§ INDAGINI ISTAT-ISCO

Ancora deregulation. Ma i disoccupati keynesiani?




Maria Rosaria Pascali



Il protrarsi del favorevole andamento congiunturale, pur consolidando la fase di ripresa della nostra economia, non ha dato luogo a decisivi incrementi occupazionali. Assistiamo, anzi, ad un rallentamento della domanda di lavoro, cui si contrappone una più ampia offerta dello stesso, causata dall'operare congiunto di fattori di natura demografica e sociale. E' quanto ha rilevato l'Istat nella sua indagine sulle forze di lavoro, relativa al terzo trimestre del 1986.
Se si fa un confronto fra questi dati e quelli del 1985, relativi allo stesso periodo, si nota una diminuzione complessiva degli occupati superiore alle 20 mila unità. Contrariamente a quanto avvenuto in passato, non si è verificata la compensazione del calo degli addetti all'agricoltura (-115 mila addetti) e all'industria (-72 mila) a mezzo di una adeguata crescita dell'occupazione nel terziario. Il boom del terziario, infatti, pare essersi ridimensionato. Il settore, con i suoi 11 milioni e 929 mila addetti, comincia ad avere serie difficoltà nell'assorbire il flusso di manodopera espulsa dai settori primari. Sempre nello stesso periodo, il numero di persone in cerca di occupazione è aumentato di 231 mila unità, di cui 147 mila sono donne. Concorrono a produrre tale incremento: i disoccupati propriamente detti (pari a 48 mila unità); i giovani in cerca del primo lavoro (pari a 103 mila unità); altre persone che cercano comunque un impiego, quali casalinghe, pensionati, studenti, ecc. (che sono le rimanenti 80 mila unità). In un anno il tasso di disoccupazione è così aumentato dal 9,8% al 10,7%.
Naturalmente la situazione, già critica a livello nazionale, è sentita in tutta la sua gravità soprattutto nel Meridione, dove la popolazione continua ad aumentare in un momento in cui, nel Centro-Nord, il quoziente di natalità ha ormai raggiunto il limite di guardia. Fra l'85 e l'86, nel Sud, si è avuta una contrazione netta degli occupati pari al 2%, in un contesto già penalizzato da un tasso di attività (del 37%) inferiore a quello delle regioni settentrionali (di circa il 45%). Tre sono, dunque, i caratteri salienti della nostra disoccupazione. Essa è soprattutto: un problema femminile (colpisce, infatti, solo il 7,1% degli uomini, contro il 17,4% delle donne); un problema meridionale (con un tasso di disoccupazione pari al 16,6% mentre nel Centro-Nord il livello medio non supera l'8,2%); e, infine, un problema giovanile (1 milione e 200 mila ragazzi sono alla ricerca del primo lavoro). Quest'ultimo aspetto ci fa addirittura primi nella scala delle nazioni che non offrono alcun futuro ai giovani. Questa anomalia tipicamente italiana affonda le sue radici in un mercato del lavoro che: a) risente ancora del positivo andamento demografico degli anni passati (il potenziale giovanile è aumentato del 40% negli ultimi 5 anni); b) non permette ai giovani di specializzarsi e, in questo modo, nega loro la possibilità di entrare a far parte di quella schiera di persone aventi una larga esperienza alle spalle, praticamente le sole ad essere ancora richieste sul mercato del lavoro; c) sposta, quindi, la domanda di lavoro verso le età più avanzate.
Neppure a livello europeo la situazione appare confortante. Nella media dei paesi della Cee, gli aumenti dell'occupazione complessiva (+0,4%), verificatisi fra l'85 e l'86, non sono stati di entità tale da compensare la perdita occupazionale che ha caratterizzato gli anni fra il 1980 e il 1984. Il tasso di disoccupazione ha ormai raggiunto il 12% delle forze di lavoro. Ci si attende che la situazione migliori in modo naturale con l'inizio degli anni '90, grazie ad un'inversione di tendenza operante sia a livello demografico sia a livello sociale. Resta comunque il fatto che sarà un problema occupare lo stock di disoccupati accumulatosi in questi anni in tutta la comunità europea e pari, nel 1986, a 16 milioni di persone.

