Che le statistiche
non fossero assiomi lo si è sempre sostenuto. Che i loro dati
prima o poi dovessero essere rivisti non è stato mai seriamente
contestabile. Ma forse adesso si esagera un po'. L'esagerazione non
sta tanto nelle revisioni che, da qualche tempo a questa parte, hanno
sconvolto l'opinione pubblica, ignara di ciò che realmente le
stava accadendo intorno; quanto nella portata delle revisioni stesse.
Chiariamo: tutti hanno individuato negli anni '80 "la più
lunga e grave crisi economica del dopoguerra". Ma quale crisi?
I conti dell'Istat sono i primi a cadere sotto i colpi della mannaia
revisionale. E pensare che il ricalcolo dei conti nazionali doveva avere
il solo scopo di perfezionare ciò che già era stato detto.
Unica variante: portare alla luce, per quanto possibile, quell'economia
sommersa che da sempre è stata lo spauracchio delle finanze statali,
perché non catalogabile e, soprattutto, non tartassabile! Ed
ecco il colpo di scena, il miracolo: gli anni 1982/'83, fino ad oggi
considerati anni neri di riduzione del reddito nazionale, vengono rivalutati
e visti piuttosto come anni di stagnazione in cui la crisi della grande
impresa trovava compensazione nella vitalità del sommerso, nell'innovazione
e nella ripresa degli investimenti.
Riportiamo gli incrementi del Pil prima e dopo la revisione:
Dicono i competenti dell'Istat, per sminuire l'ottimismo che potrebbe
derivare dai nuovi dati e forse anche per ridimensionare la portata
della nuova scoperta che, per certi versi, non fa loro onore (essa è,
infatti, la lampante conferma che fino ad oggi l'istituto è vissuto
fuori della realtà): "La nostra economia ha marciato un
poco più velocemente di quanto era stato misurato prima. Tuttavia,
non è cambiato il ciclo economico, perché i conti trimestrali,
quando li avremo completati, riveleranno delle fasi di significativa
caduta del prodotto".
Fatto sta che il Pil non è mai arretrato per un anno intero ed
oggi ce lo ritroviamo ormai prossimo ai 900.000 miliardi, in un momento
favorito da un'inflazione scesa al 6,1%, da un attivo delle partite
correnti con l'estero di quasi 7.000 miliardi, da un tasso di crescita
degli investimenti in macchinari del 4,7%. Abbiamo superato la Gran
Bretagna nella classifica del prodotto interno lordo; ma, secondo fonti
ufficiose, anche la Francia è ormai alle nostre spalle.
Un'Italia più ricca del previsto, dunque. Ma dov'è andata
a finire questa maggiore ricchezza? Stando alle vecchie previsioni dell'Istat,
i più avvantaggiati dovrebbero essere i lavoratori dipendenti.
L'istituto, infatti, ha sempre ritenuto che i due terzi del reddito
nazionale andassero a questa categoria; la restante parte essendo destinata
all'impresa e al lavoro autonomo. Ora si scopre che non è così
e un'altra verità viene ad essere sconvolta: di tale reddito,
infatti, solo la metà è destinata a salari e a stipendi;
l'altra metà va al capitale, all'impresa, al lavoro autonomo.
Nel 1985, i vecchi dati davano al lavoro dipendente il 60% del prodotto
al costo dei fattori; con i nuovi, la quota si riduce al 50%. Negli
anni '80, anche in quelli considerati di crisi, la quota dei redditi
da capitale e da impresa non è stata mai inferiore al 33,9%.
Le cifre attuali, dunque, rimettono in discussione la posizione del
lavoratori nel processo di ripartizione della ricchezza nazionale. Ma
le considerazioni dell'istat in proposito sono caute. In primo luogo,
le nuove statistiche conteggiano nel lavoro indipendente anche il secondo
lavoro dell'impiegato o dell'operaio, nero o no che sia. Inoltre, "i
redditi da lavoro indipendente riguardano una grossa quota di lavoratori
che nella prima occupazione sono dipendenti". Si è voluto
in questo modo sottolineare che spesso non si tratta di figure contrapposte,
ma di due realtà che convivono nella stessa persona.
Come guardare alle novità messe in luce dall'Istat? Anche noi,
come l'istituto, consigliamo prudenza. L'ottimismo sul passato non deve
farci dimenticare che i gravi problemi restano; che la disoccupazione
resta, anzi, aumenta; che il calo del prezzo del petrolio è finito,
e non poteva essere altrimenti; che con esso anche gli altri fattori
che hanno favorito questi "prodigi" fanno già parte
della storia. La crisi di competitività, messa a tacere in questi
anni dalla favorevole congiuntura internazionale, ritorna a farsi sentire
in tutta la sua gravità, perché irrisolti restano i problemi
che ne hanno consentito la nascita. Infatti, il costo del denaro continua
a galoppare insieme con i tassi reali, penalizzando gli investimenti
produttivi. Il costo del lavoro resta troppo alto e così pure
la spesa pubblica, appesantendo sempre più i conti dello Stato.
