§ FILOSOFIA DELLE "AVVENTURE COLLETTIVE"

Ricerche sul futuro, risposte al futuro




M.C.M., A.F.



La Fiat andrà a pescare nel gran serbatoio dei laureati in legge e in Lettere. Ori le contenderà il laureato in Filosofia e in Psicologia. Abituati a guardare al mercato della disoccupazione intellettuale quasi come a un fatto scontato, lo scenario disegnato dai due più grandi gruppi industriali del Paese ha qualcosa di inconsueto. Pochi, insomma, fino ad oggi si sono accorti che gli anni '90 potrebbero finire coi diventare gli anni della lotta al coltello fra le aziende, per accaparrarsi il maggior numero possibile di cervelli. "Al di là dell'immagine cruenta - preconizza Enrico Auteri, responsabile dell'organizzazione e del personale del gruppo Fiat - l'azienda dovrà pesantemente attrezzarsi per riaddestrare non l'ingegnere meccanico che diventa mecatronico, ma il laureato in discipline umanistiche". Esaurito il filone degli ingegneri, del fisici, dei matematici, non resterà che scavare nelle miniere dei laureati in Letteratura e in Filosofia: "Sarà una strada obbligata, ma anche costosa", prevedono a Torino.
Certo, il futuro delle Università è molto diverso da come in molti lo immaginavano agli inizi degli anni '80; ma continuano a pesare inquietudini e apprensioni provocate soprattutto dal mercato della forza-lavoro laureata. Qualche cifra può aiutare a riflettere. Nel 1985, le aziende del gruppo Iri hanno assunto 2.550 laureati su circa 70.000 che in media ogni anno escono dall'Università. Più esplicitamente: nel 1985 poco meno di un terzo, su 9.228 nuove assunzioni, vanta una laurea. Mentre nel 1984 solo un quinto degli assunti era fornito di questo titolo. Complessivamente, la situazione dei laureati nel gruppo Iri è passata dal 6,6 per cento dell'84 al 6,9 per cento dell'anno successivo. E' cresciuto il fabbisogno in particolare per la facoltà di Ingegneria, dalla quale l'Iri ha chiamato l'11,7 per cento del totale dei laureati.
Le cifre Fiat, molto più ridotte, confermano però il maggior interesse che le aziende pubbliche e private nutrono per il neolaureato. Un bene di cui si incomincia ad avvertire la penuria. Questa è anche la convinzione della Fondazione Agnelli, che ha recentemente portato a termine un'indagine sulla zona tecnologica del Piemonte, denominata Tecnocity, da cui si ricava che nei prossimi anni a una forte richiesta di neolaureati corrisponderò un'offerta scarsa.
Ma che cosa pensano i due grandi gruppi industriali dell'Università italiana? Nelle teste di Fiat e Iri si agitano pensieri e si predispongono progetti. Ma ancor prima di pensare e di progettare, hanno tirato un sospiro di sollievo, constatando che l'Università è cambiata. Si è evoluta. "Siamo finalmente usciti - dice Auteri - dal ciclo perverso della fine degli anni '60 e degli anni '70, quando c'erano le lauree facili che davano una legittimazione formale, ma non di sostanza". L'Università è maturata. Ma anche le aziende - riconosce lo stesso Auteri - hanno superato il periodo possessivo in cui gli imprenditori, in modo più o meno rampante, avrebbero desiderato l'Università a loro immagine e somiglianza. Mai come oggi i rapporti fra industria e sapere sono stati così distesi, così armonici e così attraenti. Una prova? l'attenzione che da qualche tempo a questa parte i big dell'imprenditoria dedicano proprio all'Università. Capita di vederli varcare i portoni e davanti a platee di studenti sentirli parlare di innovazione, di sviluppo, del futuro, della finanza e delle imprese. I Romiti, i Ghidella, i Prodi, tanto per restare agli esempi Fiat e Iri, hanno abbattuto vecchie diffidenze, e superato lontane incomprensioni. Nelle grige aule di un Politecnico o di una facoltà di Economia e Commercio assaporano trionfi impensabili qualche anno fa.
