§ MEZZOGIORNO E MOVIMENTO CONTADINO

Il vento del Sud (1)




Maria Rosaria Pascali



Molto spesso la storia ha celato verità incresciose. E il tempo - si sa - copre tutto e aiuta a dimenticare, quando non si alimenta la memoria. Così, la storia dei nostri contadini, mancando addirittura di una completa e specifica scrittura, giunge (quando giunge) alle giovani generazioni in buona parte emendata dalle sofferenze e dagli strazi che l'hanno caratterizzata. Dimenticare, in casi come questi, significa rinnegare una parte del nostro passato e vanificare il senso di tante lotte, e di tante morti. Eppure, si verifica proprio questo: ripiegati nella propria monotona vita di provincia, i paesi che furono i principali focolai di ribellione popolare poco o nulla riecheggiano (fredde lapidi commemorative a parte) di quelle vicende.
Di chi la colpa? Innanzitutto dell'intellettualità, sia essa laica, cattolica, conservatrice o progressista. Il suo approccio ai problemi del popolo è stato fatto - non sempre, ma spesso - con una sorta di paternalismo patetico e distaccato che ben pochi contributi poteva dare alla causa. Ad esso è dovuto - fatte le debite eccezioni - il mancato apporto di una storiografia che potesse essere, per i contadini meridionali, un riconoscimento ufficiale delle loro vicende, persino del loro olocausto. Storie infangate, sommerse e quasi ricacciate in fondo al pozzo del tempo: è tutto ciò che rimane.
Non meno responsabile è da considerarsi la scuola, artefice di una storiografia costruita sugli avvenimenti di maggiore spicco e sulle figure di più gran fama. Ma il movimento contadino è fatto di piccole conquiste, per ottenere le quali ci son voluti secoli di lotte; ed è fatto di piccoli uomini, senza nome e senza cultura, il cui oblio però crea lacune che le vicende dei personaggi di primo piano (reale o precostituito) non possono colmare.
Senza dubbio, allora, il nostro sarà un racconto di parte, nel senso di alternativo al racconto dell'altra parte, quella delle classi dominanti, dei vincitori storici, frutto di scelte mirate e di omissioni clamorose. l'altra campana tornerà così a suonare. Forse un po' stonata, all'inizio; arrugginita dal tempo. Ma via via sempre più chiara nei suoi timbri drammatici. Dirà della storia dei nostri uomini, segregata negli scaffali degli archivi e tra le carte ingiallite del passato. Ma ancora viva in chi l'ha vissuta da protagonista.
Il movimento contadino meridionale ha radici lontane. E' la storia travagliata di un popolo di oppressi, sfruttato, strumentalizzato da ogni forma di potere: quello feudale, quello del Nord, quello dello Stato. Il latifondo, così com'era condotto anche in pieno secolo dei lumi, si rivela una delle più pesanti catene per lo sviluppo economico del Sud. Con questa forma di monopolio terriero, infatti, decine di migliaia di ettari di terreno restano incolti, mentre la malaria regna sovrana. Ma attenzione: quello del latifondismo è un sistema molto stabile, anche se affonda le radici in una situazione precaria. E' un sistema in grado di autoalimentarsi, nonostante l'assenteismo degli agrari. E' un sistema altamente gerarchizzato, tale da costringere il cafone a restare legato alla terra senza alcuna via d'uscita. Nere figure, entrate da tempo nella letteratura del terrore contadino, assicurano ai proprietari terrieri il mantenimento del regime, agendo da despoti, con ferree leggi non codificate, nei confronti dei contadini. Sono i mercanti di campagna, che in Sicilia assumono il nome di gabellotti. Costoro ottengono in fitto interi feudi, che a loro volta ripartiscono e subconcedono in piccoli lotti ad altri affittuari. Il sistema di rendita parassitaria assicura ai padroni enormi profitti, destinati a soddisfare una vita di lussi in città lontane. Ma si gioca per intero sulla pelle dei servi della gleba.
