§ PREVISIONI

Spettro della depressione meraviglie dello sviluppo




Carlo De Benedetti



L'economia mondiale è oggi di fronte a un grande rischio e ad una grande opportunità. Il grande rischio è di non riuscire a bloccare una spirale perversa che sta portando verso un ciclo depressivo nascente dagli Stati Uniti e che potrebbe avere lunga durata e gravissimi effetti su tutti i Paesi. la grande opportunità si basa sulle possibilità offerte dalle nuove tecnologie e dalla globalizzazione dei mercati per l'avvio di un nuovo ciclo di sviluppo industriale in grado di determinare un nuovo salto nel processo di crescita internazionale.
Queste due strade potranno determinare lo scenario dei prossimi anni. Non vi è alcun dubbio che lo scenario mondiale si è andato fortemente oscurando nel corso dell'ultimo anno. Il deficit commerciale dell'economia americana è certamente il fattore più determinante e più appariscente degli squilibri che turbano il quadro mondiale. I dati sono noti a tutti: ma forse è utile ricordare che mentre negli Anni '60 la bilancia corrente degli Usa aveva accumulato un surplus di 33 miliardi di dollari e negli Anni '70 un deficit di 4 miliardi di dollari motivato dagli shock petroliferi, negli Anni '80 gli Stati Uniti hanno già accumulato un disavanzo di ben 410 miliardi di dollari.
Dai picco dei 1985 a oggi, il dollaro si è svalutato di oltre il 70% rispetto alle valute europee e allo yen: ciò nonostante, la bilancia commerciale americana continua a dimostrarsi insensibile e a presentare deficit mensili dell'ordine del 15 miliardi di dollari. Anche se il dollaro perdesse un altro 20% del suo valore, difficilmente potrebbe riaggiustare i conti degli USA, mentre si accelererebbe il processo depressivo nel commercio internazionale. Lo sbilancio commerciale americano non è tuttavia che la punta dell'iceberg del problema. L'anno scorso gli acquisti dall'estero di titoli del Tesoro americani hanno rappresentato circa il 22% delle nuove emissioni, contro il 4% del 1983. Il debito netto verso l'estero di questo Paese, che ancora nel 1984 era creditore netto, si appresta a superare i 300 miliardi di dollari (quasi tre volte il debito del Brasile) e fra tre anni potrebbe raddoppiare.
E' una situazione di insostenibile dipendenza dai capitali esteri, soprattutto confrontata con la situazione delle "controparti" degli Usa. Non vi sono dubbi che oggi la principale controparte è il Giappone, un Paese che ha problemi di segno opposto a quelli degli Stati Uniti, ma altrettanto seri. Essi vanno messi in relazione non solo all'abnorme surplus della bilancia corrente (86 miliardi di dollari nell'86), ma anche alla crescita del flusso di capitali in uscita dal Giappone (da 32 miliardi di dollari nell'83 a 132 miliardi di dollari nell'86). La maggior parte dei flussi di capitali in uscita dal Giappone è rappresentata da investimenti di portafoglio: si calcola che i giapponesi abbiano sottoscritto almeno 100 miliardi di dollari in buoni del Tesoro americani. La grande forza finanziaria del Giappone è però anche il segno - e in parte la causa - di alcune debolezze. La società giapponese sta cambiando: la disoccupazione che comincia a crescere, l'invecchiamento della popolazione, il venir meno del principio dell'impiego a vita, la crescente percezione di una disparità tra la potenza economica del Paese e il relativamente basso livello del tenore di vita interno, creano nuovi problemi per lo sviluppo. L'aggravarsi di questi squilibri ha scatenato una nuova voglia di protezionismo che rappresenta una grave minaccia per la crescita. Ma la più grave minaccia soprattutto per noi europei viene da un riequilibrio del conto estero americano attuato attraverso una forte restrizione della domanda interna, che diverrà inevitabile con la nuova Presidenza.
A fronte di questo scenario così preoccupante, si colloca l'apertura di opportunità nuove legate ad una trasformazione strutturale profonda. Le più antiche e le più solide barriere allo sviluppo dell'umanità, infatti, tendono oggi ad abbassarsi; il tempo e lo spazio non sono più vincoli insormontabili. l'innovazione tecnologica ha aperto la strada verso la
globalizzazione dell'economia mondiale. Attraverso la fittissima rete di collegamenti consentiti dalle nuove tecnologie delle telecomunicazioni, oggi scorrono, quasi senza limiti, enormi flussi di informazioni, immagini, parole. Si è creata, così, una nuova capacità di comunicazione, con immediate conseguenze economiche, perché lo scambio culturale avvicina i modelli di consumo e di comportamento e rende più omogenei i mercati.