Ma che cosa corrisponde a questo nuovo clima di buoni propositi e di ,atti distensivi, grazie ai quali ciascuno è convinto di fare la propria parte costruttiva fino in fondo? Per Alessandro Ovi, braccio destro di Prodi, il mutato clima ha contribuito a far nascere "l'esigenza di un discorso nuovo sulla ricerca applicata". Esigenza che ha spinto l'Iri a creare, insieme con le Camere di Commercio, con il Consiglio nazionale delle Ricerche e con l'Università, alcuni Consorzi scientifici che si occupano di ricerca e di formazione. Di queste entità - fra lo scientifico e l'economico - ne sono nate a Genova, a Torino, a Milano, a Pisa, a Roma, a Napoli, a Bari e a Catania. Altre ancora, secondo quanto è previsto, ne dovranno nascere. C'è, nelle parole di Ovi, la convinzione che il modello consortile sia oggi come oggi l'unica risposta possibile al modello statunitense della ricerca. Negli Stati Uniti, grazie a laute sovvenzioni dell'industria privata, la leadership del l'elaborazione tecnologica è saldamente in mani universitarie. Nessuno può seriamente pensare di insidiarne il ruolo storico. Anche perché tutti sanno che comunque il suo volume di ricerca ricadrà in gran parte sull'industria. Ma il modello americano è difficilmente proponibile per l'Italia. Qui l'Università soffre di gigantismo, di scarsa selezione all'entrata, di appesantimento burocratico. "Quale industria, sia privata sia pubblica - si chiede Ovi - finanzierebbe un progetto di ricerca, superiore ai cento milioni, da svolgere interamente nei laboratori universitari?".
La formazione del Consorzi - un poco sull'esempio anglosassone degli "Science Parks" e dei "Business an innovation centers" - avrebbe come primo obiettivo la scelta di un terreno diverso dall'Università su cui elaborare una proposta scientifica. Come in una partita a scacchi, in altre parole, occorre sapere con quale mossa aprire per impostare proficuamente la strategia del gioco. "Privilegiare le idee", vale a dire le mosse iniziali, è la parola d'ordine che l'Iri ha lanciato. Se le idee sono buone, si troveranno spazi e quattrini per poterle al più presto mettere in pratica.
Anche la Fiat, come l'Iri, è in vena di sperimentazioni avanzate. Ma alla configurazione di uno scenario futuribile - cui da qualche anno si dedica la Fondazione Agnelli - affianca un impegno di collaborazione più tradizionale con l'Università. Quest'anno, ad esempio, sono state elargite quarantadue borse di studio. Ma con una particolarità, spiega Auteri: "Prima di decidere come e a chi darle, lasciamo affiorare dai singoli settori operativi problemi tecnici suscettibili di riflessione scientifica. li trasmettiamo alle facoltà di ingegneria. Qui, i professori li fanno propri e li adattano aIl'Università, ricavandone argomenti per tesi di laurea. Chi otterrà la borsa di studio, un premio che oscilla fra i tre e i cinque milioni, dovrà alla fine operare anche nell'ambiente dal quale il problema tecnico è emerso". la trovata è quanto mai semplice: per quarantadue studenti la preparazione delle tesi di laurea, oltre che a tavolino e nei laboratori universitari, verrà condotta in qualche settore della Fiat.
Più competenza operativa e meno astrazioni. Il tutto, ovviamente, calato in una mentalità pragmatica. Molto in sintesi, è questo il modello cui ogni impresa vorrebbe vedere uniformarsi il futuro laureato. Anche perché c'è la convinzione che più delle competenze super-specialistiche conti una solida preparazione di base. In fondo, né Iri né Fiat oggi pretenderebbero l'appiattimento dei programmi universitari sulle esigenze specifiche delle singole aziende. E poi, dicono, quali aziende o quali settori privilegiare? Il sistema imprenditoriale, in questi anni più che nel passato, è flessibile, elastico, innovativo. Per Auteri e per Ovi, c'è. bisogno di laureati con qualità adattabili; che se oggi acquistano un nucleo di conoscenze specifiche, sanno anche che domani, in nome dell'impresa, possono metterlo in discussione.
A quale laureato pensano le aziende? Non c'è alcun dubbio che il mondo industriale continui a privilegiare le facoltà a indirizzo scientifico ed economico, anche se - dicono gli esperti - ai nostri giorni è più importante la formazione in ambito lavorativo. All'Università, dunque, il compito di offrire una consistente e non fumosa o generica preparazione di base. Alle aziende, invece, quello di riplasmarla e di svilupparla. La verità è certo elementare, ma porta con sé una conseguenza importante: il mercato del neolaureato super-specializzato non trova un'offerta apprezzabile, salvo forse - specificano gli esperti - che nelle piccole e medie aziende meno attrezzate e meno capaci di elaborare una cultura propria, una filosofia della gestione.
