§ REGIONI IN CIFRE

Ritratto Italia




M. C. Milo, A. Foresi
Collaborazione di F. Albini e F. Borsi



Si chiama "Regioni in cifre" il volume pubblicato dall'Istat che ci offre un'immagine "stereoscopica" di venti realtà diverse: perché quando si parla dell'Italia non si deve mai dimenticare che siamo, sì, di fronte ad una nazione che ha ormai oltre un secolo di storia unitaria alle spalle, ma che, soprattutto, la fusione tra le varie aree del Paese è ancora ben lontana dall'essere completa, e che molto spesso all'osservatore si presenta non un quadro nel quale tutti i colori sfumano gradualmente, ma un mosaico che, visto da vicino, rivela bruschi cambiamenti di tonalità. E le tessere del mosaico sono le venti regioni italiane, ciascuna con una fisionomia ben precisa, quasi che dalle Alpi alle Madonie esistano non una, ma venti Italie.
Quel che spicca al primo colpo d'occhio è la persistente "cesura" tra Nord e Sud: uno ricco e industrializzato, europeo, alle prese più con il problema dello "sciopero della cicogna" che con quello della disoccupazione; e l'altro più povero, con consumi inferiori del 30 per cento, con una natalità esuberante e con l'eterna attesa di un decollo economico. In mezzo, il Lazio, regione di confine, cerniera tra Nord e Sud, che compendia il bene e il male delle due grandi "metà" dell'Italia, enfatizzando in positivo e in negativo le luci e le ombre, la saggezza e la follia che fanno del nostro il "Bel Paese", il più bel Paese del mondo.
La popolazione. Per questa, è tempo di record: a dispetto dell'imminente "crescita zero", gli italiani non sono mai stati tanti, quanti erano alla fine del 1986 (oltre 57 milioni e 278 mila), né avevano generato così pochi figli (551 mila). Ai minimi storici anche i matrimoni (294 mila). la popolazione cresce sempre più lentamente (appena 7 mila unità, sempre nel 1986). Il "taglio" tra Nord e Sud è netto: meno di otto figli per mille abitanti il primo, quasi tredici il secondo. La regione più prolifica è la Campania (14,3 nascite per mille abitanti); in Liguria invece nascono sempre meno bambini (5,9 per mille).
L'economia. In termini di prodotto interno lordo, un indicatore che serve a misurare la ricchezza, l'Italia centrosettentrionale, che dà il 75,2 per cento del totale nazionale, è largamente in testa, mentre il contributo del Sud è meno di un quarto. la Lombardia produce da sola quasi quanto tutto il Mezzogiorno (20,5 contro 24,8 per cento). Se poi si traducono queste cifre in Pil per abitante, si scopre che al Nord si va oltre il 17 per cento sopra la media nazionale, che è di 12,6 milioni, mentre il Sud è al di sotto per oltre il 30 per cento. Al Nord c'è meno disoccupazione (8,5 per cento delle forze di lavoro), al Sud le persone in cerca di lavoro raddoppiano (16,5 per cento), in Sardegna addirittura una persona su cinque non riesce a trovare un'occupazione (20,5 per cento). Anche sul fronte dei consumi il Sud insegue: la famiglia meridionale "media" spende ogni anno (1985) una cifra pari a sedici milioni e 782 mila lire, quella dei Centro e del Nord ventuno milioni e 304 mila lire.

Istruzione e tempo libero. Se il calo delle nascite ha contribuito a decongestionare le scuole elementari e quelle medie, altrettanto non si può dire di quelle superiori e dell'Università, dove la popolazione scolastica continua ad aumentare. Nella prima metà degli anni Ottanta, comunque, gli italiani agli studi sono diminuiti di circa il 5 per cento (pari ad oltre 600 mila unità), ma sono sempre, complessivamente, oltre dieci milioni. Da notare che sia nelle scuole elementari e medie inferiori sia in quelle superiori il numero dei "licenziati" e dei "maturi" per 100 esaminati è più alto nel Centro-Nord che nel Sud. Anche nel tempo libero il Mezzogiorno è costretto a tirare la cinghia. Ogni abitante delle regioni meridionali spende poco più di 19 mila lire all'anno (sempre nell'85), mentre uno dell'Italia settentrionale spende oltre 45 mila. E non si tratta di divertimento e basta, perché si tratta di spese che riguardano il teatro, la lirica, i libri. Chi spende di più è l'Emilia-Romagna (66 mila lire); la Basilicata sfiora appena le 10 mila lire annue.