La conservazione del regime si basa, fra l'altro, su un'accorta politica dei matrimoni combinati. Tutto, infatti, è visto in funzione dell'indistruttibilità del latifondo. Così, tra i discendenti, è il primogenito che di regola eredita l'intero patrimonio. Il destino degli altri germani è di poco conto: oltre alla carriera militare, quella ecclesiastica, comportando la perdita dei diritti ereditari, è la soluzione più comunemente adottata. E un'altra figura emerge nel sistema: quella dei galantuomini, fittavoli arricchiti e ascesi al rango di piccoli proprietari terrieri, autentici Mastri don Gesualdo ante litteram. Loro costante preoccupazione è quella di cancellare le proprie origini proletarie e di acquistare prestigio in campo sociale. A questo scopo, avviano i figli agli studi. E questi, una volta conseguita la laurea, cercano di affermarsi come liberi professionisti. Ma la loro maggiore aspirazione è quella di occupare le più alte cariche amministrative. Coi tempo, questo ceto sarà dilaniato da lotte di fazione per la conquista del potere comunale. Nasce il municipalismo. In effetti, la posta in gioco è vitale. Essere sindaco significa avere in mano il demanio comunale, gestire discrezionalmente la distribuzione delle imposte favorire la fazione di appartenenza. Cresce, in questo modo, una piccola e media borghesia corrotta, legata alla rendita pubblica, sorda alle sollecitazioni illuministiche, che tanta parte avrà nella storia locale del Sud.
Il sistema di sopraffazione messo in atto dal potere feudale provoca la nascita delle onorate società e delle belle società riformate, quali organismi pronti a difendere i succubi del regime. La loro azione di mutuo soccorso, scontrandosi con gli interessi dei signori e con lo stesso Stato, che quegli interessi protegge, imprime alle organizzazioni un carattere esplicitamente sovversivo e antistituzionale.
La differenza più vistosa tra autorità statale e nascente autorità antistatale consiste nella capacità di quest'ultima di agire sulla psicologia popolare, inculcando nelle masse quell'alto senso di protezione che il potere costituito non può, non sa o non vuoi dare. In seguito, però, i fini assistenziali saranno utilizzati esclusivamente come strumento per coprire traffici illeciti e attività criminose; e, in parallelo, per alimentare un'ampia base di consenso e di complicità. Laddove poi consenso e complicità non nascono per germinazione spontanea, si fa ricorso a metodi intimidatori. l'omertà finisce così per radicarsi nel sentimento popolare e per diventare vera e propria regola di vita e codice di comportamento. Chi "sgarra" ha scarse o inesistenti possibilità di farla franca. E non sarà certo la giustizia a proteggere la sua incolumità.
Coi tempo, l'"altro Stato" tende ad assumere una forma capillare e ad invadere ogni settore che possa apportare lucro e prestigio. Mafia e camorra, pur essendo entrambe organizzazioni antistituzionali, si caratterizzano per l'assunzione di diverse linee di azione. la mafia è essenzialmente una manifestazione di criminalità economica che si interessa nella prima fase storica dei settore rurale e monopolizza feudi, produzioni e mercati agricoli, pascoli e allevamenti; si allarga poi al settore della speculazione edilizia e dei lavori pubblici, giungendo, sempre passando la mano attraverso alleanze tattiche, interrelazioni con l'oltre-Atlantico e "notti di San Valentino", al traffico degli stupefacenti e delle armi, e culminando con l'impiego "pulito" dei narco-dollari attraverso il riciclaggio. la camorra, pur agendo in questi stessi settori, e pur percorrendo gli stessi stadi intermedi, nasce piuttosto come fenomeno delinquenziale localistico (la cosiddetta guapperia agricola, edilizia, dei lavori pubblici, degli stupefacenti), si basa sulla protezione e sul taglieggiamento, è sottoposta alle regole del gioco, alle alleanze, alle limitazioni, imposte da Cosa Nostra siciliana. Così, la camorra della "Nuova Famiglia" è alleata, ma con vincolo di dipendenza obbediente, a Cosa Nostra; quella della "Nco" di Cutolo, disobbediente, arruffona e persino folcloristica, è stata rasa al suolo; alla 'ndrangheta, o mafia dalle scarpe lucide, calabrese, è stato demandato il compito di attuare i sequestri di persona per autofinanziamento.