I grandi gruppi, come la Fiat, che ogni anno spende il due per cento del fatturato per la formazione, rifiutano la dicotomia fra un tempo in cui si studia e un tempo in cui si lavora. "Abbiamo bisogno di persone - nota Auteri - che anche nel modo di apprendere siano disposte a rimettere in gioco le loro informazioni". Per questo, oltre alla preparazione di base, la Fiat chiede che l'Università insegni ad apprendere. Chi esce da una qualunque facoltà dovrebbe avere acquisito un metodo che gli consenta di continuare a studiare. "Per il nostro gruppo - dicono a Torino - questo è un elemento fondamentale della crescita costante del neolaureato e che appartiene anche al futuro delle aziende".
C'è sempre una componente di natura previsionale nelle analisi del presente. La conoscenza del presente per il presente non sembra in realtà un obiettivo primario al di là delle esigenze scientifiche; in effetti, si conosce per poter guidare il proprio comportamento futuro, o semplicemente per sapere che cosa ci aspetta. In questo senso, dunque, si possono leggere le ricerche sul "presente italiano" come altrettante ricognizioni di alcuni aspetti cruciali del mutamento sociale in corso, mutamento destinato appunto a spiegare i suoi effetti nel futuro.
Chi abbia seguito le mode culturali del secondo dopoguerra sa bene che, a cavallo tra gli anni '60 e '70, si sono rovesciate sui lettori dell'Occidente decine e decine di libri e di saggi sul futuro. Per quanto ispirati dalle migliori intenzioni metodologiche e da nobili aspirazioni politiche, questi studi, rivisitati a pochi anni di distanza, lasciano piuttosto delusi. L'impressione dominante, in chi li legga oggi, è che in essi abbia fatto capolino una certa arroganza intellettuale, attraverso l'idea che del futuro si potessero costruire mappe precise. Nei fatti, oggi sappiamo che non è così. Ogni tentativo di "predizione" si rivela, dopo pochi anni, più oggetto di divertimento che guida all'azione. Per questa ragione, la Fondazione Agnelli ha posto al centro della propria riflessione gli errori della futurologia tradizionale, e ovviamente non ha inteso ripercorrerne le strade. Ma questo non vuoi dire che, mentre l'abusato e fatidico 2000 si avvicina rapidamente pur restando ignoto, si debba preferire una gestione economica e politica ispirata al criterio del giorno per giorno, tra il cinico e lo sconsolato. Anzi, uno degli stimoli principali che hanno fatto intraprendere alla Fondazione un programma orientato esplicitamente allo studio del futuro è proprio la constatazione dello scollamento tra gli orizzonti temporali, sempre più brevi e affannosi, propri del sistema politico, e quelli economicamente dilatati, propri dell'universo scientifico e tecnologico. Né il fallimento della futurologia basata sul modello Kahn implica la non percorribilità di un qualunque sentiero di studio del futuro.
Se è in effetti tramontata, con tante altre cose, l'idea che esistano tendenze irreversibili e generali dietro la molteplicità del fatti, e con essa l'ambizione di descrivere il futuro in tutti i suoi aspetti con le sole conoscenze dell'oggi, è anche vero che con un poco di modestia intellettuale è possibile riscoprire, in ambiti limitati, uno spazio per discorsi ragionevoli sulle "conseguenze future delle scelte (o degli eventi) presenti". Esistono molti casi in cui le risultanze finali di fatti presenti e del tutto conosciuti sono destinate a influenzare il futuro prossimo. Il caso tipico è quello delle dinamiche demografiche: sono già nati tutti coloro che entro il 2001 entreranno nelle università, o nelle forze armate, o nel mercato del lavoro; provare a conoscere le grandezze in gioco, la distribuzione geografica, gli effetti di sovraccarico o di alleggerimento delle tensioni che i nuovi flussi comporteranno è al tempo stesso possibile e utile. E' proprio sulla base di queste considerazioni che la Fondazione ha dato vita, negli anni '80, ad una serie di ricerche unificate dal medesimo filo conduttore: cercare nel presente le sparse "notizie del futuro" che già esistono qua e là, purché ci si dia la pena di cercarle, e quindi provare a giocare d'anticipo, sulla base di queste conoscenze, per elaborare in sede istituzionale, economica, formativa, le "risposte" al futuro.
