattarsi modificandosi, ma possono anche soccombere per sempre. Definitivamente. I dinosauri sono scomparsi dalla terra e nessuno piange la loro estinzione. Così doveva essere per le mutazioni naturali che ci sono state e così è avvenuto. La fine di una tradizione non accade per meccanismi diversi. Non piangiamo dunque la sua scomparsa. Le idee, le lingue, gli usi sono da considerarsi organismi viventi. Nascono, mutano, si dissolvono in altri nuovi, spariscono. Sono in continuo movimento. Una lingua che muore non può essere salvata. E comunque non muore mai del tutto. Il latino per esempio. E così il greco della Grecìa salentina; esso può dunque essere amato, studiato, usato per quanto è possibile nella vita quotidiana, ma nessuno potrò impedire la sua fine. Non esistono strumenti per imporre a una comunità libera, attiva ed in evoluzione di parlare una lingua se questa lingua non è funzionale e non ha più in sé la capacità di rinnovarsi. Non ha i germi vitali, i principi attivi. Non corrisponde più alla realtà di cui dovrebbe essere specchio. L'immagine vivida del presente si perde nell'opacità di una lingua ormai morta. Idee, concetti, nuovi rapporti, oggetti non trovano più nel grico il loro 'significante'. Neanche nella lingua italiana a volte, di sicuro organismo vivente, che deve attingere a sua volta a lingue straniere, al linguaggio del popolo cioè che ha prodotto la novità e la impone con prestigio. Vita Domenica Palumbo, i Lefons, Mauro Cassoni, Domenicano Tondi, appassionati cultori della nostra grecità, per lungo parte della loro vita dedicarono forze e talento alla strenua difesa della lingua grica utilizzando gli strumenti letterari più vari e i metodi ritenuti ai loro tempi più idonei, senza comunque vincere la battaglia che, accecati dall'amore, conducevano contro i mulini a vento.
Se il grico cade in disuso non si può ascrivere la colpa a nessuno. E' legittimo e doveroso però farlo oggetto di studio per individuare le mutazioni antropologiche e sociali, economiche e culturali che ne hanno decretato inesorabilmente la fine.
Errato e controproducente è occuparsi oggi delle tradizioni popolari del passato con nostalgia e abbandono, come fanno i cosiddetti "cultori", raccontandole semplicemente e accarezzandole, cercando in ogni modo di riportarle in auge. Con ciò non dico, sia ben chiaro, che tutto quello che è passato va cancellato, dimenticando. No. Bisogna del passato, al contrario, serbare memoria gelosa.
"Peccato! Le tarantate non ci sono più come una volta!" mi è capitato di udire. Finalmente! Lo spettacolo indegno di questi ultimi anni ormai è finito. I fotografi dilettanti e ciechi, i signori curiosi, le villeggianti abbronzate che per anni hanno conquistato a spintoni un posto sui balconcini prospicienti la piazzetta della cappella di San Paolo a Galatina possono venir giù. Si chiude. Lo spettacolo, se Dio vuole, è terminato. Cala il sipario. I tempi ormai sono mutati. Il cattivo passato è morto annientato dal "vivo lume della coscienza e della ragione".
I rapporti sociali ed economici sono cambiati. La povertà assoluta e la "miseria psicologica" dei soggetti affetti da tarantismo hanno perduto per sempre le forti tinte di una volta. Dimenticare? Mai! Studiare, per meglio capire; sempre. li passato illumina il presente. li passato, a volte, è il presente e il presente è sempre la radice del futuro.

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