Queste organizzazioni sono in grado di raggiungere e infiltrare i massimi poteri dello Stato. Mandano anche propri adepti al Parlamento. Ottengono e restituiscono favori e protezioni a livello politico ed economico. il loro bilancio ha cifre da vertigine. Radicate nella società, imprenditrici, e dunque procacciatrici di lavoro, di lontana e complessa intrastoria, sembrano rinascere dalle proprie ceneri, e fino ad oggi sono state praticamente indistruttibili.
1700. Epoca dei lumi. l'economia mondiale si risveglia. E si risvegliano cultura e idee. E' l'età che, per una parte del nostro continente, segna la fine dell'ancien regime e la nascita di metodi di produzione capitalistici. Crescita demografica ed espansione economica sono gli aspetti più rilevanti di questo meccanismo culminato, negli ultimi decenni del secolo, in una vera e propria rivoluzione politica ed economicoproduttiva. Anche l'Italia è trascinata, per abbrivo. Ma non in modo omogeneo. lo sviluppo è lentissimo nelle aree in cui l'ancien regime dimostra di essere ancora vitale, stabile. Così, nel Regno di Napoli, che vede nel l'arretratezza dell'agricoltura il più pericoloso handicap per la rinascita economica e civile. Il Sud è ancora penalizzato dal rigido sistema feudale, dal latifondismo, dall'abbandono delle terre, in un momento in cui il mercato internazionale si vivacizza a ritmi esponenziali, interessato com'è all'acquisto di materie prime e di derrate alimentari. In questo modo, il Nord riesce a liberarsi del "cadavere spagnolo", con processi di razionalizzazione delle tecniche colturali e di trasformazione del rapporti di proprietà che rendono le agricolture lombardo-padana piemontese e tosco-emiliana altamente produttive. Nel Sud, poche decine di famiglie baronali continuano a tenere in pugno feudi di enormi dimensioni, sui quali esercitano un'incontrastata sovranità.
I condizionamenti che il mercato internazionale impone allo sviluppo economico del Reame lasciano indifferenti i proprietari terrieri, la cui ottica non va oltre la mera difesa dei propri immediati interessi. Ha così origine uno sviluppo subalterno, incentrato su una politica di bassi salari e di pieno sfruttamento delle masse contadine. Anche l'ascesa della borghesia agraria stenta a fornire una strategia di crescita autonoma. E proprio questa borghesia finisce per capitolare di fronte alla colonizzazione dell'economia meridionale, messa in atto dalle potenze industriali.
Il basso costo dei prodotti di lusso, della mano d'opera e delle derrate agricole generano una circolazione di ricchezza che spesso è scambiata per prosperità diffusa. Ma non è così. l'agiatezza di pochi si basa su una vergognosa sperequazione e conduce al totale disinteresse verso le terre che restano in gran parte abbandonate a se stesse, nonostante vi si eserciti la pressione di una massa imponente di contadini affamati.
Su questa classe, dunque, ricade tutto il peso parassitario dei grandi e medi redditieri, di avvocati, di magistrati, di ecclesiastici, di burocrati, di faccendieri. Ha scritto Francesco Saverio Nitti, a proposito della condizione del Regno di Napoli in questo periodo: "Il reddito, in epoca in cui le industrie erano scarse e pochi i commerci, era tenue: era un reddito quasi esclusivamente agrario, quale poteva venire da un paese a coltura estensiva e in gran parte pastorale. l'intero reddito dei feudi era calcolato a oltre quattro milioni di ducati, esenti da tributi, e i feudatari avevano innumerevoli diritti, l'uno più gravoso dell'altro, per i cittadini. Degli oltre duemila comuni, appena 384 erano demaniali, e cioè dipendevano direttamente dal re. Il numero dei famigli e dei dipendenti dei baroni ( ... ) era eccessivo: eccessivo più ancora il numero delle pretese. Circa dieci milioni di ducati prendevano sotto ogni titolo gli ecclesiastici, e il loro numero assommava a oltre centomila, cioè vi era un ecclesiastico per meno di cinquanta abitanti. Popolazione enorme e improduttiva, non forse però più enorme di quello che sarà fra breve il numero dei professionisti usciti dalle università, dei diplomati ,delle scuole secondarie ( ... ) desiderosi di impieghi e quindi bisognosi di mutazioni. Quale poteva essere la vita dei popolo? Una vita grama e stentata; una vita di miserie e più ancora di depressione morale" (F.S. Nitti, Il brigantaggio meridionale durante il regime borbonico, ora in Opere, "Scritti sulla questione meridionale"). Il Reame, in questi giorni, conta appena quattro milioni e 800 mila abitanti. Il 90 per cento dei comuni non ha strade rotabili, e nulla varierà fino al 1863, anno dell'inchiesta parlamentare sul brigantaggio. Aveva scritto il Galanti: "La costituzione feudale co' suoi esecrabili dritti sopra gli uomini e sopra le terre forma dunque il maggiore istrumento delle calamità de' popoli, ed il giogo più crudele sulla libertà civile. Questo sistema è più oppressivo nella Japigia e nella Calabria ( ... ). Ivi i dritti sono infiniti e variano non solo da feudo a feudo, ma da territorio a territorio ... ".
