§ PROFILO DI UN ARTISTA MATINESE

Luigi Gabrieli: quasi un'intervista




Franco Silvestri



E in accordo con l'isolamento nel quale Luigi Gabrieli ha scelto di vivere la claustrale semplicità della sua casa, un umile fortilizio nel centro del paese, una antica struttura edilizia spontanea. Al primo ed unico piano si accede per una ripida scala, una pianta fiorita ad ogni scalino. La sua camera è una minuscola cella nella quale unico diversivo "mondano" è la coperta di pizzo che copre il letto. Gabrieli si sente protetto e sicuro soltanto tra le mura di casa e quando è chiuso in se stesso, quando declina con aperto distacco ogni occasione di mondanità. Questo modo di vivere quasi claustrale, in una lindura anche esteriore, è caratteristico di certi luoghi del Salento e prediletto da molti artisti. Così ho conosciuto le case di Casciaro e di Ciardo, lussureggianti di verde e di piante fiorite ed aromatiche. Isolarsi per scavare nel proprio mondo interiore, cercare le radici della ispirazione e quindi della invenzione della propria parola originale e della legittimazione nel mondo dell'arte, come presupposto di ogni creatività.
Nelle opere di Gabrieli colpisce il rifiuto di ogni convenzionalità. La sua pittura è un affiorare di emozioni essenziali, un richiamo continuo alle ragioni della natura che esige di essere ricreata, inventata, proclamata. Da qui l'ansia profonda di non farsi succubo dell'esteriore ma rivelatore ed araldo della propria soggettività. E ciò serve a spiegare la fase "astrattista" e dichiaratamente informale della esperienza di Gabrieli, indicativa di un segreto itinerario, di una ricerca stilistica ed espressiva forzata ai limiti del mero colorismo e della costruzione aritmica. Una fase ormai lontana ma ricca di scoperte nel campo della sintesi espressiva e della costruzione atonale, scoperta di nuove risonanze, di insospettati rapporti tra l'invenzione degli spazi e la "forma" del colore. Una ricerca che artisti come Klee ed ora in Italia D'Orazio hanno considerato esaustiva ed appagante, per Gabrieli è stata soltanto una acquisizione necessaria, una tappa, un presupposto prezioso alla maturità ed alla pienezza espressiva. A Gabrieli non è stato difficile avvertire i pericoli delle proclamazioni accademiche alle quali è legato l'insistere sulle piste dell'informale: ne è nata la scelta conseguente di una sofferto e felicemente risolta rivoluzione.
Ricercare la libertà espressiva non significa farsi servo di una "Iibertà" ad ogni costo. Per questa via il recupero di un personalissimo naturalismo è stata interamente percorsa. Dalle secche dell'informale e del vedutismo nelle quali tante energie giovani naufragano, Gabrieli ha tirato fuori generazioni di allievi ed è orgoglioso che artisti cresciuti alla sua scuola, come Ercole Pignatelli, sappiano oggi essere testimoni di un'arte libera, esemplare di una capacità espressiva impensabile sino a non molti decenni or sono.
L'ammirazione e l'affetto che gli ex allievi manifestano per Gabrieli (esemplare quello di Pignatelli, emigrato a Milano, che considera una tappa d'obbligo, ad ogni suo viaggio nel Salento, la visita al vecchio maestro nel suo eremo di Matino) sono tributi che, come Gabrieli confessa, danno all'anima un compenso ben più gratificante del successo e della popolarità.
Quando Gabrieli decide di mostrare le sue opere è come se il visitatore entrasse in una dimensione di commossa partecipazione, in una suggestiva iniziazione. Si sente introdotto in una magia fantasmagorica di luci e di spazi in un Salento che si trasfigura nelle allegorie di cieli impensati eppure reali nella misura avventurosa della fantasia. Cieli e silenzi, crepuscoli carichi di bagliori occidui, smisurati confini delle ombre rivelati e ridotti ad un rapporto occulto di equilibrio cromatico.
