§ DIETRO LE REVISIONI DELL'ISTAT

I conti che non tornano




Maria Rosaria Pascali



Che le statistiche non fossero assiomi lo si è sempre sostenuto. Che i loro dati prima o poi dovessero essere rivisti non è stato mai seriamente contestabile. Ma forse adesso si esagera un po'. L'esagerazione non sta tanto nelle revisioni che, da qualche tempo a questa parte, hanno sconvolto l'opinione pubblica, ignara di ciò che realmente le stava accadendo intorno; quanto nella portata delle revisioni stesse. Chiariamo: tutti hanno individuato negli anni '80 "la più lunga e grave crisi economica del dopoguerra". Ma quale crisi? I conti dell'Istat sono i primi a cadere sotto i colpi della mannaia revisionale. E pensare che il ricalcolo dei conti nazionali doveva avere il solo scopo di perfezionare ciò che già era stato detto. Unica variante: portare alla luce, per quanto possibile, quell'economia sommersa che da sempre è stata lo spauracchio delle finanze statali, perché non catalogabile e, soprattutto, non tartassabile! Ed ecco il colpo di scena, il miracolo: gli anni 1982/'83, fino ad oggi considerati anni neri di riduzione del reddito nazionale, vengono rivalutati e visti piuttosto come anni di stagnazione in cui la crisi della grande impresa trovava compensazione nella vitalità del sommerso, nell'innovazione e nella ripresa degli investimenti.
Riportiamo gli incrementi del Pil prima e dopo la revisione:


Dicono i competenti dell'Istat, per sminuire l'ottimismo che potrebbe derivare dai nuovi dati e forse anche per ridimensionare la portata della nuova scoperta che, per certi versi, non fa loro onore (essa è, infatti, la lampante conferma che fino ad oggi l'istituto è vissuto fuori della realtà): "La nostra economia ha marciato un poco più velocemente di quanto era stato misurato prima. Tuttavia, non è cambiato il ciclo economico, perché i conti trimestrali, quando li avremo completati, riveleranno delle fasi di significativa caduta del prodotto".
Fatto sta che il Pil non è mai arretrato per un anno intero ed oggi ce lo ritroviamo ormai prossimo ai 900.000 miliardi, in un momento favorito da un'inflazione scesa al 6,1%, da un attivo delle partite correnti con l'estero di quasi 7.000 miliardi, da un tasso di crescita degli investimenti in macchinari del 4,7%. Abbiamo superato la Gran Bretagna nella classifica del prodotto interno lordo; ma, secondo fonti ufficiose, anche la Francia è ormai alle nostre spalle.
Un'Italia più ricca del previsto, dunque. Ma dov'è andata a finire questa maggiore ricchezza? Stando alle vecchie previsioni dell'Istat, i più avvantaggiati dovrebbero essere i lavoratori dipendenti. L'istituto, infatti, ha sempre ritenuto che i due terzi del reddito nazionale andassero a questa categoria; la restante parte essendo destinata all'impresa e al lavoro autonomo. Ora si scopre che non è così e un'altra verità viene ad essere sconvolta: di tale reddito, infatti, solo la metà è destinata a salari e a stipendi; l'altra metà va al capitale, all'impresa, al lavoro autonomo. Nel 1985, i vecchi dati davano al lavoro dipendente il 60% del prodotto al costo dei fattori; con i nuovi, la quota si riduce al 50%. Negli anni '80, anche in quelli considerati di crisi, la quota dei redditi da capitale e da impresa non è stata mai inferiore al 33,9%.
Le cifre attuali, dunque, rimettono in discussione la posizione del lavoratori nel processo di ripartizione della ricchezza nazionale. Ma le considerazioni dell'istat in proposito sono caute. In primo luogo, le nuove statistiche conteggiano nel lavoro indipendente anche il secondo lavoro dell'impiegato o dell'operaio, nero o no che sia. Inoltre, "i redditi da lavoro indipendente riguardano una grossa quota di lavoratori che nella prima occupazione sono dipendenti". Si è voluto in questo modo sottolineare che spesso non si tratta di figure contrapposte, ma di due realtà che convivono nella stessa persona.
Come guardare alle novità messe in luce dall'Istat? Anche noi, come l'istituto, consigliamo prudenza. L'ottimismo sul passato non deve farci dimenticare che i gravi problemi restano; che la disoccupazione resta, anzi, aumenta; che il calo del prezzo del petrolio è finito, e non poteva essere altrimenti; che con esso anche gli altri fattori che hanno favorito questi "prodigi" fanno già parte della storia. La crisi di competitività, messa a tacere in questi anni dalla favorevole congiuntura internazionale, ritorna a farsi sentire in tutta la sua gravità, perché irrisolti restano i problemi che ne hanno consentito la nascita. Infatti, il costo del denaro continua a galoppare insieme con i tassi reali, penalizzando gli investimenti produttivi. Il costo del lavoro resta troppo alto e così pure la spesa pubblica, appesantendo sempre più i conti dello Stato. Per non dimenticare che il rafforzamento della lira nello Sme, oltre che verso il dollaro, si è tradotto in uno stimolo ad aumentare le importazioni, a scapito della produzione interna che tende alla stagnazione. Dice l'Istat in proposito: "L'aumento del prodotto interno lordo non modifica la dipendenza dall'estero; e le esportazioni restano il principale fattore che influenza l'andamento dell'economia italiana; gli investimenti di questi anni non hanno allargato la base produttiva, e nel 1986 la loro crescita è rallentata". Tutto lascia credere, quindi, che ricomparirà lo spettro del vincolo estero, uno dei fattori di maggior freno delle capacità di crescita della nostra economia. E, come abbiamo detto, non ci saranno più dollaro e petrolio a colmare lo scompenso.