"Fino i giunghi, le mortelle, gli ortaggi, il prezzemolo, i fiori medesimi, che piantavano in vasi di creta nella casa", annota G.M. Galanti (Relazione sulla Japigia, 1791), "non sono esenti in alcuni luoghi da questa contribuzione". la catena dei "diritti" è infinita, capillare: il "laudemio", offerto al barone per la vendita di case e poderi; il "coltonio" (una quantità di grano per ogni coppia di buoi aratori); quelli di "erbetica e carnatica", O "d'angaria" (obbligo di coltivare i feudi dei baroni con una piccola mercede); "de' molini, di piazza, dei trappeti; di pedaggio, e così via.
Eppure, nel cuore del secolo dei lumi, sussultano le fondamenta della tradizione. Rousseau e Montesquieu hanno aperto un fronte vastissimo nel campo delle nuove idee. E sebbene nel Reame non manchino detrattori persino geniali (il siciliano S. D'Ayala, il calabrese F.A. Grimaldi, il salentino E. Personè), Genovesi e i suoi allievi esplorano tutti i campi del pensiero, e pur tra resistenze aperte e ostili silenzi denunciano l'arretratezza culturale, civile, tecnica persino, ed economicoproduttiva del paese. Gli indirizzi degli studi sono vari, e trovano in Filangieri, Delfico, Pagano, Rogadeo, Galanti, Raffaelli, Broggia, Gravina, Galiani e altri gli interpreti più consapevoli delle nuove esigenze. E la Japigia, terra eccentrica rispetto alla capitale, dà un contributo di prim'ordine per gli indirizzi giuridico-economico (Filippo e Tommaso Briganti, Giuseppe Palmieri), tecnico-pragmatistico (Giovanni Presta, Cosimo Moschettini, Giovan Battista Gagliardi), letterario-artistico (Ignazio Falconieri, Ignazio Ciaia, Francesco M. Milizia, Michele Arditi), storico- ideologico (Francesco Antonio Astore), scientifico-medico (Nicola Andria).
Piovono, in questo periodo, le indagini governative per far luce sulla situazione effettiva delle popolazioni degradate, quali erano descritte, fra l'altro, da numerosi intellettuali europei. Il Seicento barocco e dispotico, infatti, ci aveva consegnato solo testi di viaggi immaginari. Il Settecento illuminista, invece, registra i momenti della scoperta, dell'avventura esplorativa sul campo, del contatto col mondo reale. Una schiera di inglesi, di francesi, di tedeschi, mossa da diversi interessi culturali, scende nella penisola e scrive note di "viaggi in Italia", Sud compreso, che, al di là di alcune polemiche preconcette, complessivamente rendono uno spaccato fedele della condizione delle popolazioni peninsulari. E si può oggettivamente affermare che il contenuto dei loro resoconti, per quanto riguarda gli aspetti sociali, è monotonamente .uguale: immutate restando le condizioni di abbrutimento del popolo. Emblematica, allora, la descrizione riportata in un documento anonimo del 1737. Dice: "Se il principe si conducesse da privato alla rivista dell'intero suo regno osserverebbe nei luoghi baronali tutte le figure di selvaggi popoli dell'America, stimando gli abitatori fiere affamate e non uomini ( ... ). Tutti logori e cenciosi, come cacciatori di giornata che si guadagnano il vitto tra selve folte di cespugli e spineti, poiché i baroni pongono in pratica non quel tanto che voleva Platone nella ideata sua Repubblica, cioè che ai contadini si procurasse dal magistrato una qualsiasi uguaglianza di comodità. Ma i baroni vogliono e riducono i loro vassalli che solo uguali siano nella povertà estrema, poscia che hanno per massima che con tale prevenzione non potranno giammai essere intorbidati da ricorsi; anzi che saranno sempre alla cieca ubbiditi" (Matteo Gentile, Fenomenologia del sottosviluppo).