Nel 1946, data del mio primo incontro con Luigi Gabrieli in occasione di una sua prima "personale" a Lecce, rilevavo già le doti della sua personalità artistica: una assimilata esperienza cubista ed il pittoricismo profondo del suo modo di porsi davanti alla realtà, con una dichiarata vocazione di colorista. Dieci anni dopo, per una sua "personale" al Sottano di Bari, scrivevo: "Era il tempo in cui Aldo Calò scolpiva nel legno le sue figurine iperpituitarie, Suppressa stava per congedarsi dai cardinalini e dai cavalli di giostra, dagli innamorati sulle panchine e dagli "interni con famiglia" per partire alla scoperta di figure contadine e di ronzini oppressi dal peso della carne. Michele Massari disperdeva la sua straordinaria maestria in una esistenza d'a "bohémien", barattando i suoi quadri, senza cornice e col colore ancor fresco, per poche migliaia di lire e Geremia Re, nel suo fervore di neofita della "sinistra", dava testimonianza della sua rigorosa presenza di pittore impegnato e sensibile al dramma di una società disaggregata. Un altro indiscusso talento, Temistocle De Vitis, dopo aver scandalizzato i leccesi con certi suoi graffiti matissiani nel cinema-teatro San Carlino se ne era tornato a Parigi per poi emigrare a New York, nella città più astratta del mondo, per pagare il suo tributo alla moda dell'astrattismo. In questo fiorire e disperdersi di talenti e di presenze significative, Luigi Gabrieli rappresentava il paradigma dell'isolamento e del tenace attaccamento alla sua casa, alla scuola, alla sua ispirazione".
Gabrieli non teorizzava né discuteva di arte e dava scarsissimo credito alle enunciazioni teoriche che animavano i cenacoli artistici leccesi di quel secondo dopo guerra. Con il candore e la sincerità di una confidenza mi ha detto di aver avuto sempre paura dei critici e di aver avuto bisogno di silenzi e non di parole, di concentrazione e non di dispersione verbosa.
Nel 1956 l'arte di Gabrieli era maturata in un clima di isolamento e di ricerca lirica di un colloquio con il paesaggio, di un Salento visto per la prima volta come rivelazione di una dimensione dell'anima. Nella mostra di Bari una pittura così personale ed intensa passò quasi inosservata anche per le perduranti gelosie che hanno caratterizzato gli scarsi rapporti tra le due sub-regioni, la barese ed il Salento, gelosie che io avevo tentato di vincere portando a Bari nel 1954, e per la prima volta, una collettiva di artisti salentini con tre retrospettive di pittori da poco scomparsi: Michele Massari, Michele Palumbo e Geremia Re, ed un centinaio di opere di pittura e di scultura di artisti viventi. La mostra fu ospitata nel Castello Svevo ed ebbe notevole successo di pubblico e di critica. E' di quegli anni il paesaggio di olivi, di terra e di cielo che abbiamo qui riprodotto, che può considerarsi un manifesto del nuovo paesismo pugliese da raffrontarsi criticamente al paesaggio di Vincenzo Ciardo con il suo lirismo romantico e vibrante ed alle accensioni cromatiche di altri validissimi esploratori del paesaggio quali Raffaele Spizzico e Roberto Manni. Viene fatto di chiedersi se un diverso carattere, una più aperta disponibilità al rapporto umano ed alle relazioni con i critici, una più assidua partecipazione alle mostre personali, e, in altre parole, un minimo di protagonismo, avrebbero guadagnato alla pittura di Luigi Gabrieli una diversa fortuna critica.