Qualsiasi posizione di leadership tecnologica ha breve durata, perché sono fortemente aumentate le possibilità per tutti di acquisire il medesimo know-how. In tutti, o quasi, i settori industriali, l'accelerazione del progresso tecnologico ha accorciato il ciclo di vita del prodotti: le imprese hanno a disposizione un periodo di tempo più breve per sviluppare e per collocare sul mercato le medesime quantità di prodotto.
La scelta di internazionalizzazione non è una libera opzione delle imprese, ma una necessità. Anzi, è una urgente necessità, di fronte alla quale la tradizionale strategia di sviluppo delle multinazionali si rivela troppo lenta e troppo costosa. Per questo motivo, oggi molte imprese sono attivamente orientate verso una strategia basata sulla definizione di una fitta rete di accordi, alleanze e integrazioni che possono avere contenuti diversi. Il risultato di questa strategia è, comunque, la costruzione di imprese a struttura reticolare che pongono nuovi problemi alla gestione aziendale: occorrono le capacità di scegliere le giuste alleanze, di integrare in modo sinergico culture, interessi e conoscenze tecnologiche molto diverse, di garantire un indirizzo strategico unitario all'interno di una struttura aziendale molto articolata e decentrata.
Questa è una nuova sfida per il mondo imprenditoriale.
Credo che l'Italia sia riuscita a sfuggire alla bancarotta che tutti le predicevano alcuni anni fa, perché tra le nazioni europee è forse quella meno strutturata e quindi più pronta a cambiare e ad adattarsi a situazioni nuove. I grandi cambiamenti che si sono prodotti all'interno della struttura delle imprese sono difficili da comprendere, se non si tiene conto del grande salto culturale avvenuto nel sistema capitalistico italiano. Un sistema che era irrigidito attorno a pochi poli di natura familiare o pubblica, che avevano monopolizzato il controllo del mercato del capitale, riducendone quindi le potenzialità di crescita, si è andato trasformando: sta emergendo un sistema che fa spazio a nuove imprese, a nuove aggregazioni produttive e finanziarie, che cresce secondo una logica più vicina ai principi del mercato, dell'efficienza, della redditività. E la cultura del Paese che è cambiata, riscoprendo una voglia di capitalismo, di sviluppo, di mercato che gli anni bui della grande inflazione, della crisi economica e del terrorismo sembravano avere cancellato. Il risparmio ha riscoperto le imprese e le imprese hanno riscoperto il mercato. Questa crescita di maturità ha riportato all'economia di mercato anche molte imprese che si nascondevano nell'economia sommersa e basavano la propria forza sull'evasione fiscale, sulla fantasiosa improvvisazione e sull'estrema flessibilità derivante dalla quasi totale assenza di strutture produttive.
In Italia, come in Europa, il risanamento e la ristrutturazione delle imprese non sono che la prima parte del cammino che l'industria deve percorrere. Comprimendo i costi, riducendo i debiti e migliorando la produttività, i bilanci sono generalmente tornati in attivo: ma in molti casi questo processo ha prodotto un restringimento della base produttiva. Le imprese devono ora riprendere a svolgere il loro ruolo fondamentale, che è quello di far crescere la produzione e generare nuova ricchezza e nuovi posti di lavoro. L'obiettivo dello sviluppo è certamente molto più impegnativo di quello del risanamento e della ristrutturazione. Per creare sviluppo bisogna avere la capacità di innovare e di entrare in nuovi mercati: è necessario intensificare gli investimenti in R&S, realizzare prodotti e servizi innovativi, attivare nuovi canali di vendita che aggirino le barriere protezionistiche, migliorare la qualità, rendere più efficace il marketing. Queste sono le direzioni strategiche verso le quali chi ha responsabilità nella conduzione delle imprese deve continuare a muoversi per non rendere vani gli sforzi e i progressi finora compiuti. Ma in ogni Paese la sfida delle nuove tecnologie e della globalizzazione può essere affrontata con successo in uno scenario internazionale più difficile solo se il sistema delle imprese è sostenuto da uno Stato che abbia gli stessi obiettivi in termini di rinnovamento e di sviluppo.
Nel caso dell'Italia, la rinascita industriale e capitalistica finora si è basata sull'iniziativa spontanea delle imprese, del mercati. Ma ora occorre anche il sostegno di uno Stato capace di indirizzare il cambiamento, di orientarlo allo sviluppo, di far funzionare le regole del mercato e di garantirne l'osservanza da parte di tutti. Occorre, cioè, uno Stato più imprenditore, non nel senso di uno Stato che invade aree di attività economica che l'imprenditoria privata sa meglio coprire, ma nel senso di uno Stato che sappia far funzionare con spirito imprenditoriale i servizi e gli uffici pubblici, che sappia promuovere le attività più innovative, che adegui il funzionamento dei mercati alle regole di una concorrenza più aperta.

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