Sanità e giustizio. In Italia, negli istituti di cura pubblici, ci sono quasi sette posti-letto per mille abitanti: la differenza tra Nord e Sud (in termini di quantità) è meno marcata che in altri settori (7,5 contro 6 per mille); ma fra la regione che sta meglio (il Friuli-Venezia Giulia, con 10,7) e quella che sta peggio (la Campania, con 5) la distanza è lunga. Per quel che riguarda la giustizia, meno omicidi e più rapine, e il Sud che - malgrado mafie e 'ndranghete e camorre - va meglio del Nord, con 3.200 delitti per 100 mila abitanti contro i 3.547 dell'altra Italia. La regione che delinque di piú è il Lazio.
Ripresa? Non a Sud. Possiamo ora alle cifre contenute nella Relazione sullo stato dell'economia: cifre tanto allarmanti da meritare una riflessione più attenta, proprio perché riguardano il Mezzogiorno. Le persone disoccupate, ovvero, come si dice, "in cerca di occupazione", alla fine del 1986 erano due milioni e 611 mila, pari all'11,1 per cento del totale delle forze di lavoro. A fine 1982, la corrispondente cifra era due milioni e 52 mila, e rappresentava il 9,1 per cento del totale. In quattro anni, dunque, la disoccupazione italiana è aumentato di quasi un quarto. Le statistiche dicono, inoltre, che per tre quarti quella disoccupazione riguarda i giovani di età compresa tra i 14 e i 29 anni e che, mentre l'11,1 per cento rappresenta oggi una media nazionale (al Nord è ferma all'8 per cento), nel Mezzogiorno il tasso di disoccupazione sale al 16,5 per cento, toccando livelli che fino a poco tempo fa erano preoccupante appannaggio della solo Sicilia.
La disaggregazione settoriale e quella geografica dei dati indicano che l'industria, negli ultimi quattro anni, ha perso dieci occupati su-cento, con un'onda che, mentre nelle regioni settentrionali ha presentato il suo massimo nel 1984, e si è poi quasi esaurita lo scorso anno, in quelle meridionali e insulari ha un andamento più uniforme, sia pure con ritmi più contenuti.
Tra il 1982 e il 1986, il tasso di disoccupazione è calato, o è rimasto stabile, in tutti i maggiori Paesi dell'OCSE, tranne che in Francia e in Italia. E in questo gruppo di Paesi l'Italia è ai livelli di disoccupazione più alti. Come si può notare, tuttavia, il tasso di disoccupazione presentato dalle nostre regioni settentrionali (pari all'8 per cento) è inferiore alla media di molti Paesi, e persino a quella della Germania Federale (8,3 per cento). Il valore aggiunto, ai prezzi di mercato e a lire correnti, dell'industria italiana è ammontato a fine 1986 a 257 mila miliardi, pari al 30 per cento del prodotto interno lordo. Nel 1982 era stato pari a 154 mila miliardi, pari al 34 per cento del Pil. Dunque, l'industria in quattro anni ha perso peso nel quadro complessivo dell'economia nazionale.