La resa espressionistica del paesaggio, la problematicità delle atmosfere create dall'artista non indulgono mai al piacevole. Per questa drammaticità, questo attingere al monumentale, la pittura di Gabrieli ha il suo concreto fascino: nulla concedere al gusto, all'apparenza fenomenica ed alla logica figurativa, realizza il segno di un rapimento, una religiosità ed -un distacco quasi ascetico, un segno di solitaria grandezza. Nella rivelazione del rapporto cielo-terra c'è l'avviso - non si sa se apocalittico o salvifico - di una inquietante cosmogonia; come in una attesa messianica di un drammatico conflittuale connubio tra Urano e Ghea dal quale nasca un nuovo spazio edenico, una riva di quiete luci, un occhio vivo di mare, un segno di pace ed un proclama di ritrovata serenità. In Gabrieli ogni effetto cromatico sembra scaturire dall'istinto più che dalla tecnica. Sempre nel 1956 scrivevo:
"Questa pittura ha il segno di una nobiltà e severità antiche; la pennellata corposa, insistita, qualche volta puntigliosa, crea spessori di materia densa e vibrante in equilibrio perfetto tra la esigenza del dato figurativo e l'emozione pittorica". Ma ben al di là di questo dato tecnico-interpretativo, il problema della lettura dell'opera di Gabrieli rimane quello del superamento figurativo in una chiave di essenzialità trasfigurante. E' necessario dunque porsi in una condizione di amorosa, intensa contemplazione, di ansia interpretativa. In un paesaggio dominato dalla ineluttabilità estetica e storica, in questo scarno paese di olivi come monumenti vegetali e trappole di ombre, di pietre che sanno distillare la luce, un paesaggio nel quale solo il cielo muta con i suoi messaggi, le sue premonizioni, i cataclismi di luce in empirei improvvisi e fugaci, ardenti ed indecifrabili, non c'è che la via del rifiuto o della sublimazione. E Gabrieli sublima il paesaggio ed esplode nella emozione. Questa comunicazione creativa caratterizza una delle più generose, originali e vive personalità artistiche. Non mi piace la ricerca di affinità e di discendenze, ma opere dell'espressionismo tedesco, l'"urlo" di Munch, hanno cieli di tragedia che partecipano al dramma della solitudine dell'uomo e richiamano suggestivamente la passione cosmica di Gabrieli per il quale però l'urlo è soltanto nel cielo che rivendica il suo protagonismo e rifiuta di farsi scenario. In modo meno appariscente si pone qualche richiamo con i cieli metafisici del Novecento italiano, di Sironi, De Chirico, Carrà, sino alle formule spaziali di un Salvatore Fiume. Sono, ovviamente, riferimenti generici ed occasionali, ma in qualche modo condivisi anche da un pittore della qualità e della sensibilità di un Suppressa che in certi modi di figurare i cieli del Salento si sforza di risolvere l'enigma dei cieli visti non come fondali ma come protagonisti. Lo stesso pittore, in uno scritto di molti anni fa, trovava nei paesaggi del Nostro "la maestosa primitività trecentesca di un Lorenzetti" ed una riscoperta di Giotto tramite Carrà.
Una pittura espressione di un messaggio esistenziale, una disperata passione per il paese, la contemplazione del cosmo per carpire un momento da consegnare alla tela come momento di magia. Ecco quindi che la pittura di Gabrieli diventa la storia della felice captazione di un attimo fuggente di luce: non dell'eterno ma del fuggevole e del possibile. In quale rapporto con questi più recenti anche se da tempo annunciati accadimenti stiano, ad esempio, le "lavandaie" del 1946 e le nature morte della stessa epoca, può essere agevolmente scoperto ove si tenga conto che in queste opere della prima maniera c'è il credo pittorico di Gabrieli ravvisabile in nuce in una approfondita lezione cubista come scoperta dei volumi e del loro rapporto con il colore, sempre preminente e protagonista della emozione pittorica, una dichiarata apertura agli avventi culturali dell'espressionismo e della metafisicità. Nelle sue esperienze del periodo maturo si va accentuando il distacco dalle suggestioni naturalistiche e si accentua la ricerca di una logica tutta interiore di rapporti tonali da scoprire e da forzare ai limiti della invenzione. In questa evoluzione si inserisce naturalmente il periodo, al quale abbiamo più sopra accennato, della ricerca informale nutrita di motivazioni soprattutto coloristiche.