Per non dimenticare che il rafforzamento della lira nello Sme, oltre
che verso il dollaro, si è tradotto in uno stimolo ad aumentare
le importazioni, a scapito della produzione interna che tende alla stagnazione.
Dice l'Istat in proposito: "L'aumento del prodotto interno lordo
non modifica la dipendenza dall'estero; e le esportazioni restano il
principale fattore che influenza l'andamento dell'economia italiana;
gli investimenti di questi anni non hanno allargato la base produttiva,
e nel 1986 la loro crescita è rallentata". Tutto lascia
credere, quindi, che ricomparirà lo spettro del vincolo estero,
uno dei fattori di maggior freno delle capacità di crescita della
nostra economia. E, come abbiamo detto, non ci saranno più dollaro
e petrolio a colmare lo scompenso.
E' dunque finito il nuovo "rinascimento economico"? Non è
giusto nemmeno dire questo. La crisi non è imminente. L'Italia
in questi anni ha compiuto profondi cambiamenti; le imprese industriali
sono state risanate; il sistema capitalistico rivoluzionato. Una nuova
cultura è in atto, rivolta verso aggregazioni che superano i
vecchi poli di natura familiare o statale con le loro situazioni di
monopolio di fatto. Ma la strada è ancora lunga. E l'errore di
un paese "comodo" come il nostro è quello di adagiarsi
ogni qualvolta viene fatto un passo in avanti, vivendo di rendita finché
possibile, per poi ricominciare tutto daccapo. Un errore che ha molti
nomi, ma che in sostanza si identifica nella politica del "carpe
diem", nella assoluta mancanza di programmazione. Quest'errare
oggi deve essere evitato. E lo Stato è chiamato a dare precise
risposte al Paese. Di fronte alla spirale di trasformazioni che vengono
dal basso, non può più restare arroccato su antiche posizioni.
Né può sperare che lo spontaneismo continui a fare la
sua parte, dando ciò che esso non può o non vuoi dare.
Oggi lo spontaneismo ha completato la sua fase di vita "sregolata"
e chiede di essere guidato verso obiettivi di crescita economica e sociale.
D'altra parte, in alto qualcosa già si muove. Forse è
solo fumo o forse qualcosa di più, un segnale. Sulla base della
rivalutazione del prodotto interno lordo compiuta dall'Istat è
stato rivisto di recente il programma di politica economica preparato
dal ministro del Tesoro. Dal documento emerge un'affermazione di non
poco conto. D'ora in poi il risanamento della finanza pubblica deve
battere sul contenimento della spesa. Il filone d'oro della pressione
fiscale può considerarsi esaurito. Folle e "inopportuno"
sarebbe inventarsi nuove tasse. E allora? E allora il programma prevede
per l'anno in corso che la pressione fiscale resti invariata rispetto
a quella del 1986 (pari al 39,60% del Pil). Altro impegno importante
per i prossimi anni sarà quello di incoraggiare la voglia di
investire degli italiani, mediante una politica fiscale volta al reinvestimento
e una modernizzazione delle strutture pubbliche create a questo scopo,
ma che allo stato attuale non sono operanti, data la loro inadeguatezza.
Riguardo alla crescita
del Pil e al contenimento dell'inflazione, gli obiettivi sono quelli
già noti: uno sviluppo del 3,5% annuo durante il periodo '87/89,
per il primo; un assestamento al 4% nell'87 e al 3% nel biennio successivo,
per quanto concerne la seconda. Altro obiettivo: contenere la crescita
del rapporto "debito pubblico/Pil" fino a stabilizzarlo per
la scadenza del decennio.
Parole? Si vedrà. Certo è che in queste parole sta la
tanto agognata presa di coscienza, nell'ambito statale, del fatto che
in questi anni molte cose sono cambiate. Il paese è cambiato.
E ignorarlo non conviene più a nessuno. Penalizzare lo spontaneismo
è come darsi con la zappa sui piedi. Scandagliare il terreno
alla ricerca del sommerso è opera inutile. Lo spirito di sopravvivenza
della società porterà sempre a nuove e insospettate soluzioni.
Allora tanto vale assecondare questi fenomeni, allentare la morsa del
fisco e magari dar loro anche un margine di liceità. Forse poi
sarà più facile indirizzarli a fini statali!
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