A partire dal 1983-84 è calato il ricorso alla Cassa integrazione guadagni nell'industria, sia per gli interventi ordinari (più che dimezzate le 230 mila ore del 1983) sia per quelli straordinari (ridotte di un 10 per cento le 490 mila ore del 1984). Poiché la Cig è spesso considerata una forma di disoccupazione latente, tale andamento può rafforzare la convinzione che gli squilibri occupazionali nell'industria siano in regresso. Va ricordata però la duplice e divaricante funzione che la Cig ha svolto come elemento di flessibiIizzazione nel processo di recupero di produttività dell'industria, specie centrosettentrionale, e come elemento di mantenimento del reddito (non del posto di lavoro) per i dipendenti di molte aziende meridionali venutesi a trovare in condizioni prefallimentari o addirittura fallimentari. E se calo di Cassa integrazione vi è stato nell'ultimo biennio, questo è piuttosto indizio che il processo di crescita della produttività nelle imprese del Centro-Nord è giunto al capolinea e che anzi gli investimenti in innovazione tecnologica spontaneamente avviati dalle stesse imprese all'inizio degli anni Ottanta stanno cominciando a dare i loro frutti positivi.

L'analisi economica ha dimostrato che, nel primo anno di gestione del Fondo innovazione tecnologica della legge 46 del 1982, l'80 per cento dei programmi presentati dalle imprese riguardava il Centro-Nord, e solo il 20 per cento il Mezzogiorno; e che, inoltre, la maggiore produttività conseguita nei primi anni Ottanta dall'industria settentrionale, anche attraverso il ricorso alla Cig, ha costituito la premessa indispensabile e la spinta determinante per avviare un processo di ammodernamento e di ulteriore recupero di competitività.
Gli effetti sul piano occupazionale si cominciano ad avvertire nel 1986, quando il tasso di disoccupazione resta invariato nel Nord, sui livelli di cui si è detto. È stato anche dimostrato che molte delle piccole e medie imprese, le quali fecero domanda di agevolazione finanziaria a valere su questa legge, avevano una dotazione di capitale di rischio insufficiente, rispetto all'impegno per nuovi investimenti. In altre parole, esse si accingevano a fare il passo più lungo della gamba. la favorevole congiuntura internazionale ha consentito alle imprese che avevano avviato programmi strategici di innovazione tecnologica di beneficiarne, trovandosi, puntuali all'appuntamento costituito dalle opportunità del mercati internazionali; e ha anche aiutato le piccole e medie imprese ad autofinanziare un certo consolidamento dei mezzi di rischio, riequilibrando le proprie forze, rispetto al passo lungo che stavano compiendo. In altri termini, la parte dell'industria che aveva avviato il risanamento intorno al 1980 è riuscita a beneficiare degli strumenti agevolativi allora esistenti e ad agganciarsi alla ripresa internazionale. Il resto dell'industria, invece, soprattutto quella di dimensione minore localizzata nelle regioni meridionali, nonché quella a partecipazione statale, che si trovava in particolari condizioni di crisi economica, ha visto progressivamente aumentare la distanza dalle condizioni di competitività sui mercati, e quindi di redditività. Contrastare questa tendenza avrebbe dovuto essere l'obiettivo primario della politica industriale.

Allora: che cos'hanno in comune un calabrese e un lombardo? Sono entrambi italiani, possono vedere in tv gli stessi programmi, vanno a votare nello stesso momento, fanno gli identici week-ends. Ma, al di 16 di questo, le loro vite divergono in maniera sostanziale. E visto che Puglia, Abruzzo, Molise sono quasi fuori dalla tradizionale "questione meridionale", e che Sicilia, Sardegna, Campania e Lucania rappresentano casi speciali (con i Sud del Sud, o con i Sud a pelle di leopardo di cui si è a lungo parlato), Calabria e Lombardia possono essere prese come esempio classico dello steccato storico che divide il Nord dal Sud. Che esistessero due Italie, una opulenta e appagata del Centro-Nord è una povera e insoddisfatta del Sud, non lo si scopre, dunque, adesso. Ma è sempre in qualche modo sorprendente constatare fino a che punto possono essere diversi tra loro, per abitudini e stili di vita, per disponibilità economiche, i cittadini di uno stesso Paese. Il quadro che emerge è quello di una netta frattura fra le due Italie, e - tanto per cambiare! - di un fossato che invece di colmarsi, tende ad approfondirsi.