Si è trattato di mettere a punto una metodologia di "previsione per fattori", ossia di individuare i pochi ambiti esplorabili con certezza che hanno al tempo stesso un valore strategico nell'orientare le dinamiche sociali: è il caso delle dinamiche demografiche e dello sviluppo tecnologico. Le aree che questo metodo permette di toccare non sono dunque poche né marginali: se cumulate, queste "notizie" permettono di gettare uno sguardo su aspetti strutturali di rilievo per l'Italia dei prossimi decenni. Si è tuttavia voluto evitare che dalle singole componenti emergesse la tentazione dello "scenario globale", che riporterebbe alle debolezze metodologiche degli anni '60. In realtà, se possiamo sapere molto del singoli ambiti, non sappiamo assolutamente come essi potranno interagire; e volendo immaginare dei risultati globali, non si farebbe altro che annacquare i pochi ma solidi punti conoscibili.
Il primo filone ad essere esplorato in quest'ottica è stato proprio quello degli effetti sociali ed economici del mutamento demografico, che - come detto - rappresenta un'esemplificazione classica del concetto per cui le dinamiche del presente sono destinate a produrre effetti nei decenni successivi. Gli anni che stiamo vivendo sono, dal punto di vista dei mutamenti demografici, anni cruciali. Dopo una tendenza vigorosamente ascendente di durata secolare, la popolazione italiana sta passando, in modo estremamente più rapido di quanto sia avvenuto altrove, allo "stato stazionario". Questo vuoi dire meno nascite, cioè meno scolari, meno studenti, soprattutto a partire dai primi anni '90; ma vuoi dire anche più anziani e, quindi, a parità di quadro giuridico, più pensionati. Ora, sappiamo che le regioni meridionali sono molto fontane dal mito del "Sud prolifico", anche se lì i tassi di natalità rappresentano ancora livelli elevati. Ebbene: al di là delle informazioni che i dati Istat ci danno e che noi proiettiamo sui mutamenti sociali e culturali, i differenziali demografici territoriali sono importanti in quanto segnali di futuri differenziali socio-economici. Più nascite concentrate in un territorio voglion dire che sarà lì che si formeranno i nuovi flussi di forza-lavoro, che sarà lì che saranno necessarie infrastrutture scolastiche, abitative, ecc. Ma la trasformazione della struttura per età della popolazione e della sua grandezza complessiva (gli italiani nel 2001 saranno l'1,6% in meno rispetto al 1981), non sarà che uno tra i fattori influenti sul mercato del lavoro. Sono infatti dei tutto ragionevoli le previsioni di un forte aumento del tasso di attività femminile, oggi tra i più bassi in Europa, e di quello degli anziani, a causa del miglioramenti sociosanitari e dei mutamenti nelle aspettative della popolazione interessata. Ne deriverà un mercato del lavoro, nei prossimi decenni, molto più "grande" avremo un'Italia più "piccola" in termini demografici assoluti, ma considerevolmente più "attiva". E anche questa è una sfida che non potrà essere affrontata se non introducendo il massimo di flessibilità nella vita lavorativa.
Per quanto feconda di conseguenze, la dinamica demografica non è l'unica che possa interessare in una prospettiva di "previsione per fattori". La stessa cultura delle scienze sociali è oggi disposta a riconoscere lo sviluppo tecnologico come uno tra i più rilevanti (se non il più importante) fattori di mutamento della società. Non è dunque un caso se il grande comprimario delle ricerche sul futuro è la tecnologia, che è diventata anzi l'assoluto protagonista nel momento in cui dalle ricerche si è passati alla diffusione dei risultati e alla disseminazione di alcuni concetti-chiave presso l'opinione pubblica. L'indicazione di fondo emersa dall'esercizio di previsione tecnologica è quella di un sistema economico soggetto ad una forte pressione. Il sistema economico italiano sembra avere le risorse di elasticità e di flessibilità necessarie per assorbire i contraccolpi della nuova ondata di cambiamento tecnologico, ma al tempo stesso appare gravemente in ritardo e seriamente minacciato rispetto alle grandi opzioni tecnologiche.

