§ TRA CRONACA E STORIA - 1

Disordine delle monete




Antonio Foresi



Rileggendo Cesare Beccaria e Pietro Verri, illuministi del Settecento con la stoffa di ministri dell'Economia. All'origine dello scompiglio del sistemi di pagamento, la differenza di valore tra lira immaginaria e lira reale.

Insieme con i contributi in favore della libertà del commercio dei grani, gli economisti italiani del Settecento dettero luogo a un nutrito dibattito su questioni monetarie che ci ha lasciato importanti contributi riguardo alla politica monetaria più in generale (basterà pensare al celebre "Della moneta" di Ferdinando Galiani) e, più in particolare, sul cosiddetto "disordine, monetario".
Beccaria e Verri furono fra i principali protagonisti di questo dibattito che riguardò cause e possibili rimedi per uno stato di cose assai gravi. li dibattito fu avviato nel 1750 da Giovannantonio Fabrini a Roma, ma ben presto si allargò alle altre città, grazie agli autorevoli interventi del Belloni, del Carli, del Neri, del Pagnini, del Galiani. Nell'inverno del 1761-62 il tema divenne l'argomento centrale delle discussioni all'Accademia dei Pugni, formatasi a quel tempo attorno ai fratelli Verri e al conte Beccaria e destinata a divenire il punto di riferimento di tutto l'illuminismo italiano.
La situazione si era particolarmente aggravata in quegli anni, ma l'inizio della "malattia politica delle monete" è da farsi risalire al 1600 allorché, come dice il Beccaria, "si dette un crollo al nostro commercio". Il disordine monetario trovava la sua origine nel fatto che del provvedimenti amministrativi avevano alterato arbitrariamente i valori delle monete, stabilendo rapporti fra monete di uno stesso metallo diversi da quelli fra i corrispettivi quantitativi di metallo. Nello stesso tempo, questi provvedimenti amministrativi avevano stabilito rapporti fra monete d'oro e d'argento che non rispecchiavano la relazione fra le quantità disponibili del metallo delle due rispettive monete. Nello Stato milanese, il sistema monetario basato sul dualismo "moneta immaginaria" - moneta effettiva contava ben cinquantuno monete (non tenendo conto di quelle meno pregiate): 22 d'oro e 29 d'argento. Poteva, perciò, essere definito un sistema bimetallico "multiplo". Questa situazione causava l'uscita dallo Stato, alla ricerca di condizioni migliori, delle monete sottovalutate (cioè le monete che si vedevano assegnato un valore in moneta "immaginaria", vale a dire in lire, inferiore a quello acquistabile con la quantità di metallo contenuto nella moneta stessa) e l'entrata delle monete sopravvalutate. In tal modo, dallo Stato usciva ricchezza. Questa situazione viene rappresentata attraverso l'aforisma "una moneta compra l'altra", nel senso che vi era un interesse a scambiare monete contro monete per il fatto che non vi era corrispondenza fra il loro valore nominale e il potere d'acquisto della quantità di metallo delle stesse monete.
Beccaria e Verri proposero dei rimedi effettivi e discussero criticamente soluzioni diverse, fra le quali trovava molto credito a quel tempo quella di battere un'unica moneta "provinciale", con la quale si sarebbero evitati i problemi sorti dall'uso di più monete. Ma ciò sarebbe stato possibile solo in uno Stato autarchico, non in uno Stato come quello milanese, che viveva molto di commercio, poiché come diceva Verri: "Noi non possiamo fare un contratto di qualche importanza che non sia con un forestiere".
"La manovra monetaria opera su un congegno delicatissimo, complicatissimo: e riesce a quel manovratore il quale alla chiarezza delle idee astratte sa unire, rapidissimo, l'intuito dei fatti invisibili". Così si esprimeva Luigi Einaudi, in uno splendido saggio sulla "moneta immaginaria" da Carlo Magno alla Rivoluzione Francese. Con questa riflessione, Einaudi non si riferiva a qualcuno in particolare: enunciava un principio che poi, con successo, egli applicò nella sua pratica di governo dell'economia.