Intanto, Napoli e pochi altri grandi centri urbani del Reame attraggono enormi risorse umane e materiali, senza peraltro attivare nuovi settori produttivi. Lo spreco è gigantesco, mentre ai contadini, in alternativa al bracciantato, è offerto lavoro precario e spesso improduttivo. La provincia è un deserto brulicante. Ha inizio il movimento migratorio verso le città e verso la costa, con progressivo spopolamento delle campagne e delle aree interne.
Il sistema feudale, anche se ben radicato nel tessuto del Reame, è al tempo stesso un sistema in crisi. Una crisi istituzionale particolarmente evidente nel trentennio 1730-1760, periodo, come abbiamo visto, di rapida crescita demografica, di sviluppo degli scambi, di aumento della produzione agricola. Di fronte al nuovo clima e alle nuove esigenze, la classe egemone commette l'errore di restare ancorata su vecchie posizioni. Non fa concessioni. Anzi, tenta di convogliare le forze propulsive a tutto vantaggio dei ceti consolidati. Questa politica finisce per arricchire ulteriormente la classe agrario-feudale, anche se non può impedire che altri ceti traggano vantaggio dalla situazione. Si tratta della classe nobiliare e della nascente borghesia urbana e campagnola. Nonostante gli sforzi del baroni di sopprimere la loro intraprendenza e di ricondurli nell'alveo feudale, queste classi dimostrano un dinamismo e una vitalità difficilmente controllabili. Una lotta impari, certo. Ma che costringe i feudatari ad assumere atteggiamenti contraddittori. Infatti, pretendendo l'osservanza del diritti feudali, che comportano un limitato sfruttamento della terra, finiscono per contrastare i loro stessi interessi di grandi proprietari e di allevatori.
La stessa corona ora si dimostra ostile verso la giurisdizione feudale, che sfugge al suo controllo e che si limita a devolvere tributi irrisori, grazie ai privilegi fiscali di cui gode. Spesso, poi, alle esenzioni legali si accompagnano vere e proprie evasioni, compiute anche con la complicità di una magistratura votata ormai alla causa feudale, notevolmente redditizia. Scrive a questo proposito il Galanti, (in Descrizione politica e geografica delle Sicilie): "Merita attenzione il vedere nel nostro Foro che quando i Comuni contrastano co' baroni per il catasto, tutto è feudale: quando il fisco domanda il relevio, tutto è burgensatico. Per lo passato col mezzo del relevio si sono garantite molte usurpazioni ardite a danno de' Comuni".
l'azione svolta dalla corona contro i grandi feudatari acquista maggior forza quando sono chiamati nel governo alcuni riformisti illuminati, il Galiani, il Genovesi, il Filangieri. Ma i risultati non sono quelli sperati. Il peso economico e politico dei latifondisti non diminuisce. In compenso, però, si rafforza la borghesia agraria, che da una parte ottiene dal potere regio feudi e privilegi, dall'altra - con la politica dei matrimoni - sottrae al nobiliato feudale buona parte delle terre. Si tratta di un nuovo ceto di proprietari che, sebbene aspiri prevalentemente a riconoscimenti nobiliari, nella sostanza guarda alla terra in modo nuovo e altamente produttivo.