Chiuso e guardingo, questo grande vecchio della pittura pugliese non concede confidenza se non a pochissime persone. Nel suo carattere, un indecifrabile miscuglio di contadino e di intellettuale che pure sa, in certi momenti di accensione, essere espressivo di una cultura orgogliosa e quasi sprezzante, di un "credo" artistico profondamente radicato, si aprono improvvisi varchi di confidenza, come quelle isole di luce vaganti nei cieli di tempesta dei suoi quadri. Ed affiora così la storia di una infanzia, di una vita, di un'arte difficile. Senza monografie illustrate, senza occasioni celebrative. Ecco le sue confidenze, le sue confessioni:

"Sin da fanciullo rivelavo ai miei familiari una passione esclusiva per il disegno tanto da convincerli ad avviarmi ad uno studio regolare. Mi iscrissero perciò alla Scuola d'arte -G. Pellegrino" di Lecce, la prima ed allora l'unica del genere in Puglia, a conferma della vocazione tradizionale di Lecce per l'arte; e poi a Firenze, in quell'istituto d'Arte. Furono necessari grandi sacrifici per i miei e molte privazioni per me. Al paese erano in molti a considerare una avventura questo tipo di studi e questo vivere tanto lontano e tentavano di scoraggiarla. Tuttavia resistemmo e nel 1927 fui abilitato all'insegnamento delle materie artistiche. Occupai a Lecce la prima cattedra, poi a Sulmona, a Costeimassa ed ancora a Lecce per poi essere chiamato a dirigere gli Istituti d'Arte di Poggiardo e di Parabita, incarichi che mi lusingavano e nello stesso tempo mi privavano di quel diretto, personale ed immediato contatto con gli allievi. Mi consolava tuttavia che i miei insegnanti erano quasi tutti miei ex-alunni, formati alla mia scuola e perciò liberi da superati metodi didattici delle vecchie botteghe artigianali".

Chiedo come mai da tanti, troppi anni, si rifiuta alle mostre, agli inviti e ad ogni forma di pubblicità. "Fu l'entusiasmo della giovane età che mi spinse a partecipare a mostre, a partire dal 1930. Fu proprio una di queste mostre, la Intersindacale di Roma del 1933, che mi procurò una delle prime anche se indirette soddisfazioni. C'era il pericolo di rimanere senza insegnamento nell'anno scolastico 1935-1936 e decisi di avventurarmi a Roma nel Ministero della Pubblica Istruzione per parlare con il funzionario dal quale dipendeva il mio incarico. All'ingresso, mi si para contro un gigante baffuto con molti galloni e mi blocca: - Eh! lei, dove va? - lo, piccolo di statura, timido ed inesperto, accennai a spiegare: - su, nell'ufficio del commendator... - e quello, prima che finissi la frase: - alle 10,30!. All'ora stabilita mi fu consentito di passare sino all'anticamera del commendatore. Rannicchiato sulla panca del corridoio adiacente alla porta del Comm. Mastropasqua, Capodivisione dell'Ispettorato artistico, aspettai il mio turno, frastornato dal timore di rimanere senza cattedra e, naturalmente, senza stipendio.. Giunto il mio turno, fu lo stesso funzionario che si fece sull'uscio: - Prego, professar Gabrieli, si accomodi. Come sta? In che cosa posso esserle utile? Come va la sua scuola a Sulmona? - Questa inattesa accoglienza da parte di un funzionario che non avevo mai visto prima mi incoraggiò ad esporre la mia situazione e le preoccupazioni che mi avevano spinto a chiedere il colloquio. Finalmente a mio agio, esposi il mio caso ed ottenni una rassicurante promessa che fu puntualmente mantenuta. Al momento di congedarmi, mi fu chiaro il motivo di quella cordialità e di quella buona disposizione. Mi disse che all'Intersindacale di Roma aveva visto ed ammirato due miei quadri e, in un articolo, ne aveva anche scritto in termini elogiativi. Quella conversazione, conclude Gabrieli, fu per me vitale e ricchissima d'umanità".