Hanno scritto A. Quadrio Curzio e Roberto Scazzieri che il principio enunciato si attaglia benissimo ad una personalità cui Einaudi si riferisce spesso nello studio citato: Cesare Beccaria. è proprio nei saggi "Del disordine e de' rimedi delle Monete nello Stato di Milano nell'anno 1762", "Dialogo sul disordine delle monete dello Stato di Milano nel 1762", "Consulta su la riforma delle monete dello Stato di Milano", che Beccaria e Verri rivelano come essi avrebbero potuto essere grandi "ministri della Moneta". Da uomini di Stato nati, Beccaria e Verri non subirono infatti la tentazione - che in quel periodo poteva essere non piccola - di suggerire un'applicazione coercitiva di leggi civili al campo economico. Andava prima individuato un corretto insieme di "leggi economiche" attraverso l'analisi dei fenomeni, e solo queste avrebbero dovuto generare leggi civili per il governo dell'economia. L'autorevolezza delle leggi civili in campo economico andava dunque ricercata e questa derivava innanzitutto dalla correttezza dell'analisi dei fenomeni economici. "Facciasi una legge conforme a verità, e cesserà la disubbidienza del popolo, o per meglio dire l'errore della legge".
Nei tre saggi, Beccaria e Verri trattano perciò di principii, politica e pratica della gestione monetaria dello Stato, con particolare attenzione allo Stato di Milano alla metà del diciottesimo secolo. Stato europeo che non può non rimanere tale, secondo l'intendimento dei due illuministi. Per questi motivi ci si può spingere a materializzare una figura che sembra essere identificata dagli studi presenti: quella di un ministro della Moneta che opera come uomo di governo e come economista in un quadro europeo. il parallelismo con i ministri di Finanza e di Economia di cui parla Pietro Verri nelle sue "Meditazioni" è tale da far pensare come i due grandi lombardi avessero già chiara, all'epoca, la complessità del governo dell'economia.
I tre lavori sono ispirati da un primo principio, e cioè la teoria per la politica e la pratica monetaria. I riferimenti teorici dei lavori si possono perciò considerare molto stringati, ma fondati su premesse ben più ampie e comunque sufficienti per le argomentazioni di politica e pratica monetaria. Tale punto di vista è ben specificato sia da Beccaria sia da Verri. Dice il primo: "... far passare le nozioni di questa parte della economia politica dal silenzio de' gabinetti de' filosofi alle mani del popolo. Mio scopo è d'essere utile alla patria". "L'amore della verità, lo zelo per gli interessi dell'auguratissima sovrana e della patria... mi hanno guidato in queste brevi riflessioni". Dunque, lo scopo sono le politiche (monetarie), ma non senza le premesse dei principii, delle teorie. Beccaria ritiene che solo risalendo "ai principi generali ed universali" e decomponendo "con analisi le mai combinate idee" si possa conseguire la verità che "non va mai disgiunta dall'interesse della nazione, e in conseguenza da quello del sovrano".
Un secondo principio, concernente le relazioni tra leggi economiche e leggi civili, è presente in tutta la riflessione di Beccaria e di Verri: "Altri non mancano, i quali vedendo inseguite le passate grida monetarie vanno incolpandone il popolo, anziché la cattiva natura della legge, e disperano di regolar bene le monete perché il popolo non vuole ubbidire... Facciasi una legge conforme alla verità, e cesserà la disubbidienza del popolo, o per dir meglio l'errore della legge". "Condannerete voi dunque la ostinazione del popolo, s'egli s'allontana quanto può da una legge contraria alla natura delle cose?". Da queste premesse generali si deve ora muovere agli aspetti più strettamente di economia monetaria dei lavori dei due illuministi, iniziando dalle definizioni intorno alla moneta di cui entrambi si interessano, sia pure brevemente. Sono, per Beccaria, le monete, "pezzi di metallo che misurano il valore", "segni reali di valore, come i caratteri e le parole sono segno delle idee delle cose". "Il valore delle monete tanto dipende dalla natura delle cose, quanto i fenomeni del cielo e della terra dipendono dalla gravità universale".
