§ TACCUINO DI BORDO

Il grido dei poeti




Tonino Caputo



Il titolo era "L'Africa in casa". L'inchiesta era condotta da Agatoni, Caracciolo, Ciranna, Corbi, Del Bosco, Glorioso, Scalfari e Zanetti. Nella prima puntata di una delle "grandi inchieste" dell'"Espresso", sul numero 17 dell'aprile 1959, sulle piaghe più misere del Mezzogiorno, dove l'"Italia non cambiava", erano descritte le "condizioni di vita africane in cui vivono molte popolazioni" del Sud. Era, a modo suo, una protesta e, nello stesso tempo, un appello alla pubblica opinione, nel momento in cui "un'ondata di contadini -e di braccianti si muove verso il Nord alla ricerca di più umane condizioni di vita". Stralciamo da quella prima puntata:
"Che cos'è la Repubblica?"
"Non ci sono mai stato".
"Qual è la capitale d'Italia?"
"Non lo so".
"Ha mai visto il mare?"
"No".
"Ha mai mangiato pesce?"
"Qualche sarda".
"E' mai stato al cinema?"
'Marcellino. In piazza. Quando ci fu l'Annunziata".
Così aveva risposto Damiano Gentile, contadino di Tudia, una fattoria a quaranta chilometri da Caltanissetta, cuore della zona dei feudi e della mafia. Descrizione dell'aspetto della fattoria: "Quello d'un penitenziario e insieme d'un campo di concentramento. C'è soltanto un grosso edificio cupo e rosso, con piccole finestre munite d'inferriate, e quaranta capanne di sassi e di fango col tetto di paglia. Nelle stanze terrene del palazzo, che è il caseggiato padronale, risiedono otto carabinieri e i guardiani privati del proprietario, sorveglianti, sovrastanti e campieri. Nelle capanne, chiamate pagliari, abitano i contadini".
A ottantaquattro anni dall'inchiesta Sonnino-Franchetti nulla era cambiato in Sicilia. Migliaia di miliardi spesi quasi nello spazio di un secolo non erano serviti a rimuovere le durissime condizioni di vita che allora indignarono e preoccuparono la classe dirigente italiana.
Quattro anni prima, sul numero 10 dello stesso giornale, un'altra inchiesta, sul "Natale a Milano", a firma di Gian Carlo Fusco. La città che rappresentava l'altra faccia dell'Italia, alla vigilia del boom, per le feste di fine anno aveva consumato "7.000 quintali di frutta, 14.600 quintali di polli e tacchini, 1.210 quintali di pesce, un milione di uova, 37.000 quintali di panettone, 1.500 quintali di pasticceria, 2.000 quintali di cioccolato, 2.500 quintali di caramelle, 3.500 quintali di torrone". Per le feste degli anni successivi, previsto un aumento dei consumi dell'8% medio annuo. "Nel 1960, anno che registrò il più massiccio spostamento di popolazione dal Mezzogiorno verso il Nord e verso l'Europa, lasciò il Sud un uomo ogni minuto primo: 1.440 persone al giorno, stanate dalla fame e dalla miseria", (A. Bello, in "Terzo Sud").
Anni di passione. Saverio Strati raccontava le vicende dolorose di chi, costretto a lasciare radici, terre, paesi, affetti, si gettava allo sbaraglio, andava incontro al pane, ma anche alle vicende più umilianti. Tomasi di Lampedusa mandava in giro il suo "Gattopardo", rifiutato da Vittorini, e scoperto solo anni dopo da Feltrinelli, quasi per caso. A Sud, Compagnone, Sciascia, Rea, Cassieri, Bernari, Pomilio e altri narratori seguivano le linee del realismo, dandoci spaccati impressionanti della vita di quest'altra Italia; e a Nord nasceva la nuova parola d'ordine: commedia all'italiana e ottimismo d'obbligo. I meridionali vennero praticamente emarginati. Quando si trattò di parlare dei rapporti tra letteratura e industria, ci si rifece al "Metello" di Pratolini, esaltato da Aristarco e dalla critica ortodossamente stalinista; nessuno ricordò, o volle ricordare, che in tempi di fucilazioni c'era stato Bernari di "Tre operai", romanzo anticipatore. (Ma tant'è: pochi, persino oggi, ricordano che quel ciclo si è concluso con "Tuta blu", di Tommaso Di Ciaula). Chi disse male di "Metello", Piccioni e Bo in prima fila, venne tacciato di incompetenza. Oggi è accertato che fu una delle cose peggiori scritte da Pratolini. Trent'anni, per recitare il pentimento.