Rotto il freddo vetro della riservatezza, Gabrieli si confida. Elenca le sue partecipazioni a mostre collettive e personali, qualcuno dei premi vinti, medaglie, segnalazioni speciali, premi acquisto. Non è stato certo né un cacciatore né un collezionista di premi. Si è rifiutato di entrare nel "giro", è ancora e più che mai atterrito dai problemi, per lui insolubili, dei registri di carico e scarico, della bolle di accompagnamento, delle complicazioni fiscali. Anche se ora ha paura dei critici e della loro verbosità, mi parla con naturalezza e gratitudine dei suoi incontri. Rovista tra le sue carte, ne estrae qualche antico catalogo, qualche ritaglio. Di Vittorio Bodini, poeta e scrittore tra i maggiori interpreti della salentinità, mi mostra un giudizio che condivide e che lo lusinga:

"Guarda il suo Salento - scrive Bodini - in una versione intima ma non perciò meno persuasiva. Chi voglia ritrovarlo cammini un po' a ritroso in sé stesso, attraversi il confine della adolescenza, nelle sgomente attese nei sottoboschi, sulla terra colar sangue all'ora del tramonto, con gli ulivi che non stormiscono ed un pezzetto di casa bianca che appare e scompare tra i tronchi, non sai se amica o nemica. La malinconia che si aggira tra queste immagini come un fumo è Gabrieli, è il lento segreto dei suoi occhi. Se Ciardo ci ha scoperto di questa misteriosa terra del Capo l'ardente fissità, l'arido disordine, nei momenti migliori Gabrieli ce ne rivela la profondità dei silenzi nell'avanzare cauto dell'ombra, dove annegano gli ultimi gridi ossessivi del cuore".

Ecco dunque, nelle immagini del poeta identificare nel pittore due elementi, quello formale: l'avanzare dell'ombra e quello espressivo del "grido" come chiave di lettura di uno sgomento infinito. E' un giudizio che coglie perfettamente il nucleo emotivo di questa pittura, del poema drammatico che è l'arte del "solitario" di Matino.
Altro significativo cenno critico è di Nerio Tebano, del giugno 1960: "E' una pittura che narra ed evoca, rappresenta ed accenna, restando sempre fedele alla funzione favolosa dei colori, quasi aerei, distribuiti a macchie ed a lastrine vibranti. Colori che indicano il mondo pacato che sembra chiuso in una bolla di cristallo sottilissimo su cui il cielo versa il suo incantesimo e la terra riempie di una quiete che è vera ed insieme sognata". Anche questo critico ha colto il senso immanente del paesaggio di Gabrieli: i termini "favolosa - aerea - vibrante -incantesimo - quiete e sogno" sono la radice di un giudizio critico rivelatore.
Nel 1956 Luigi Flauret identificava puntualmente nella "salentinità" il dato significante dell'arte di Gabrieli: "I paesaggi di Gabrieli sembrano intesi a scoprire e rivelare quasi un senso metafisico della natura di questo Salento dovizioso di motivi segreti. Gli elementi atmosferici, in cui il paesaggio è immerso, assumono un ruolo di primo piano. A volte l'aria delle giornate di sole è incandescente e la terra pare vaneggi nel delirio. A volte l'immagine dell'ulivo, motivo ricorrente, pare ingigantita e paurosamente limpida sotto la sferza di una terribile tramontana. E anche il colore, truculento e compatto, mostra una sua interiore vitalità e appare nella sua smagliante luminosità".

Non molti critici e quasi tutti di casa eppure tutti particolarmente qualificati ed impegnati: Vittore Fiore, Oronzo Valentini, Franco Sassi, Gustavo d'Arpe, Emanuele De Giorgio. Lo storico futuro impegnato nella collocazione della presenza di Gabrieli nel panorama della nostra cultura artistica potrà rintracciare questi testi sulla stampa quotidiana e periodica, pubblicati in occasione delle mostre dell'artista, giacché lo stesso Gabrieli pare non ne abbia conservato copia.