A sua volta, Verri sostiene che "il valore di una moneta non può mai essere altro che il valore del metallo, e il valore desumesi dalla opinione comune". "Il denaro, esattamente definendolo, a mio credere è la merce universale; e come il valore di ogni merce è soggetto col tempo .a mutazione, così accade del denaro di cui il valore non può essere lungamente costante".
Con queste definizioni, Beccaria e Verri toccano marginalmente un problema molto complesso: quello della moneta immaginaria e delle sue relazionli con la moneta reale. Su questo tema, con grande aderenza alla logica economica dei secoli XVI, XVII e XVIII, si è intrattenuto Einaudi. Ed è necessario e opportuno riprendere le sue considerazioni, anche perché l'intera analisi di Beccaria e di Verri darà per noto il rapporto tra moneta immaginaria e moneta reale. Nella letteratura economica dal XVI al XVIII secolo, ricorre di continuo il riferimento al concetto di moneta, "immaginaria", "ideale", "politica", "numerario", "di conto", "nome collettivo" che "riassume monete reali", "pura idea", "quoziente" o "prodotto della moneta effettiva".
Una unità monetaria era destinata alle contrattazioni: tale era la lira di conto o immaginaria o numeraria o ideale. Ma non era possibile pagare in lire immaginarie, mai coniate. Il pagamento aveva luogo in monete reali, coniate in oro, in argento, in biglione, in rame. Chi aveva "venduto la casa o il podere per 25.000 lire doveva far quietanza al compratore che gli consegnava 10.000 scudi d'oro del sole". Al di là di alcune speculazioni terminologiche ricordiamo, con Einaudi, che "la moneta immaginaria non è infatti una moneta qualsiasi. Essa è un mero strumento od espediente tecnico usato per raggiungere dati scopi". Uno strumento deve però essere usato in modo corretto ed univoco se si vuole conseguire lo scopo. Ed è di questo, piuttosto che dello strumento in sé, che Beccaria si interessa: cioé della corrispondenza tra lire immaginarie e monete metalliche reali. Ciò dimostra ancora una volta l'intento di politica e di pratica monetaria di questo lavoro del Beccaria (solo in una nota egli imposta, anche in termini analitici, un problema teorico sul valore delle merci, che tuttavia è di scarso ruolo nel contesto del lavoro), piuttosto che quello speculativo: non dello strumento egli vuole dibattere, ma del suo corretto uso.
Qual è, dunque, la conclusione sui principii di politica e pratica monetaria Beccaria-Verri al servizio dello Stato di Milano?
Noi riteniamo che si tratti di un importante esempio di come gestire un sistema basato sulla moneta immaginaria in una situazione di bimetallismo multiplo (o multivalutario, per la pluralità delle monete coniate). Ma quale giudizio dare di una tale teoria e del sistema monetario basato sulla stessa? Nel citato saggio del 1936, Einaudi così conclude: "La moneta immaginaria era uno strumento magnifico inventato, nell'infanzia economica dei popoli, per raggiungere fini di reale vantaggio pubblico, che oggi si perseguono con strumenti meno appropriati". Questa conclusione evidenzia ancor più i contributi di Beccaria e di Verri, e la loro modernità. Con la implicita, e neppure tanto, convinzione che "le teorie monetarie nascono dai disordini monetari", come nitidamente si esprimeva John Hicks, i nostri due illuministi mostrano come, nel tentativo di studiare il "disordine" e di proporre i "rimedi", la tecnica amministrativa debba richiamarsi sempre ai principii generali, mentre questi appaiono a loro volta di difficile comprensione se non sono collegati sitematicamente alla pratica di attuazione.
I principii generali impiegati da Verri e Beccaria appartengono al campo della teoria dell'economia politica, piuttosto che a quello della teoria dei sistemi monetari in senso stretto. Infatti, dati per noti i principii di funzionamento del sistema della "moneta immaginaria", Beccaria e Verri cercano piuttosto di derivare dalle proprietà astratte e generali della moneta (dai suoi attributi di "merce universale") alcune ideeguida sul funzionamento del sistema della "moneta immaginaria" nello Stato milanese, per giungere alla individuazione delle necessarie riforme amministrative.