Era possibile continuare a vivere nel Sud, senza finire macerati nel magma della cosiddetta cultura contadina? Si poteva restare al di sotto della linea gotica, senza correre il rischio di venir tagliati fuori non dalle correnti di pensiero, perché il pensiero è come il vento, travalica terre e mari e porta con sé semi fecondi, ma dall'aggiornamento immediato (con i tempi che correvano, per il Sud) e dai movimenti del mercato (con i tempi che erano sempre corsi, per il Sud)?
Chi non è rimasto, non può rispondere. Chi decise di partire una risposta ce l'aveva, o presumeva d'averla: al negativo. il nostro Paese e l'Europa sarebbero diventati più piccoli solo anni dopo. Allora le distanze erano ancora enormi, anche se per raggiungere Torino da Lecce non s'impiegavano più, come accadde al Castromediano, quattordici giorni. Questo, almeno, si può dire: crebbe una febbre improvvisa, che anticipò le partenze degli emigrati, negli artisti, nei giornalisti, negli scrittori. C'erano corrispondenze, si scoprono oggi interi epistolari, il telefono non aveva distrutto ancora la consuetudine della lettera manoscritta. C'erano contatti, interrelazioni, collegamenti, esperienze comuni anche se vissute a distanza, interessi incrociati. Lecce e Parma, Lecce e Milano, Lecce e Firenze, Lecce e Roma, ad esempio: e lo stesso discorso si può fare per tante altre città geograficamente eccentriche, ma culturalmente vive, del Sud. Incontrarsi al "Budda" era già uno star fuori dalle dimensioni locali, un voler prendere il volo per la galleria meneghina o per il "Giubbe rosse" fiorentino. Eravamo già emigrati "dentro". Per questo assistevamo alla partenza dei treni (il Lecce-Milano e il Lecce-Roma, quasi in esclusiva), e li ritenevamo treni senza ritorno. Mai, a memoria mia, l'attesa di un treno in arrivo. Da Lecce, i treni partivano soltanto.
Scriveva Donato Moro: "Il vento del deserto non ha canti / la musica è lamento / ogni porta si chiude sul tramonto / E' l'ora del governo delle bestie / del boccone a fatica masticato / dello sguardo fissato contro il muro. / La speranza è la notte". Le frise d'orzo non erano diventate ancora un alimento ricercato: col peperone amaro, col pomodoro e con una croce d'olio, ci sfamavano. E ci sfamavano François Villon e Knut Hamsun, Bodini e Pagano per la nostra parte, con le riviste e i periodici per i nostri sfoghi, le rabbie, i presentimenti. Baricentro, ripeto, il "Buda", e il "Giancane", e I'"Alvino", ma venuti dopo. Più di qualsiasi altra città del Sud, la nostra aveva ancora una cultura intatta. Recepiva e ricreava, non si lasciava contaminare. Così anche la natura: il mare era mare, la campagna era campagna, e Ciardo poteva ritrarli senza inganni ottico-visivi; anche città e paesi erano quelli che erano, e così le persone: Suppressa ha avuto fonti di ispirazione genuine ed esiti stupendi.
Ma il desiderio era di lasciarsi alle spalle tutto questo. Manni a Venezia, Tafuri a Venezia, Pignatelli a Milano, Milella a Sassari, i giornalisti a Roma e a Milano, Vallone a Roma e a Napoli, Marocco a Milano, Delle Site a Roma, Gigante in Emilia, Sodo a Torino e a Portovenere, Langatta a Roma e a New York, Marangio a Parigi, Spanò a Roma, Carrino a Roma, Riso e Paradisi a Roma... Quante altre storie che non conosciamo ancora sta scrivendo la diaspora? E quanti di quelli che hanno lasciato le macerie di fuori si son portati dietro le macerie dentro?
Dentro ci portavamo il colore del cielo e quello della terra. Dentro ci portavamo la luce di Terra d'Otranto, la stessa che - ma prima non lo sapevamo? -Bonaventura Tecchi ritrovò dalle parti dell'Aquila; ma che dalle nostre parti, tra l'anfiteatro e il castello, cioè tra Roma e Carlo V, aveva un sapore diverso, e ci rendeva quasi trepidanti epigoni degli emigrati dalla madre Grecia. Ci portavamo i mari striati di verde, gonfi di storia dimenticata; i castelli diruti e le torri di vedetta; le campagne bruciate e gli ulivi inerpicati sulle rocce delle serre, laminati d'argento; i caseddhri e i furneddhri di pietra leccese, grigia chiara, sormontati dal basilico; i canti di Grecia e i canti dei trainieri e i canti delle raccoglitrici di olive e i canti delle vendemmiatrici e i canti delle raccoglitrici di tabacco; le terrazze e le corti con i vasi di geranio e con i piatti nei quali rassodava "lu strattu", la salsa rossa e quasi rosso-cupa delle nostre domeniche; il gorgoglio dei mosti e l'odore acre delle vinacce (montagne, a Squinzano, persino negli angoli delle piazze, un tempo); e la callidissima salacità dei barbieri-cerusici-cartapestai, le polemiche ai tavoli dei caffè, l'ultima poesia di Sinisgalli, l'ultima stroncatura di Bodini, l'ultimo saluto alla stazione, sul treno che partiva soltanto.