In Calabria la vita è difficile. Innanzitutto dal punto di vista economico: il prodotto interno lordo per abitante, cioè l'insieme dei beni e dei servizi prodotti nella regione diviso per il numero di coloro che vivono, è di 6 milioni e 200 mila lire, contro i 10 milioni e 700 mila della media italiano. Il tasso di disoccupazione, che comprende chi ha perso il lavoro e chi è in cerca del primo, è del 18 per cento, un livello quasi da Terzo Mondo. Chi ha la fortuna di avere un'occupazione deve sfamare in media "quasi" altre due persone (1,7 per l'esattezza) che non sono ancora o non sono più in età lavorativa. I consumi delle famiglie sono complessivamente più bassi del 30 per cento rispetto alla media nazionale: tanto per capirsi, mangiano cose meno pregiate, indossano abiti più a buon mercato, vanno poco al cinema o al teatro, si divertono meno.
Una volta i calabresi, anche se poveri, potevano almeno consolarsi con il bel mare, il sole, le spiagge, tutte cose che una selvaggia speculazione edilizia ha quasi cancellato: come ricorda il Cer (Centro Europa Ricerche), la degradazione dell'ambiente naturale, urbano e. sociale è uno dei grossi problemi del Mezzogiorno. E nonostante la speculazione, la situazione edilizia non si presenta brillante: l'indice di affollamento, cioè il rapporto fra coloro che vivono in una casa e il numero di stanze a disposizione è di 0,9 (contro lo 0,7 della media del CentroNord). Per le famiglie calabresi non è facile neppure avere un telefono: ci sono 27 collegamenti ogni 100 persone, contro i 47 della media nazionale. Ci sono in giro pochi televisori (190 ogni mille abitanti, mentre la media italiana è di 254), poche automobili (24 su cento abitanti, contro le 36 dell'Italia nel suo complesso).
I lombardi sembrano invece fratelli di un altro pianeta. Il prodotto interno lordo pro-capite è di 14 milioni, superiore del 130 per cento rispetto a quello della Calabria. Chi ha un lavoro non deve fare molta fatica per mantenere chi è a suo carico, perché mediamente sulle spalle di ogni occupato ricade la responsabilità di poco più di un'altra persona (1,2 secondo le statistiche) non in età lavorativa. La disoccupazione non preoccupa più di tanto: è del 7,4 per cento, un livello quasi fisiologico di questi tempi (è più o meno quello degli Stati Uniti). Non è un caso, visto che in Lombardia si concentra un quinto dell'industria di tutto il Paese e di tutte le "unità economiche", intendendo con questo termine ogni entità nella quale si può trovare lavoro, come banche, assicurazioni, negozi, bar, botteghe di artigiani, e via dicendo. Sul piano dei consumi, l'abitante della Lombardia non lesina nulla: veste bene, mangia cibi costosi, frequenta senza risparmio cinema, teatri e discoteche. I suoi consumi sono infatti più alti del 12 per cento rispetto alla media italiana.
Insomma, per dirla in parole povere, il lombardo produce come e più di un giapponese, consuma come un americano, ha un livello di vita europeo.
Questo raffronto fra Calabria e Lombardia è in realtà soltanto un pretesto per giustapporre le due Italie, quella del Sud e quella del Nord, che assomigliano a due paesi diversi: il primo potrebbe figurare fra quelli in via di sviluppo, l'altro potrebbe essere ammesso nella ristretta élite di quelli opulenti. Il dato negativo che emerge dalle cifre Istat è che il divario tende ad approfondirsi, invece che a restringersi. Secondo autorevoli economisti è nei primi anni Settanta che si è bloccato quel processo di riavvicinamento cominciato con. le politiche meridionalistiche degli anni Cinquanta.

