Anche nel Quattrocento
c'era Il "Sorpente monetario" che Imponeva alle città
una politica del cambio. L'afflusso crescente di argento dalla Germania
obbligò il Duca Galeazzo Maria Sforza a nuove parità con
Venezia e con Firenze.
Subito dopo la metà
del Quattrocento, scrive Carlo M. Cipolla, importanti giacimenti argentiferi
vennero scoperti e attivati in Sassonia e nel Tirolo. A Schneeberg,
in Sassonia, la produzione d'argento aumentò al ritmo indicato
approssimativamente da queste cifre:
1450 - meno di 1/2 tonn. all'anno.
1470-75 - circa 7 tonn. in media all'anno.
1476-85 - circa 10 tonn. in media all'anno.
A Schwaz, nel Tirolo, l'andamento della produzione fu approssimativamente
questo:
1470-74 - circa 3,5 tonn. in media all'anno.
1475-79 - circa 6 tonn. in media all'anno.
1480-84 - circa 7 tonn. in media all'anno.
1485-89 - circa 11 tonn. in media all'anno.
All'epoca, la Germania centrale e meridionale e il Tirolo intrattenevano
rapporti commerciali molto intensi con l'Italia settentrionale, e questi
rapporti erano caratterizzati da una bilancia commerciale favorevole
all'Italia L'argento tedesco, pertanto, tendeva tradizionalmente ad
affluire sui mercati italiani a copertura del disavanzo commerciale
alemanno. L'aumento della produzione argentifera tedesca a partire dalla
metà del Quattrocento si tradusse di conseguenza in un aumento
dell'afflusso di metallo bianco in direzione italiana.
Nel 1471, a Firenze, si notava che "ci si truova gran somma di
argento". L'anno seguente, in Venezia, si dichiarava che la zecca
era inondata da "quantità grande di argenti". In effetti,
l'offerta di argento tedesco alla zecca veneziana assunse dimensioni
talmente eccezionali, che i responsabili della politica monetaria decisero
di emettere una moneta d'argento di dimensioni e peso inusitati. Per
tutto il Medio Evo le monete cosiddette "grosse d'argento"
pesavano dai due ai tre grammi. La nuova moneta veneziana emessa al
valore nominale di una lira e chiamata "lira Tron", dal nome
del doge allora in carica, pesava grammi 6,5 ed era al titolo di 948
millesimi. Recava sul diritto il ritratto del doge Tron: ritratto di
fattura squisitamente rinascimentale, per cui la nuova moneta non solo
nel suo intrinseco metallico, ma anche nella sua apparenza veniva a
rompere con la tradizione medievale ed inaugurava un'epoca nuova.
Era signore di Milano, all'epoca, il duca Galeazzo Maria Sforza, il
quale, secondo uno studio di Cipolla, doveva essere attorniato da consiglieri
che in materia monetaria avevano idee molto chiare e di carattere decisamente
conservatore. Nella seconda metà degli anni Sessanta, costoro
avevano fatto perseguire al duca una politica di assoluto rigore monetario,
al punto da sacrificare l'attività della zecca. Con gli anni
Settanta, intervennero fatti nuovi. Firenze e Venezia, per attrarre
l'argento tedesco alle proprie zecche, avevano aumentato rispettivamente
nel 1471 e nel 1472 il prezzo pagato per l'argento: il che, in altre
parole, significa che svalutarono. In queste condizioni, continuare
a mantenere la moneta milanese in posizione di assoluta stabilità
avrebbe significato tagliar fuori il mercato lombardo dall'afflusso
di argento tedesco; il che, a sua volta, avrebbe voluto dire non far
profittare le aziende esportatrici lombarde del "boom" che
si stava manifestando in Germania.
Pertanto, nel 1474, a Milano, si decise di intervenire. Si aumentò
il prezzo pagato dalla zecca da lire 24 a lire 24 e soldi 12 per marco
(= grammi 234,9973), cioè in altre parole si svalutò la
moneta milanese rispetto all'argento di circa un 2%. Nel contempo, si
profittò dell'occasione per ristrutturare tutto il circolante
metallico argenteo, creando un complesso di denominazioni che andavano
dal denaro alla lira. In un primo momento, si decise di limitare la
denominazione maggiore al valore di mezza lira; poi però, in
un secondo tempo, seguendo l'esempio di Venezia, si optò per
la coniazione anche del pezzo da una lira: una moneta dal peso eccezionale
di grammi 9,8; alla lega di 964 millesimi, con il ritratto in stile
rinascimentale di Galeazzo Maria Sforza.
La zecca milanese, al contrario di quella fiorentina, non veniva gestita
direttamente dallo Stato, ma era regolarmente appaltata. Pertanto, una
volta stabilita la nuova parità argentea della lira milanese,
le denominazioni da coniare e i loro rispettivi parametri (vale a dire
peso, lega e valore nominale), si trattava di scegliere l'appaltatore
più adatto. In partenza, le idee del duca, chiaramente suggeritegli
dai suoi consiglieri, furono ispirate a sentimenti di eccezionale correttezza.