Le proposte e gli interessi della nuova classe sono descritti magistralmente da Filangieri nella Scienza della Legislazione. L'Autore mette a fuoco le modificazioni intervenute a livello nazionale e internazionale nel suo tempo, rispetto alla situazione nella quale si trovavano a scrivere il Genovesi, il Broggia e il Galiani. In effetti, da allora le cose sono molto cambiate. Le teorie fisiocratiche, nate all'epoca dei Genovesi, si sono affermate in tutta Europa, soprattutto dopo la crisi agricola del 1764, che rappresentava un'ulteriore conferma della necessità di una profonda riforma agraria. Ma, prima ancora del Filangieri, il Briganti vede nella borghesia agraria la parte "sana e robusta" della società, la sola in grado di risollevare le sorti del Meridione. Nella sua proposta di riforma agraria, anche lo Stato assume un ruolo essenziale. Suo compito dev'essere quello di costringere i grandi proprietari terrieri e render partecipe delle loro ricchezze l'affollatissima classe degli indigenti. In questo modo, "si renderà la calma a due cittadini, l'uno schiacciato dal gran fardello dell'opulenza, l'altro anelante sotto il flagello della miseria". Fatto è, però, che (fino all'ultimo decennio del secolo) la posizione dei baroni viene solo superficialmente scalfita dalla strategia antifeudale. Abusi e squilibrata ripartizione della ricchezza saranno, per molto tempo ancora, i pilastri di uno smorto organismo sociale.
Durante il dominio austriaco (1707-1734), malgrado un certo dinamismo avviato nella capitale e nei maggiori centri costieri e portualicommerciali, resta sostanzialmente immutato lo stato di arretratezza ereditato dagli spagnoli. L'avvento della dinastia borbonica (1735-1759) segna invece l'inizio di una fase di sviluppo piuttosto equilibrato. L'agricoltura attraversa un periodo di insolita regolarità. La disponibilità di derrate alimentari è sufficiente a soddisfare le esigenze di una popolazione in crescita. Ma già verso la metà degli anni '50 la situazione è radicalmente mutata. Dal '55, infatti, ha inizio una serie di annate disastrose ('55, '59, '61, '63), dovute a calamità atmosferiche (siccità estive, -gelate invernali) e ad invasioni devastanti di locuste. La crisi riduce la popolazione in un grave stato di denutrizione. Aumenta la mortalità. L'azienda agricola contadina vive in condizioni più precarie che mai, stretta nella morsa di usurai, di speculatori, di accaparratori di derrate. Negli ultimi trent'anni del secolo, le tensioni delle classi rurali sono sul punto di esplodere. L'ostilità non è diretta solo contro i baroni, ma anche contro parte del clero e contro i possidenti borghesi. Nel '92 fallisce il tentativo di divisione dei demani comunali. Lo scontro con i contadini è inevitabile. Gli assalti alle terre incolte saranno, fino al '96, costanti -forme di rivolta popolare. Intanto, anche gli scambi si ridimensionano. Gli interessi delle grandi potenze sono tutti rivolti verso la guerra imminente contro la Francia. Con la finanza di guerra, poi, i feudatari non possono più evitare di contribuire in misura cospicua al maggiore fabbisogno economico.
Da sempre, le masse rurali sono utilizzate come strumento di risoluzione delle controversie tra re e signori. Di fronte all'eterna promessa di una ripartizione delle terre, i contadini fanno il gioco dei potenti. La menzogna, per quanto evidente, non spegne mai la speranza che possa trattarsi della volta buona. Così si sono succeduti i secoli. E così si è perpetrata la sconfitta di un popolo che nelle lotte ha sempre svolto la funzione di carne da macello da sacrificare per la conquista o la tenuta del potere.
1799. Il miraggio di migliori condizioni di vita, alimentato dagli ideali della rivoluzione borghese, induce il mondo rurale ad appoggiare la nascita della repubblica partenopea, sotto l'egida delle armi francesi. Ma la delusione è puntuale. L'occupazione delle terre si rivela un'impresa ardua, perché si scontra con gli interessi di una classe egemone più agguerrita che mai. Non solo. I contadini vengono privati anche di quei pochi privilegi che erano stati concessi dal ferreo regime feudale. E restano esclusi dalle amministrazioni repubblicane, alle quali possono accedere solo esponenti borghesi. La scoperta dell'inganno provoca immediate controrivoluzioni popolari e filo-borboniche, il risentimento e il rancore generano il disinteresse delle masse per le sorti della giovane repubblica, che diviene in questo modo facile preda delle orde sanfediste del cardinal Ruffo.