INDAGINE ISCO

L'impotenza delle misure ad hoc di intaccare alla radice il problema occupazionale ha alimentato numerosi studi sulla dinamica attuale del mercato del lavoro. L'analisi più interessante è quella avente per oggetto le rigidità e i vincoli di questo mercato. L'esigenza di una maggiore flessibilità è qui vista come punto di partenza di un discorso che, se ben condotto, potrà portare all'equilibrio i due lati del mercato del lavoro.
L'analisi sulla flessibilità è stata realizzata sia da singoli paesi sia da organismi internazionali, quali la Cee e l'Ocse; ed è confortata da verifiche empiriche, a mezzo di sondaggi svolti fra i diretti interessati (datori di lavoro, lavoratori). A livello comunitario, questa inchiesta è stata indirizzata sia al settore industriale sia a quello dei servizi privati, visto che proprio nel secondo l'occupazione ha dimostrato di essere maggiormente dinamica. A livello nazionale, data la scarsa esperienza dell'indagine nel terziario, la ricerca da parte dell'isco si è svolta esclusivamente nell'ambito del settore industriale. I soggetti dell'inchiesta sulla flessibilità del mercato del lavoro sono costituiti da un numero limitato di imprese (1500 in tutto) dei comparti estrattivo e manifatturiero, le stesse contattate mensilmente dall'Isco per le sue inchieste mensili. Dalle risposte date al questionario emerge un apparato industriale squilibrato, sovradimensionato, in termini di addetti, nella maggior parte dei settori. Il 49% delle imprese partecipanti all'indagine ha infatti dichiarato di avere un eccesso di manodopera; solo il 2% ne ha accusato una carenza. Lo squilibrio è più accentuato nei settori metallurgico e meccanico, dove oltre il 60% delle aziende ha denunciato un surplus di manodopera; mentre circa il 14% ha registrato una carenza di personale qualificato. l'attuale tendenza al ridimensionamento dell'occupazione nei vari settori produttivi non sembra dunque destinata a modificare il suo corso, almeno non nel breve periodo. Questo squilibrio qualitativo fra domando e offerta di lavoro rende difficile un incontro delle forze in campo e alimenta una situazione instabile e precaria ai due lati del mercato.
Ma vediamo quali sono per le aziende i fattori che agiscono da freno all'aumento dell'occupazione. A livello macroeconomico, il 90% delle aziende ha visto nella carenza di domanda l'ostacolo più grande; l'80% ha messo in evidenza la scarsa competitività. Eguale importanza è stato attribuita all'onerosità dei costi di lavoro non salariale (denunciata dal 90% degli interpellati). Fra gli altri fattori di freno sono stati indicati quelli relativi alla scarso mobilità della manodopera, sia a livello macroeconomico sia a livello aziendale: l'86% delle aziende considera i procedimenti di assunzione e di licenziamento troppo rigidi e/o costosi. Infine, il 62% delle imprese ha ammesso che anche l'adozione di nuove tecnologie e i processi di razionalizzazione produttiva vanno considerati come altrettanti ostacoli all'aumento occupazionale.
Dalle risposte date a livello settoriale, possiamo notare un settore tessile meno "ostacolato", grazie al processo di ristrutturazione aziendale qui ormai in fase avanzata. Notevoli difficoltà ad accrescere l'occupazione sono invece incontrate dai comparti chimico, meccanico ed elettrico. Gli ostacoli maggiori: per il settore chimico, il livello del costo del lavoro non salariale e la scarsa flessibilità delle procedure di assunzione e di licenziamento; per i settori meccanico ed elettrico, l'insufficienza di domanda. Per quel che riguarda il comporta metallurgico, la grave crisi strutturale che investe il settore porta ad individuare nella scarsa competitività e nella carenza di domanda gli ostacoli maggiori alla crescita occupazionale.
Analizziamo, ora, i vari strumenti di politica economica e contrattuale che, secondo le aziende interpellate, sono in grado di incidere positivamente sul livello occupazionale. Tra gli interventi concretantisi in modifiche della struttura e del l'organizzazione del mercato del lavoro, l'80% delle aziende ha considerato molto positivo quello rivolto a semplificare le procedure di licenziamento; mentre scarsa importanza è stata attribuita all'esigenza di una semplificazione delle procedure di assunzione. Questa affermazione può suscitare dubbi, soprattutto se si considerano i suoi effetti nel breve periodo: si assisterebbe, infatti, ad un numero di licenziamenti superiore al numero di assunzioni. In un'ottica di medio periodo, invece, il risultato sarebbe molto diverso, grazie al progressivo ricambio delle forze espulse nel breve. Ed è in quest'ottica che la precedente affermazione va valutata. Per quanto riguarda gli interventi volti a modificare la struttura del costo del lavoro, il 69% delle aziende ha giudicato molto positiva l'introduzione di una contrattazione salariale legata alla produttività aziendale. larghi consensi ha pure suscitato l'ipotesi di un maggiore ventaglio salariale legato al grado di professionalità e alle condizioni di lavoro. Anche l'introduzione di un salario di ingresso viene vista con favore; mentre limitata efficacia è stata attribuita all'adozione di quote salariali legate ai profitti aziendali.