Nel campo della pratica monetaria, la proposta di istituire una sorta di ministro della Moneta, a cui si attribuisce una funzione assai importante ma un limitato margine di discrezionalità, mostra una chiara percezione delle potenzialità di "governo della moneta" presentate dal sistema della "moneta immaginaria". la distinzione, all'interno delle monete, tra la funzione di misura del valore e di mezzo di pagamento, caratteristica della "moneta immaginaria", pone le premesse di una sofisticata proposta di "pratica monetaria", della quale sembrano intravvedersi le potenzialità rispetto ai requisiti "ideali" della moneta suggeriti dalla teoria dell'economia politica.
Nel campo della storia dei sistemi monetari, le analisi di Beccaria e Verri forniscono un importante materiale di prima mano sui problemi di "governo della moneta", caratteristici dell'epoca in cui le mutazioni nominali della moneta hanno ormai preso il sopravvento sulle mutazioni reali del contenuto metallico, mettendo nelle mani dei governanti "un formidabile mezzo di intervento la cui portata politica non è stata forse apprezzato a sufficienza". Gli scritti di Beccaria e Verri sul disordine delle monete mostrano come, pochi decenni prima del suo abbandono, lo strumento della "moneta immaginaria" fosse percepito da alcuni economisti in tutta la sua complessità e potenzialità, per quanto fosse chiaro che interventi inopportuni di governo della moneta potessero facilmente stravolgere il significato.
Non è facile individuare la gerarchia dei criteri di analisi che gli scritti monetari dei due illuministi suggeriscono. Il rigore della "teorica" e la disamina delle procedure amministrative appaiono essenziali nelle argomentazioni dei due economisti, per quanto forse un momento di sintesi possa essere colto nella convinzione di Beccaria che "le leggi enunciate sono nei fatti". In questo modo, i due economisti milanesi, e con loro molti altri economisti italiani del Settecento, sembrerebbero avere raggiunto una "felice posizione intermedia", per usare le parole di Gustavo Dei Vecchio, fra i due estremi della "astrazione elevata" e della "ripetizione di verità già note riscontrate nella nostra concreta realtà".
Non è nemmeno facile individuare una univoca gerarchia di valore tra gli scritti presi in considerazione, così come fra questi scritti e altri lavori su tematiche analoghe di altri economisti italiani coevi. A questo proposito, verrebbe immediato il confronto con il saggio "Della Moneta" del Galiani, che appare certo superiore, per molteplici aspetti, agli scritti monetari di Beccaria e di Verri. Tuttavia, il rigore analitico di Galiani, il grado estremo di penetrazione di cui egli dà prova nell'indagare la natura della moneta e il suo collegamento con le costituzioni politiche degli Stati, sono anche molto lontani dall'immediato coinvolgimento "tecnico-amministrativo" che risalta negli scritti di Beccaria e Verri. Potremmo forse dire che i fondamenti della moneta sono indagati più profondamente in Galiani, mentre Beccaria e Verri usano le loro intuizioni sui fondamenti per giungere ad elaborazioni complesse e precise, anche sotto il profilo tecnico-amministrativo, per quanto riguarda il "governo della moneta".
Le relazioni di contenuto fra i lavori di Beccaria e di Verri non sono meno articolate. A questo riguardo, Francesco Ferrara scrisse che "Verri rese ancora più chiari gli aforismi di Beccaria, e diede un passo in più. Perché invece di insistere sulla correzione delle tariffe, o sulla erezione di un apposito magistrato (come aveva fatto Beccaria), osò discreditare l'importanza dell'avere monete coniate ad una zecca nazionale". Questi commenti, che in parte riflettono la personale opinione scientifica di Ferrara, in tema di governo della moneta, non dovrebbero tuttavia fare dimenticare che difficilmente in questi scritti Verri raggiunge un grado di penetrazione politica comparabile a quello di Beccaria. In ultima analisi, il rigore geometrico di Beccaria e l'interesse sia storico sia teorico delle misure di "pratica monetaria" da lui proposte costituiscono forse l'aspetto saliente della letteratura milanese sul disordine delle monete, anche per il lettore e per l'economista di oggi.