La tecnologia. I tempi in cui le diverse aziende avviano concretamente il cambiamento del l'organizzazione del lavoro possono variare moltissimo: resta il fatto che, a fronte delle innovazioni tecnologiche di processo e del l'introduzione di macchine e di sistemi di macchine che utilizzano l'intelligenza artificiale - controllo numerico, robotizzazione, monitoraggio, progettazione e produzione assistita da calcolatore - perseguire con coerenza obiettivi di maggiore produttività ed efficienza sembra comportare necessariamente cambiamenti organizzativi che hanno determinate caratteristiche comuni. Questi cambiamenti, lungi dall'esaurirsi una volta per tutte, sembrano evolvere secondo una sequenza logica in cui si identificano almeno tre fasi concettualmente distinte: l'organizzazione del lavoro tradizionale di tipo tayloristico, valida e conveniente per sistemi tecnici di produzione che non vadano oltre la meccanizzazione e l'automazione rigida; l'organizzazione del lavoro innovativa di tipo sistemico, in aziende che fanno uso ampio di automazione flessibile di processo; l'organizzazione integrata in imprese o gruppi di imprese legati da rapporti "fornitore-assemblatore finale" e tra loro collegati "a rete" da un sistema informativo e di livellamento della produzione, avente come obiettivo la saturazione ai 100% degli impianti.

Figure professionali degli anni '90. Questi mutamenti organizzativi, nei loro differenti stadi, comportano cambiamenti sostanziali delle professionalità, in primo luogo a livello operaio e, subito dopo, a livello di gerarchia di officina, di impiegati, e, infine, nello stesso management. Ed è proprio l'identificazione delle professionalità operaie che si trasformano a costituire oggetto di indagine: sia per poter dare una risposta al l'interrogativo che tutti si pongono di fronte all'evidente declino dell'epoca del l'opera io- massa e di fronte alla riduzione dell'occupazione industriale; sia, d'altro lato, per poter identificare - in termini qualitativi - i fabbisogni di professionalità in officina e in ufficio per i prossimi sette-dieci anni; sia, infine, e come conseguenza determinante, per poter delineare appropriate linee-guida di formazione professionale per i mestieri industriali che si modificano o che sono del tutto nuovi: caso tipico, in quest'ultima categoria, il conduttore di sistemi.

La nuova fabbrica. Molte figure professionali scompariranno, altre - la maggioranza - muteranno profondamente caratteristiche e peso numerico, altre ancora resteranno pressoché immutate. In linea di massima (e fatto salvo comunque il dato di fondo, secondo cui i mutamenti di tecnologia degli impianti sono qualcosa di necessitato, mentre le modifiche dell'organizzazione del lavoro sono opzionali e quindi potranno verificarsi in tempi e modi diversi) ne risulta una chiarissima conferma di come in aziende che vogliano cogliere a fondo i vantaggi dell'evoluzione tecnologica le figure professionali emergenti abbiano caratteristiche simili al lavoratore che nella meccanica è chiamato "conduttore di sistemi". Certo, non tutta la fabbrica innovativa si popolerà di "conduttori", ma è probabile che il loro peso percentuale possa giungere intorno al 40-50% della forza-lavoro di produzione.
Il processo di diffusione della tecnologia è dunque imponente, interessa tutte le figure sociali ed è già consistentemente in atto nella società italiana. la questione determinante che emerge riguarda dunque non il "se" o il "quando", ma il "come" la società italiana può partecipare a questo processo innovativo. Non è un caso che si parli di società e non, ad esempio, di industria o di sistema delle imprese. E' infatti evidente che l'attività innovativa non dipende solo dall'iniziativa di pochi o tanti imprenditori capaci di felici intuizioni; essa ha invece tra le premesse indispensabili la presenza di competenze e di disponibilità, che l'imprenditore utilizza, indirizza e coordina, ma che costituiscono una precondizione necessaria dell'attività innovativa: entrano in gioco le banche, i quadri tecnici, la forza-lavoro, i sindacati, i politici locali e nazionali, le Università. Ma entrano in gioco anche le famiglie: nelle loro scelte di formazione, come in quelle di investimento. E in questo senso, l'innovazione, e in generale la transizione verso un sistema ad alta tecnologia, sono "avventure collettive" impensabili senza la sinergia di molti fattori della società.


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