§ COME ERAVAMO

L'Italia dei numeri




A. P.



Quasi duemila anni fa, nei giorni del massimo fulgore dell'Impero romano, gli abitanti dell'Italia erano in tutto otto milioni e mezzo. Poca cosa, rispetto ai 57 milioni di oggi. Ma tanti per il mondo di allora, che fra l'altro possedeva di gran lunga meno risorse di quello di oggi. E c'è chi si è divertito a calcolare che, se le bighe fossero automobili e le clessidre orologi, l'intero Impero romano dell'epoca di Augusto doveva lavorare più di vent'anni per produrre quel che la sola Repubblica italiana produce oggi in un anno. le invasioni barbariche dimezzarono la popolazione della penisola e, nell'anno 700 dopo Cristo, gli abitanti dell'Italia scesero a quattro milioni. Ma pare che in quei tempi disgraziati l'intera Europa contasse in tutto ventisette milioni di persone. I progressi che la dominazione di Roma aveva fatto compiere ai popoli erano stati cancellati. Città un tempo fiorenti si erano ridotte a miseri borghi. Altre erano scomparse del tutto. Altre ancora furono abbandonate. E le campagne si erano inselvatichite, ricoperte da paludi e da foreste, popolate da lupi e da orsi. la stagnazione demografica continuò fino al fatidico anno Mille. Dopo di che, la popolazione italiana riprese a crescere, tanto che nel 1200 - al tempo dei Comuni - essa tornò a contare otto milioni e mezzo di individui. Attorno al 1300 -epoca delle Signorie - il numero degli italiani battè ogni record, raggiungendo la cifra di undici milioni. l'inversione di tendenza non si fece attendere. Dapprima una crisi agricola di notevoli dimensioni, poi la "Grande Peste", la tremenda "Peste Nera" del 1347-50, distrussero anche in Italia milioni di vite. Il Boccaccio descrisse l'immane tragedia nel l'introduzione al "Decamerone", narrando che i fratelli si erano rifiutati di curare i fratelli, le spose i mariti, i genitori i figli. Nell'anno 1400, la popolazione della penisola era decimata: solo otto milioni di unità. l'Italia del Rinascimento, tuttavia, possedeva capitali, tecniche, spirito d'impresa e vitalità sufficienti per risalire la china. Nel 1550, la popolazione della penisola conobbe un nuovo primato di undici milioni e seicentomila abitanti, presto superati dai tredici milioni e passa, raggiunti verso la fine del XVI secolo. Tuttavia, il sistema economico preindustriale, anche nella magica Italia rinascimentale, era quant'altri mai vulnerabile e precario. Si determinò un nuovo sussulto demografico, con un'altra inversione di tendenza. La crisi agraria della fine del Cinquecento, la più disastrosa dell'epoca moderna, produsse in molte zone effetti catastrofici. Le epidemie del 1600 completarono le devastazioni, cancellando anch'esse milioni di vite umane. Manzoni descrisse l'epidemia di peste del 1630 (questa volta era "peste bubbonica") in alcune pagine famose dei "Promessi Sposi". Milano perse quasi la metà degli abitanti. Monza, Padova e Verona ne persero anche di più. In tutto il Sud nacquero i lazzaretti, che ancora oggi danno il nome a contrade locali. Attorno al 1650, la popolazione italiana ridiscese a undici milioni e mezzo di unità.
Da allora in poi, tornò a crescere: più di tredici milioni nell'anno 1700, più di quindici milioni nel 1750, più di diciotto milioni nell'anno 1800, quasi trentaquattro milioni nell'anno 1900. La grande svolta demografica - il passaggio dall'epoca pre-moderna alla moderna, la fine delle continue oscillazioni che rendevano precaria la crescita - avvenne in Italia intorno al 1800, mentre in altri Paesi europei più sviluppati si era già verificata attorno al 1750.
Queste preziose notizie sono tratte da un'indagine di singolare interesse: "La popolazione italiana - Un profilo storico". Autore, Athos Bellettini, docente di demografia all'Università di Bologna, morto quattro anni fa. E' una raccolta di saggi: uno di carattere più complessivo e divulgativo, che già apparve nella "Storia d'Italia" della Einaudi, e quattro di carattere più analitico, rispettivamente dedicati al Seicento, al Settecento, all'Ottocento e alle fonti documentarie. L'improvvisa scomparsa ha impedito a Bellettini di comporre un'opera organica, anche se rimane - come avverte la prefazione - "il gusto dell'incompiuto", insieme con "la cautela e insieme il coraggio di procedere per congetture su terreni ancora mai noti".
Nel saggio sull'Ottocento, l'autore ci ricorda le cifre impressionanti del-la mortalità in generale, e in particolare di quella infantile. Ancora do-po l'unificazione, nel decennio 1874-83, circa il 21% dei nati vivi non giungeva, in Italia, al primo anno di vita. La mortalità infantile subiva l'influenza delle stagioni. Chi nasceva d'inverno correva gravi rischi nei primi giorni di vita, per le malattie del sistema respiratorio. Mentre i bambini che superavano le prime settimane correvano pericoli nella stagione estiva, quando si diffondevano le malattie infettive e dell'ap-parato digerente.
Sbagliano, comunque, quanti ritengono che allora la minor durata della vita dipendesse solo dall'alta incidenza della mortalità infantile. Per sincerarsene, è sufficiente depurare i dati statistici da quanto accadeva nella popolazione di età inferiore ai cinque anni. Utilizzando i dati pubblicati alcuni anni fa da Sergio Ricossa, si può calcolare che ai tempi dell'imperatore Alessandro Severo (III secolo dopo Cristo), la metà di quanti avevano superato i cinque anni di età moriva prima di arrivare ai quaranta. E ben più grave era la situazione in Europa nel 1600, allorché accadeva che quasi l'80% dei sopravvissuti ai rischi dei primi cinque anni non riuscisse a raggiungere il citato traguardo del quaranta. Oggi, in Italia, molto più del 90% dei nati vi arriva agevolmente.
Mancano, nei saggi, riferimenti precisi ad altre cause di mortalità (ad esempio, l'anemia mediterranea, e la malaria, e persino la fame) nel XIX secolo. Soprattutto, l'autore non ha potuto sviluppare un saggio sui dati del l'emigrazione, che proprio a partire dal 1800 dissanguò paesi e comunità, al punto che si può calcolare che dal periodo post-unitario a tutti i nostri anni '70 almeno 25 milioni di italiani abbiano abbandonato il Paese: per l'80%, si è trattato di meridionali.
Le cifre, comunque, pur nella loro aridità, aiutano a capire fino a qual punto sia cambiato, nelle società industrializzate, il rapporto di tutti gli uomini con la morte, e dunque con la vita. Accenneremo solo ad alcuni aspetti del problema: la maggiore sensibilità degli adulti nei confronti della morte dei bambini; la diminuita paura, tra i giovani, dell'aldilà; il fatto che i matrimoni, un tempo sciolti dalla morte precoce di uno dei coniugi, oggi possano essere sciolti solo dal divorzio. Mutato tenore di vita e progressi della medicina hanno trasformato la qualità stessa della nostra esistenza, cancellando anche i rituali terrificanti delle rupi Tarpee dalle quali l'uomo selezionava, indifesi, i suoi simili.

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