(Per quanto possa sembrare incredibile, tutti, in Terra d'Otranto e fuori, hanno sempre dipinto paesi con la biacca; nessuno ha fatto ricorso, che so, ai chiarissimi grigio, rosa, verde, celeste; solo Mandorino emblematizza certi paesaggi col rosso e persino col blu di Prussia, colori della sua grande inquietudine: un caso a parte, che ne fa un autentico maestro).
Solo quando - attraverso Bari - giunse a Roma, Vittorio Bodini si accorse che il Salento era terra lontana, se non remota: e quasi rinnegò la "Luna dei Borboni". Aveva scritto nel '64: "L'uomo che s'affeziona al proprio deserto / guarda la proditoria brace / che scolora fra i platani / e sa che il suo pensiero un tempo amante di sfide / non sa andar oltre e quasi di quel limite / s'accontenta. / Lo sfiora appena il sospetto / d'essere prediletto / da quel rosso nulla". Eppure, anche in prosa aveva dipinto l'immagine netta, immutabile, della sua terra: "Ecco le case dove i fanciulli nascono dicendo: "a priori", e il sangue delle lune sgorga melenso e s'interra negli scantinati. Giungeva dall'antro d'un maniscalco la canzone di Amapola, scandita dagli zoccoli di eccitate cavalle: una vecchia dal mento di creta scendeva i gradini della Cattedrale, mentre lame di giallo e viola ad occidente traversavano un distaccato cielo di sabbia ... ".
Eppure, anche a Roma (come a Madrid) cercò botteghe con la carne di cavallo affogata nel sugo col peperoncino: quella che trovava nelle giravolte leccesi, nelle sue scorribande notturne con sciami di amici. A Barcellona avremmo risentito lo stesso odore pungente, nelle giravo te di Barcellona avremmo riascoltato lo stesso linguaggio serpigno dei bottegai leccesi: "Carne de caballito, señor?", con l'inchino invitante. Bisognava trovarla dai macellatori clandestini, a Roma, a Campo de' Fiori, o dietro i budelli del Monte dei Pegni e di Piazza Farnese: quarti disossati venduti con la stadera, ogni giovedì (a tardissima sera), il frigorifero mandava riverberi sanguigni per una settimana, la piccia dei diavolicchi smagriva a vista. Era baldoria come ai vecchi tempi, il vino veniva da Manduria, confine messapico, nero come l'inferno. Facevamo adepti: poeti, narratori, pittori, scultori, registi, attori, ciascuno capocorrente di se stesso, tutti all'avventura dei primi tempi: stramazzavamo ai piedi di montagne di "pezzetti" piccanti, riprendendoci più in la, quando Carmelo Bene apriva le ostilità con le sue provocazioni saturnine. Ed erano discussioni accese, violente, e dichiarazioni di principio furibonde come bollettini di guerra, e propositi di successi e di vendette personali, omicidi compresi. Affogavamo le nostre macerie, quelle che ci eravamo portati dietro e dentro, mandandole sempre più giù, sotto il peso di chili di filetto di cavallo, tra le volte affrescate de a casa di Via Montoro che fu proscenio per "Nostra Signora dei Turchi".
Allora: che cos'era la Repubblica? Nessuno di noi c'era mai stato. Avevamo abitato l'anarchia. Discorsi e progetti si incrociavano, si scontravano. Non si innestavano. E quando mai un salentino ha giocato al biliardo con un altro salentino? Troppo bravo (ciascuno) per avere avversari degni della sua stecca. Bruciavamo dentro come Giordano Bruno bruciò tutto. Anche quando, come dice Bene, gli enfants-prodige rimasero soltanto prodige con la barba brizzolata.
(Si può tornare giù sempre più spesso, ora la velocità ha accorciato tutte le distanze, l'acrimonia ha lasciato il passo a pensieri più distaccati. Resta una domanda: chi ha tradito? Noi, certamente. Noi che vorremmo una città immutabile, quasi morta: quella che avevamo lasciato, con le Quattro Speziarei intatte, con i venditori di droghe (quelle che venivano da Smirne, lungo la via della seta; non quelle che vengono dai campi di papavero), con la casa del poeta D'Amelio, con la fulminea salacità dei caricaturisti, con gli artigiani sulle strade e le forge in bottega, col Buda-circolo culturale e con l'università solo sulla carta. Ma dobbiamo pur difenderci, allora diciamo che è la città che ci ha traditi, così le polemiche non hanno fine, anzi non hanno né capo né coda, e tutti siamo felici).