Con riferimento ai provvedimenti più direttamente legati alla mobilità del lavoro nell'azienda, gli interventi proposti non sono stati considerati tali da poter migliorare sensibilmente l'attuale situazione di stallo in cui versa il mercato del lavoro. Giudizi molto negativi ha provocato soprattutto la proposta di un'eventuale riduzione dell'orario di lavoro, considerata dal 58% delle aziende una ragione in più per accelerare il processo di ridimensionamento occupazionale.
In sostanza, le aziende vedono nella deregolamentazione del mercato del lavoro l'unica strada per porre sotto controllo il problema dell'occupazione. Il discorso, contraddittorio quanto si vuole, è questo: la fase di ristrutturazione ancora in atto ha bloccato il processo di espansione industriale. La possibilità di creare nuovi posti di lavoro è dunque rimandata al momento in cui riprenderà quel processo. Di conseguenza, finché gli occupati saranno rigidamente tutelati non ci sarà posto per i senza lavoro. Il mercato non potrà godere del ricambio qualitativo della manodopera, per cui continueranno ad aversi settori sovradimensionati accanto a settori con carenza di personale. L'eccessiva onerosità del costo del lavoro porterà le aziende ad accelerare il processo di razionalizzazione e l'introduzione di nuove tecnologie; altra manodopera sarò allora espulsa dal mercato; e il processo si aggraverà con l'ulteriore irrigidimento delle posizioni e delle misure atte a tutelare i lavoratori ancora occupati.


Deregulation, dunque. Basterà? Le aziende, e noi con loro, non lo credono. Non dimentichiamo, infatti, che la questione occupazionale nasce da un complesso di altri problemi, di natura economica, politica, sociale, storica, territoriale. La sua soluzione non può esulare dal superamento di questi ultimi. Naturalmente, nella situazione in cui ci troviamo, dobbiamo cogliere al volo qualunque rimedio possa dare risultati concreti. E quello suggerito dalle imprese può farlo. Senza attenderci svolte decisive. La delusione sarebbe amara. Attraverso l'attuazione di una o più delle modifiche proposte dalle imprese, l'occupazione potrà superare del 9% quella che altrimenti si avrebbe senza alcun intervento. Ed è già una conquista. Ma nessuno ci dirà cosa fare della disoccupazione keynesiana, quella derivante, cioè, da carenza di domanda aggregata. Così come non sarà certo la sospirata "deregulation" a frenare l'adozione di nuove tecnologie, atte a risparmiare ulteriormente forza-lavoro. Certo. Forse un giorno la classe lavoratrice non avrà più motivo di esistere. Tutti a pancia in su, serviti da macchine che governano altre macchine. Ma la situazione attuale svela prospettive meno allettanti.

 


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