Il fenomeno del brigantaggio nasce allora come espressione di rivolta armata contro uno stato di crisi sociale patologica. Dunque, non un fenomeno delinquenziale diffuso, ma una vera e propria rivolta contadina. Quasi sempre il ruolo dei briganti è quello della restaurazione del vecchio regime attraverso l'abbattimento dello strapotere dei proprietari terrieri. In questo modo, il brigantaggio finisce per diventare una milizia di riserva, da manovrare nei casi in cui il potere costituito vacilli o rischi di crollare.
Il fenomeno degenera nel momento in cui nasce la figura del "duce supremo", capo dei briganti. Nella maggior parte dei casi si tratta di un ,fanatico omicida che, in nome della restaurazione, aizza masse di reietti abbrutite dalla fame, rendendole protagoniste delle barbarie più inaudite. Sopraggiunge, così, la sanguinosa reazione di Fabrizio Ruffo. Il 4 maggio 1799, una spedizione di briganti, guidata dal cardinale e denominata l'Armata della Santa Fede, dopo aver saccheggiato Matera, si dirige alla conquista di Napoli. In nome della religione e di Maria, costoro si macchiano di orrendi delitti, consumano le più efferate scelleratezze. Sotto i colpi di questa tetra armata, cadono la giovane repubblica partenopea e il sogno di un'Italia moderna.
La restaurazione del regime borbonico (1799-1805) rappresenta, in ogni caso, la chiusura di un'epoca. I tentativi di ripristinare il vecchio assetto istituzionale, infatti, naufragano immediatamente. Tuttavia, il clima di incertezza politica e la crisi ancora in corso permettono alle decrepite amministrazioni locali di sopravvivere fino all'inizio del decennio francese. Dopo di che, esse vengono definitivamente stroncate dalle riforme amministrative di quegli anni. La borghesia rurale e urbana, invece, acquista durante la restaurazione una piena coscienza di classe. Nel decennio, poi, la sua ascesa è senza precedenti.
Il ritorno dei francesi, nel 1806, segna una svolta decisiva nello scontro tra potere regio e potere feudale. I Codici Napoleonici, con la foro possente carica eversiva, portano al rovesciamento dei diritti feudali. Le più importanti fonti di reddito baronali, vale a dire le decime e i terraggi, le esazioni per erbatica, fida e carnatica sugli animali altrui, sono abolite. Nel contempo, vengono confiscati i beni ecclesiastici. Riaffiorano le speranze del popolo. Ad alimentare le quali, ci sono precisi dati di fatto. Nel 1807 sono istituite delle "Commissioni feudali", con l'incarico di procedere all'assegnazione ai contadini di una parte delle terre sottratte al clero. Ma quella della "terra ai contadini" resterà un'illusione.
Grandi fittavoli, commercianti, piccola nobilità provinciale e usurai saranno i soli veri beneficiari dell'operazione. Mentre i contadini, ridotti in condizioni disastrose e decimati dalle terribili carestie degli anni 1809-1811, non potranno neanche usufruire delle terre comuni e degli usi civici. Prende vita una vasta corrente di opposizione alla politica dei napoleonidi, di natura, questa volta, solo popolare, che sfocia nelle rivolte del 1806-1807 e soprattutto del 1809-1810
E siamo al 1812. Mentre il braccio minaccioso del brigantaggio ricomincia a seminare il terrore, nasce in Sicilia la Carta di Spagna, fondata sul principio della sovranità popolare. Essa riscuote un buon successo, essendo rivendicata addirittura in altre parti del paese. In concreto, però, nessuna reale conquista ottiene il mondo contadino.
Ma il fondo non è stato ancora toccato. Nuove sconfitte, e di ben altra portata, si profilano per le masse rurali. Per l'ideologia del "sacrificio" del Mezzogiorno non c'è strategia dell'inganno che non venga applicata. Cambiano le egemonie, cambiano le tecniche: ma la storia del popolo si ripete con drammatica puntualità gattopardesca. E la nuvola d'ira che oscura, ricorrente, la civiltà contadina nulla può contro il calcolo di chi, ai vertici, manovra i fili del potere.

(fine prima parte)


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