Gabrieli ha esplorato con felici esiti anche la scultura ed affrontato con eccellenti risultati ricerche tecniche ed espressive anche nell'uso della tempera e dell'acquerello con risultati di straordinaria suggestione. In certi suoi fogli è come se gli riesca di figurare lo spettro, l'anima impalpabile del paesaggio salentino, una elegia per la scomparsa del colore, visioni lievi come miraggi destinati a dissolversi, un nulla segnato nel tempo e nello spazio da un'unica concreta ma sempre problematico misura: il paio del telegrafo come testimone superstite di una terra destinata a scomparire.
Nell'ombra che si addensa mordendo lentamente i bianchi delle pareti del cortiletto sul quale si apre lo studio, Gabrieli continua nella sua "confessione", un testamento artistico di umiltà e di probità: "Più gli anni passano e più riconosco che dipingere non è facile. Mi spiego meglio: dipingere è facile perché tutti oggi dipingono. Fare dell'arte non è facile. Essa è componente essenziale per fare storia ed è per questo che mi spaventa dipingere. Mi spaventano i critici, i cultori d'arte, i mercanti, gli intenditori, i collezionisti. Ho paura di non operare nel tempo, di essere accusato di faciloneria, di accademismo, di cose già viste e superate. Vorrei che nella mia pittura vi fossero espressioni e pensieri di un mondo nuovo, di cose e di luoghi nuovi, per gente di oggi e di domani ... Vorrei restare nel tempo, come testimone della mia capacità di sentire e di vedere il mondo! E pensare sulle cose presenti e future, su ciò che si vede e si vive, su ciò che si ama e si odia, senza allontanarsi dal presente o falsare la realtà; dire delle cose nuove con semplicità e serrata essenzialità, senza perdere nulla del soggetto". Il vecchio maestro (mai aveva detto di sé tanto e con tanta commossa intensità) prosegue: "Questa paura mi ha tenuto lontano dai critici, la paura che non mi capissero, che mi distogliessero dalla mia strada. Perciò sono stato lontano dalle polemiche. Abituato ad insegnare temevo l'insegnamento degli altri che non potevo riconoscere come "maestri" ma solo come interpreti. Neanche oggi sono sereno, anche se sono libero da occupazioni di responsabilità. Sono inquieto e vivo in un clima di avversità e dedico tutto il mio tempo a questo colloquio solitario con la mia terra, la Puglia che amo. Le grandi macchie di terra e di pietre, i grandi vigneti, gli olivi secolari scontorti mi posseggono. Le case tinteggiate di calce bianca, rosa, celeste e rosso mi fermano nella meditazione e nel tentativo di comprendere attraverso il colore il mondo e la natura della mia terra e l'uomo che la vive. Uomini e donne ossute, colar terra di Siena, che tornano stanchi negli accesi tramonti, mi spingono a comprendere meglio le difficoltà di vivere e di operare. Così, la nuvola che passa e si disperde, la pietra che affiora sulla terra arida, il paio della luce o del telegrafo sono la sigla ed il segno espressionistico della mia pittura. Con questa mia confessione non intendo mettermi in una prospettiva culturale e storica. Voglio soltanto documentare la partecipazione della mia pittura nell'ambiente e nel tempo in cui ho lavorato. Se non sempre sono stato compreso, ho dato ragione agli altri pensando di non essere stato sufficientemente chiaro nel mio intento e nei risultati".

Sin qui il vecchio Maestro che ha sempre parlato in piedi. Accende una modesta lampada da soffitto che combatte col crepuscolo che ha invaso le ampie nude stanze dello studio. Allineati contro il muro i quadri di ieri e di oggi e le tele pronte per quelli di domani. Un grande paesaggio di ulivi sembra trattenere nella luminosità del cielo quegli enigmatici occhi di luce che turbano l'osservatore e ripropongono momenti panici, la residua chiarità di questo autunno foriero di malinconie e di ispirazioni. Ho visto e rivisto in queste tele la storia di un artista solitario, di un uomo la cui grandezza non è a misura di critici e di intenditori ma attinge a valori di originale invenzione artistica e di feconda umanità.


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