E' dunque finito il nuovo "rinascimento economico"? Non è giusto nemmeno dire questo. La crisi non è imminente. L'Italia in questi anni ha compiuto profondi cambiamenti; le imprese industriali sono state risanate; il sistema capitalistico rivoluzionato. Una nuova cultura è in atto, rivolta verso aggregazioni che superano i vecchi poli di natura familiare o statale con le loro situazioni di monopolio di fatto. Ma la strada è ancora lunga. E l'errore di un paese "comodo" come il nostro è quello di adagiarsi ogni qualvolta viene fatto un passo in avanti, vivendo di rendita finché possibile, per poi ricominciare tutto daccapo. Un errore che ha molti nomi, ma che in sostanza si identifica nella politica del "carpe diem", nella assoluta mancanza di programmazione. Quest'errare oggi deve essere evitato. E lo Stato è chiamato a dare precise risposte al Paese. Di fronte alla spirale di trasformazioni che vengono dal basso, non può più restare arroccato su antiche posizioni. Né può sperare che lo spontaneismo continui a fare la sua parte, dando ciò che esso non può o non vuoi dare. Oggi lo spontaneismo ha completato la sua fase di vita "sregolata" e chiede di essere guidato verso obiettivi di crescita economica e sociale.
D'altra parte, in alto qualcosa già si muove. Forse è solo fumo o forse qualcosa di più, un segnale. Sulla base della rivalutazione del prodotto interno lordo compiuta dall'Istat è stato rivisto di recente il programma di politica economica preparato dal ministro del Tesoro. Dal documento emerge un'affermazione di non poco conto. D'ora in poi il risanamento della finanza pubblica deve battere sul contenimento della spesa. Il filone d'oro della pressione fiscale può considerarsi esaurito. Folle e "inopportuno" sarebbe inventarsi nuove tasse. E allora? E allora il programma prevede per l'anno in corso che la pressione fiscale resti invariata rispetto a quella del 1986 (pari al 39,60% del Pil). Altro impegno importante per i prossimi anni sarà quello di incoraggiare la voglia di investire degli italiani, mediante una politica fiscale volta al reinvestimento e una modernizzazione delle strutture pubbliche create a questo scopo, ma che allo stato attuale non sono operanti, data la loro inadeguatezza.

Riguardo alla crescita del Pil e al contenimento dell'inflazione, gli obiettivi sono quelli già noti: uno sviluppo del 3,5% annuo durante il periodo '87/89, per il primo; un assestamento al 4% nell'87 e al 3% nel biennio successivo, per quanto concerne la seconda. Altro obiettivo: contenere la crescita del rapporto "debito pubblico/Pil" fino a stabilizzarlo per la scadenza del decennio.
Parole? Si vedrà. Certo è che in queste parole sta la tanto agognata presa di coscienza, nell'ambito statale, del fatto che in questi anni molte cose sono cambiate. Il paese è cambiato. E ignorarlo non conviene più a nessuno. Penalizzare lo spontaneismo è come darsi con la zappa sui piedi. Scandagliare il terreno alla ricerca del sommerso è opera inutile. Lo spirito di sopravvivenza della società porterà sempre a nuove e insospettate soluzioni. Allora tanto vale assecondare questi fenomeni, allentare la morsa del fisco e magari dar loro anche un margine di liceità. Forse poi sarà più facile indirizzarli a fini statali!


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