§ TRADIZIONI SALENTINE

Appunti su Tanatos




Ada Nucita



Tanatos, nel concetto primitivo dei Greci antichi, era sinonimo di Chàros (Caronte), dio della morte, rapitore amaro della vita degli uomini. Tanatos è di color nero, fosco. Va a cavallo. Si presenta come una specie di Chrònos, armato di falce, in mano un libro, nel quale sono annotate tutte le persone. Egli non si impadronisce mai della vittima senza violenza, perché da tutti è scacciato e fuggito. Una leggenda popolare racconta che un uomo, non volendo morire, dietro consiglio di un saggio, cercò un luogo dove Tanatos non potesse giungere. Un giorno si vide chiamato da un elegante signore perché lo aiutasse a rimettere in sesto il calesse che si era capovolto. Dopo averlo aiutato, venne acciuffato e gli fu recisa la testa con la falce da quel signore, che era Tanatos.
Nel mondo tradizionale (mi riferisco in particolare al Salento) innumerevoli furono le tracce di Tanatos nel linguaggio popolare e niente cambiò, fino alla prima metà del '900, nella coscienza della nostra gente, neppure dopo tanti secoli di cristianesimo. O meglio, la ipotiposi è un miscuglio di motivi pre-classici, classici e cristiani.
Il Chàros o il Tanatos, presso i Salentini che furono già di origine greca, ha anche il triste codazzo delle dee o "Fate" del male e della sventura di Omero (Iliade, II e III libro; Odissea, XI e XII libro), di Esiodo (scudo di Ercole) e di quelle malefiche e pugnaci della "Maira", donde le esclamazioni popolari salentine: Mara a mmie, mara a nnui (si badi che la parola "mara" deriva appunto da "Moira"). Vi sono, inoltre, nei mirològi dei grecosalentini, tracce sul mito delle stagioni, di Adone, di Proserpina, della divisione dell'anno in due sole stagioni: estate ed inverno. Anche se le madri - è detto in una nenia funebre - scongiurano le figlie morte di tornare, ogni tanto, nel mondo del vivi, "Pur volendo, - rispondono queste - Tanatos non permetterò giammai una cosa simile". "La verità (riporto in traduzione dal grico) è che da quel mondo potrà tornare solo chi riuscirà a vedere un uomo arare in mezzo al mare".
Né meno abbondanti sono nelle nostre nenie funebri le risonanze del classico Elìso e della vita che ivi si mena. Vita generalmente piena di tedio, di uniformità, di noia. Si affaccia in questa letteratura popolare tutta intera la concezione dell'Ade e dell'Erebo, della terra dei Cimmerii, quale ci viene descritta da Omero nell'XI libro dell'Odissea.
E' stato osservato giustamente che i mirològi (o lamentazioni, o nenie) erano considerati come ninne nanne che sembravano cullare il defunto per il sonno eterno. le prefiche le cantavano, le rappresentavano quasi sempre come dialoghi tra vivi e morti. Ciò che soprattutto colpiva erano i momenti di profondo silenzio, seguiti d'improvviso da una, due, tre voci, poi da un concerto generale di molte voci che sembrava venuto dalla profondità dei secoli per annunziare una catastrofe irreparabile.
La classica prosopopea di Caronte navalestro, nel passato, era tanto radicata nel nostro popolo, da richiedere l'intervento di superiori autorità ecclesiastiche. Era opinione diffusa che Caronte, nocchiero dello Stige, ghermisse per i capelli la sua vittima. Già nel 1620 era stato emanato un significativo decreto dell'Arcivescovo di Otranto che vietava ai fedeli, sotto pena di scomunica, e di altra pena per i parroci, di porre monete nella bocca dei morti, di recidere le trecce alle donne e di porre pure in mano ai morti qualsiasi oggetto che sapesse di superstizione. La moneta, secondo quanto è dato sapere, serviva per Caronte, che traghettava l'anima sull'altra sponda. Il taglio dei capelli alle donne sembra riferirsi al modo solito di Caronte di acciuffare per i capelli la vittima. Quali virtù magiche, poi, avessero le mele poste nella bara in numero 12 e le mele cotogne fino a 15, forse non si saprà mai. Si è congetturato che queste servivano per ingraziarsi Minosse, "il gran conoscitor de le peccata", facendogli ricordare Kindon, (nell'isola di Creta), città da lui fondata, dove i cotogni erano denominati "cidonii" e "mele cidonie".
Il motivo di tutto ciò è da ricercarsi nella concezione della vita individuale, culturale e sociale del nostro popolo, e poiché il mondo tradizionale aveva pochi mezzi di controllo di tale realtà, tanto più numerosi erano i pericoli che incombevano su di esso. Il rimedio cui si ricorreva in situazioni simili era l'ostentazione rituale, cioè la manifestazione dei sentimenti e degli affetti.
Non è a dire l'orrore che la civetta, "uccello di Tanatos", destava (lo era anche il colombo, "Kapòta", per l'antica poesia ariana) quando la si vedeva aggirarsi intorno alla casa di un ammalato o la si sentiva stridere: era presagio di morte e di sventura. Non va dimenticato che la civetta, nelle antiche civiltà, godeva di ben altra considerazione per la sua riconosciuta saggezza. Allo stesso mondo di significati ci porta il simbolo ,delle ali di uccello, le quali rimandano al colombo che anticamente era considerato "incarnatore dei ,defunti in viaggio per l'aldilà". A tal proposito si può osservare come alcune antiche divinità furono :rappresentate con le ali: da Mercurio alla Nike o Vittoria, fino agli Angeli della tradizione cristiana, e in special modo San Michele.
Altri simboli che rimandano a concezioni della morte sono l'alloro, il cipresso, la quercia e gli 'alberi sempreverdi, che richiamano sia per gli antichi sia per i moderni la "continua permanenza della memoria del defunto. Così l'immagine della clessidra, talvolta spezzata, vorrebbe dire l'interruzione del tempo, e quella del papavero propone l'idea del sonno" (E. Imbriani). Un altro simbolo pieno di vari significati è il serpente, che, come la luna, sparisce e ricompare, muore e risorge, simbolo, dunque, della morte e della rinascita.
La Chiesa ha sempre tollerato tutto quello che riguardava la simbologia della morte, puntando nello stesso tempo su un processo di cristianizzazione della sepoltura e della concezione del sepolcro "che va di pari passo con un passaggio dalla simbologia alla semplice iconografia, dal mito all'immagine puramente decorativa" (E. Imbriani). Vanno così scomparendo dalle tombe dei cimiteri salentini quei simboli che nell'800 erano stati comuni (serpi, clessidre, gufi, ecc.), considerati indice di concezione laica e razionalista, di cui si faceva portavoce la classe altoborghese e nobiliare. Tale simbologia rinvia a una mitologia che è quanto di più lontano esista dall'ideologia illuminata e progressista. Questo è ancora più significativo se si pensa che l'800 scopre la mitologia come scandalo della ragione (M. Detienne). Così come non sono assenti quelle figure femminili, immagini del dolore e della follia, che ci ricordano le prefiche. Così pure il teschio, le ossa, la falce, le fiaccole accese, ma capovolte, talvolta incrociate, che mostrano "la condizione di completa diversità della morte rispetto alla vita; morte che pure consente al defunto una qualche condizione di esistenza" (E. Imbriani).

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