Nel decreto con cui si annunciava la nuova coniazione, Galeazzo Maria
dichiarò di rinunciare ad ogni diritto di signoraggio (il che
rappresentava una novità straordinaria per quei tempi). L'eliminazione
del signoraggio (che in definitiva era un'imposta sulle coniazioni a
carico di chi portava metallo alla zecca) permetteva a chi recava metallo
alla zecca di trarre maggior valuta in moneta dal metallo consegnato.
Il che limitava gli effetti della svalutazione e nello stesso tempo
sollecitava l'afflusso di metallo fresco. Inoltre, il duca dichiarò
solennemente di voler appaltare la zecca a chi obiettivamente desse
le migliori garanzie di "far miglior partito", e cioè
di fabbricare maggior quantità e miglior qualità di moneta
ai parametri prefissati.
Queste, le buone intenzioni iniziali. Ma, a mano a mano che si avvicinava
la data dell'appalto, le pressioni di favoriti e di raccomandanti si
fecero più pressanti, e a un certo punto il duca finì
con l'ordinare per iscritto ai Deputati alla zecca che, a parità
di condizioni, si concedesse l'appalto a certo Giovan Antonio Castiglioni.
la qualificazione "a parità di condizioni" era più
che altro un espediente retorico, tanto più che il Castiglioni,
sicuro dell'appoggio del duca, mentre si offriva di assumere l'appalto
della zecca, stava molto sulle generali circa le garanzie da fornire
e rifiutava di prendere impegni precisi.
Al tesoriere ducale, Landriani, i tentennamenti del duca e l'ambiguo
comportamento del Costiglioni non andavano evidentemente a genio. Si
aggiungo che, sotto la pressione del Castiglioni, il duca si dimostrava
sempre più propenso a rimangiarsi la promessa fatta di abolire
il signoraggio. Il tesoriere Landriani doveva essere uomo diritto e
senza peli sulla lingua. Il 28 maggio 1474 prese penna e calamaio e
indirizzò al duca la dura lettera che qui riportiamo:
"L'ordine dell'oro e monete è in essere de stabilire in
grande utilità de V.S. et de li subditi tutti et tutte le preparatione
se sono facte necessa-rie a questo. Solo resta a dare via la zeccha
a chi fa più quantità de mo-neta et megliore. Et poiché
V.S. fece dire alli subditi quando se pubbli-cò il decreto che
non la volere utilità de la zeccha et chi la lavorazze, V.S.
debba volere che la se dia a chi fa migliore partito, cioè megliore
e più moneta ogni anno et non volere che sia admisso più
uno come un altro. Questo dico perche c'è chi mette boni partiti
et non sapiamo noi che fare perche V.S. ha scritto che ad eguale partito
la se dia ad Johannantonio de Castiliono et lui quale habbiamo aspettato
fin a oggi sta sul generale et mostra non sapere che volerse et la cosa
sta cosi ne se da via ne se resta che dara che dire assai al populo
et subditi essendo-se dicto tanto de fare lavorare et dara carico a
V.S. de mente e per es-sere per gratia de V.S. de li Deputati a questo
n'ho voluto avvisare V.S. et pregare quella facia sotto qualche bon
colore scrivere ali Deputati che la diano presto più che se può
a chi fa megliore et più moneta ogni anno non obstante altre
lettere scritte in contrario, azioche la Vostra Celsitudine ne noi siamo
biasimati da li subditi quali non senza graveza suportano questa novitate
de moneta et oro".
E' la lettera irritata di un tecnico onesto, al servizio dello Stato,
che vede il bene pubblico travolto dai clientelismi e dai favoritismi
del politici. Nella lettera, Antonio Landriani dice chiaramente al duca
di non sapere più "che fare", perché dopo tante
promesse di "dare via la zeccha a chi fa più quantità
de moneta et megliore" e "non volere che sia admisso più
uno come un altro" (cioè senza favoritismi), il duca aveva
ordinato "che ad equale partito" (cioè a parità
di condizioni) "se dia (la zeccha) ad Johannantonio de Castiliono".
Il quale Giovannantonio, però, "sta sul generale et mostra
non sapere che volere" (che è come dire: rifiuta di prendere
impegni precisi). E terminava - l'onesto tesoriere - con l'esplicita
esortazione al duca di dar ordine "che la diano (la zeccha) presto
più che se può a chi fa megliore et più moneta
ogni anno non obstante altre lettere scritte in contrario", onde
evitare che il duca e la sua burocrazia venissero "biasimati da
li subditi", i quali vedevano le buone promesse (niente signoraggio,
appalto pulito) annegare nella tradizionale melma di favoritismi e di
clientelismi.
Non vinse il partito dell'onestà. Vinse quello del clientelismo
e del favoritismi. La zecca venne affidata al Castiglioni, il quale
riscosse diritti di signoraggio (sia pure in proporzioni ridotte), che
regolarmente spartì con la Camera Ducale. Come dire: niente di
nuovo sotto il sole.
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