Prodigi contaminati. I contatti ci hanno resi cittadini del mondo, sempre ori the road perché non abbiamo più baricentro, allora il moto è perpetuo. Si passa dal fico melanzano al baobab, dall'olmo (albero delle mosche) all'albero del pane, dal bambù al cactus: con naturalezza, e quasi per remota predisposizione.
Scrive Claudio De Palma, nel suo libro sulla Magna Grecia: "La Puglia presenta, rispetto al resto dell'Italia meridionale, uno sviluppo storico del tutto particolare". E spiega come non ci sia stata in questa regione, come invece accadde in Lucania, in Calabria e in Campania, una colonizzazione greca in età storica, eccetto per l'angolo nord-occidentale del golfo jonico, nel quale venne fondata Taranto. E aggiunge: "Il denso sostrato neolitico della Puglia e gli apporti etnici rappresentati dalle immigrazioni preistoriche (Japigi e Peuceti) e protostoriche (Dauni e Messapi), di cui furono protagonisti popoli guerrieri e culturalmente evoluti, rappresentarono un ostacolo insormontabile per la colonizzazione greca in Apulia, che rimase confinata alla sola Taranto, e a pochi insediamenti costieri siracusani molto più tardi. L'ellenizzazione riscontrabile in modo particolare dalle ceramiche delle città peucetiche, messapiche e in qualche misura anche daune, fu però un fatto incontestabile, anche se generalmente tardo (a partire dal quinto secolo)".
Veniamo, dunque, da popoli migratori, colti, pronti alle interrelazioni, ospitali con cautele, ma anche gelosi della propria autonomia, e accorti nel recepire influenze di seconda mano. Inclini, piuttosto, a fare esperienze dirette, praticando le strade del mondo. Perciò, anche, siamo ipercritici, arroganti quanto basta, o presuntuosi quanto basta; maliziosi e leali; intraprendenti e attivi, col settimo giorno dedicato obbligatoriamente al riposo, per voglia di pigrizia rifilata per riflessione; facili alla parola e disposti al bel gesto; irrequieti e persino volubili; sciroccati dall'io; facili alla promessa e alla testardaggine; aperti al nuovo, capaci d'invenzione; irritabili e irritanti. Sappiamo mimetizzarci bene. Ma al primo segnale di mediterraneità ci scopriamo irrimediabilmente strapaesani. Ricordo bodiniano: "Paese mio, così sgradito da doverti amare". Mai trattato di antropologia disse tanto in così poche parole. Ci siamo dentro per intero e per sempre.
Così, se la Puglia è la più grande regione dell'Italia minore, il Sud come terra del rimorso, noi siamo - artisti, scrittori, scienziati e altro ancora - i minori tra i più grandi, in attesa di essere solo i più grandi. In qualche modo, è stato detto, bisognerà riscrivere la storia: per far capire che la nostra è una fatica immane, se è vero che un Pietro Micca che saltò in aria per fare il suo dovere di soldato è sui libri di testo, mentre ottocento otrantini che si fecero decapitare, resistendo ai turchi, sono solo sui libri di memorie locali. Ora come ora, le proporzioni sono proprio queste: un rapporto uno-a-ottocento, tra Nord e Sud, nell'arte, nell'economia, nella scienza. E nel successo. E nel mercato. Nell'espansione del pensiero. E nel valore della pelle.
Abbiamo perso quasi tutto. Ci rimane la poesia. Secondo Schuré, Strabone assicura in modo positivo che l'antica poesia fu soltanto la lingua dell'allegoria, e ciò conferma Dionigi di Alicarnasso quando confessa che i misteri della natura e le più sublimi concezioni della morale sono state coperte con un velo. Non è dunque per metafora che l'antica poesia si chiamò "la lingua degli Dei", e questo senso segreto e magico, che costituisce la sua forza e il suo incanto, è contenuto anche nel suo proprio nome. La maggior parte dei linguisti hanno derivato la parola "poesia" dal verbo greco "poiein": fare, creare. Apparentemente è questa un'etimologia semplice e naturalissima, però è poco conforme alla lingua sacra dei templi, dai quali uscì la poesia primitiva. Perciò è più logico ammettere con Fabre D'Olivet che "poiesis" venga dal fenicio "phohe" (bocca, voce, linguaggio) e da "ish" (Essere superiore, Essere principe; in figurato: Dio). L'etrusco "Aes" o "Aesar", il gallico "Aes", il copto "Os", l'egiziano "Osiris" hanno la stessa radice.
Il grido dei poeti sulla pagina, sulla pietra e sul metallo, sulla tela, tra le formule fisiche e chimiche, fra la gente, nel mondo che s'incontra in ogni città libera da bandiere; il grido dei poeti, forse, può ancora salvarci.

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