Le statistiche vanno ovviamente prese con le molle. Stiamo parlando di medie: non bisogna quindi dimenticare che non tutti i calabresi, i siciliani, i lucani, i pugliesi, i molisani, gli abruzzesi, i campani e i sardi stanno peggio dei loro connazionali del Nord. E anche all'interno delle varie regioni bisogna fare delle differenziazioni: ci sono aree che manifestano un dinamismo sconosciuto al resto del Sud; altre sono in fase di ristagno; altre ancora, in palese regressione. è vero, dunque, che le medie vanno prese per quelle che sono, facendo le opportune distinzioni laddove sono indispensabili. Però è altrettanto vero che sono indicative di una realtà oggettiva del Sud, fatta complessivamente di arretratezza.
Per il futuro, le cose, se lasciate a se stesse, non potranno che peggiorare. Vediamo quali sono gli elementi che giocano in questa direzione. Innanzitutto, la crescente difficoltà di trovare un lavoro. Si deve notare che in ben cinque regioni del Mezzogiorno il tasso di disoccupazione ha superato il 15 per cento: oltre alla Calabria, anche in Basilicata, in Campania, in Sicilia e in Sardegna. Non ci si deve meravigliare se il lavoro manca: nel Sud si trova solo il 23,6 per cento delle imprese di qualunque tipo (industria, commercio, servizi e artigianato), e solo il 20 per cento dell'industria in senso stretto. Una base produttiva molto ristretta, considerando che nel Mezzogiorno si concentra il 35,5 per cento di tutta la popolazione italiana. è dunque inevitabile, date queste premesse, che il Sud sia più "terziarizzato" del Nord. Il terziario del Sud assorbe infatti il 58,6 per cento del lavoratori, contro il 55,7 per cento del Centro-Nord e il 56,5 per cento della media italiana. E non si tratta certo di quel "terziario avanzato", fatto di computers e di microchips di cui tanto si parla; ma di quello arretrato, fatto soprattutto di piccolo commercio e di turismo.
I lavoratori del Sud sono anche in media meno qualificati dal punto di vista dell'istruzione scolastica rispetto ai loro colleghi del Nord. Innanzitutto, nella popolazione ci sono ancora molti, troppo analfabeti: 6,3 su cento, contro 1,4 del Centro-Nord. Questa percentuale tocca livelli da Paese sottosviluppato, assolutamente inconcepibili in una nazione moderna, sia in Calabria (9,6 su cento) sia in Basilicata (9,0). La stessa situazione si propone per tutti i livelli di studio, dalle elementari alle medie, dove l'Italia centro-settentrionale sopravanza di gran lunga quella meridionale.
A bloccare la prospettiva di un futuro migliore per il Sud giocano altri due fattori. Il primo: si è chiusa quella che per decenni è stata una valvola di sfogo fondamentale per l'economia meridionale, cioè l'emigrazione. Intanto, non vogliono più emigrare gli stessi meridionali, e nessuno può dar loro torto. Poi, né l'estero né le città del triangolo industriale (o dell'esagono industriale, come si dice adesso) costituiscono più un centro di attrazione per chi cerca lavoro: i processi di ristrutturazione produttiva, infatti, hanno fatto diminuire la domanda di manodopera. il risultato è che gli espatriati ritornano a casa, e siccome provengono per lo più dal Sud, è Il che si riversano in maggioranza: su 100 che tornano in Italia, 45,9 vanno al Centro-Nord e 54,1 al Sud.
Il secondo: la popolazione continua ad aumentare proprio a Sud mentre al Nord si ha ormai una crescita negativa. Il Mezzogiorno povero e con un'economia debole fa più figli, mentre l'"altra Italia" ne fa meno. Nell'86 il saldo fra morti e nati vivi è stato positivo dall'Abruzzo in giù e ha compensato il declino del Centro-Nord (97.000 persone in più, contro 90.000 in meno).
E chi darà lavoro alle nuove braccia, o meglio, ai nuovi cervelli, se lo Stato non rilancia in qualche modo lo sviluppo economico?.


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