"Non dirà un editto..."

Cesare Beccaria

Queste regole che dipendono dal fatto, non dall'arbitrio di verun legislatore, hanno seguito quelle nazioni che si son rese padrone del danaro di Europa, e che non ci lasciano godere delle ricchezze, che il soverchio che per così dire ne rigurgita indietro.
A misura, che una nazione si allontana da questi principi, diminuisce in esso il danaro, la scarsezza del danaro produce l'aumento dell'interessi de' capitali, con esso i debiti, poscia i fallimenti e quindi la perdita della pubblica fede, col destino della quale va inseparabile il commercio; sicché uno Stato, benché vasto, rimane come il cadavere di un gigante, su cui passeggiano i più vili insetti.
Durante l'accrescimento della massa circolante si aumento l'industria, che è quel fuoco sacro che i sacerdoti della patria e del ben pubblico debbono sempre mantenere acceso, e che forma la felicità e la vita delle nazioni; sminuita l'industria languisce il commercio, e sulle sue rovine s'innalza la povertà: non quell'altiera disprezzatrice delle ricchezze che fu il Palladio della libertà di Sparta e di Roma, ma bensì quell'infingarda che produce la miseria e l'avvilimento delle nazioni, che cominciando dall'infima plebe si solleva per gradi sino al trono.
Questo stato di guerra, in cui Obbes ha creduto essere le genti, si verifica nel commercio e nelle monete, dove ogni nazione cerca d'arricchirsi coll'impoverimento altrui e combatte più coll'industria che colle armi. Aprendo le storie, si trovano dall'indolenza cambiate in deserti e solitudini le più floride nazioni.
Lo sproporzionato regolamento delle monete è manifestamente contrario agl'interessi del sovrano; mediatamente, perché impoverisce la nazione; immediatamente, perché per un momentaneo guadagno che può aver fatto battendo cattiva moneta, perde un'annua rendita nel ricevere i tributi in quella stessa moneta cattiva a cui ha dato il nome e valore di buono.
Gli editti non possono cambiare i rapporti invariabili delle cose, né si possono togliere gli effetti se si lasciano sussistere le cagioni. Quella nazione, che pubblicasse editti contrari al vero valore delle monete, farebbe lo stesso male che colui che tosasse o facesse moneta falsa; e contraddittoria a se medesima, punirebbe negli altri il male che esso ha fatto.
Da "Del disordine e de' rimedj delle monete nello Stato di Milano nell'anno 1762".

"...Quanto valgan le cose"

Pietro Verri

Simplicio - Voi vi perdete in belle teoriche, ed io vi dico, signor Fronimo, che in materia di monete vale più un'oncia di pratica, che una libbra di teorica.
Fronimo - Sin ora le monete nel nostro paese si sono regolate colla pratica ad esclusione della teorica; trovate voi in pratica, che questa pratica abbia regolato bene il sistema? Se è così in buon'ora continuiamo su gli stessi principi senza tanti discorsi; se poi vanno male le cose, pensate, signor Simplicio, che non si mutano gli effetti mantenendo in vigore le cagioni.
Simplicio - Eppure io ho sempre inteso dire che la teorica...
Fronimo - La teorica è l'intima cognizione di una cosa per i suoi principi, né potrete avvilire la teorica che sostenendo, che sia più utile in materia di monete un uomo senza principi, che chi ne ha. E poi i saggi concordati a Torino sono pratica, signor Simplicio, cioè sono la relazione di fatto del metallo fino a che si contiene in ogni monete.
Da "Dialogo sul disordine delle monete nello Stato di Milano nel 1762".
Le proporzioni degli altri Stati d'Europa possono avere della influenza su quella da stabilirsi da noi; ma lo credo che queste proporzioni de' vari Stati Europei non sieno tutte di egual momento sopra di noi; e certamente quanto uno Stato è più remoto, tanto meno deve essere grande la sua influenza. Un'alterazione che si faccia a Genova farà un cambiamento assai più sensibile nel Milanese, di quel che non farebbero assai maggiori alterazioni nella Svezia, Danimarca, Brandeburgo, Moscovia, ecc., perché la nostra comunicazione con Genova è incessante; abbiamo debiti e crediti continui con quel vicino porto di mare; non così co' regni più vasti, ma remoti e distaccati da noi. Il calcolo della proporzione dovrebbe farsi considerando l'influenza d'ogni Stato di maggior importanza, quanto più è vicino e quanto più si contratta con noi; e siccome astrattamente non si potrebbe valutare con esattezza l'azione rispettiva degli altri Stati, quindi è che a mio parere il risultato si trova prossimamente nel corso volgare.
Da "Consulta su la riforma delle monete dello Stato di Milano", 20 aprile 1772.

 


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