Il protrarsi del
favorevole andamento congiunturale, pur consolidando la fase di ripresa
della nostra economia, non ha dato luogo a decisivi incrementi occupazionali.
Assistiamo, anzi, ad un rallentamento della domanda di lavoro, cui si
contrappone una più ampia offerta dello stesso, causata dall'operare
congiunto di fattori di natura demografica e sociale. E' quanto ha rilevato
l'Istat nella sua indagine sulle forze di lavoro, relativa al terzo trimestre
del 1986.
Se si fa un confronto fra questi dati e quelli del 1985, relativi allo
stesso periodo, si nota una diminuzione complessiva degli occupati superiore
alle 20 mila unità. Contrariamente a quanto avvenuto in passato,
non si è verificata la compensazione del calo degli addetti all'agricoltura
(-115 mila addetti) e all'industria (-72 mila) a mezzo di una adeguata
crescita dell'occupazione nel terziario. Il boom del terziario, infatti,
pare essersi ridimensionato. Il settore, con i suoi 11 milioni e 929 mila
addetti, comincia ad avere serie difficoltà nell'assorbire il flusso
di manodopera espulsa dai settori primari. Sempre nello stesso periodo,
il numero di persone in cerca di occupazione è aumentato di 231
mila unità, di cui 147 mila sono donne. Concorrono a produrre tale
incremento: i disoccupati propriamente detti (pari a 48 mila unità);
i giovani in cerca del primo lavoro (pari a 103 mila unità); altre
persone che cercano comunque un impiego, quali casalinghe, pensionati,
studenti, ecc. (che sono le rimanenti 80 mila unità). In un anno
il tasso di disoccupazione è così aumentato dal 9,8% al
10,7%.
Naturalmente la situazione, già critica a livello nazionale, è
sentita in tutta la sua gravità soprattutto nel Meridione, dove
la popolazione continua ad aumentare in un momento in cui, nel Centro-Nord,
il quoziente di natalità ha ormai raggiunto il limite di guardia.
Fra l'85 e l'86, nel Sud, si è avuta una contrazione netta degli
occupati pari al 2%, in un contesto già penalizzato da un tasso
di attività (del 37%) inferiore a quello delle regioni settentrionali
(di circa il 45%). Tre sono, dunque, i caratteri salienti della nostra
disoccupazione. Essa è soprattutto: un problema femminile (colpisce,
infatti, solo il 7,1% degli uomini, contro il 17,4% delle donne); un problema
meridionale (con un tasso di disoccupazione pari al 16,6% mentre nel Centro-Nord
il livello medio non supera l'8,2%); e, infine, un problema giovanile
(1 milione e 200 mila ragazzi sono alla ricerca del primo lavoro). Quest'ultimo
aspetto ci fa addirittura primi nella scala delle nazioni che non offrono
alcun futuro ai giovani. Questa anomalia tipicamente italiana affonda
le sue radici in un mercato del lavoro che: a) risente ancora del positivo
andamento demografico degli anni passati (il potenziale giovanile è
aumentato del 40% negli ultimi 5 anni); b) non permette ai giovani di
specializzarsi e, in questo modo, nega loro la possibilità di entrare
a far parte di quella schiera di persone aventi una larga esperienza alle
spalle, praticamente le sole ad essere ancora richieste sul mercato del
lavoro; c) sposta, quindi, la domanda di lavoro verso le età più
avanzate.
Neppure a livello europeo la situazione appare confortante. Nella media
dei paesi della Cee, gli aumenti dell'occupazione complessiva (+0,4%),
verificatisi fra l'85 e l'86, non sono stati di entità tale da
compensare la perdita occupazionale che ha caratterizzato gli anni fra
il 1980 e il 1984. Il tasso di disoccupazione ha ormai raggiunto il 12%
delle forze di lavoro. Ci si attende che la situazione migliori in modo
naturale con l'inizio degli anni '90, grazie ad un'inversione di tendenza
operante sia a livello demografico sia a livello sociale. Resta comunque
il fatto che sarà un problema occupare lo stock di disoccupati
accumulatosi in questi anni in tutta la comunità europea e pari,
nel 1986, a 16 milioni di persone.
INDAGINE ISCO
L'impotenza delle
misure ad hoc di intaccare alla radice il problema occupazionale ha
alimentato numerosi studi sulla dinamica attuale del mercato del lavoro.
L'analisi più interessante è quella avente per oggetto
le rigidità e i vincoli di questo mercato. L'esigenza di una
maggiore flessibilità è qui vista come punto di partenza
di un discorso che, se ben condotto, potrà portare all'equilibrio
i due lati del mercato del lavoro.
L'analisi sulla flessibilità è stata realizzata sia da
singoli paesi sia da organismi internazionali, quali la Cee e l'Ocse;
ed è confortata da verifiche empiriche, a mezzo di sondaggi svolti
fra i diretti interessati (datori di lavoro, lavoratori). A livello
comunitario, questa inchiesta è stata indirizzata sia al settore
industriale sia a quello dei servizi privati, visto che proprio nel
secondo l'occupazione ha dimostrato di essere maggiormente dinamica.
A livello nazionale, data la scarsa esperienza dell'indagine nel terziario,
la ricerca da parte dell'isco si è svolta esclusivamente nell'ambito
del settore industriale. I soggetti dell'inchiesta sulla flessibilità
del mercato del lavoro sono costituiti da un numero limitato di imprese
(1500 in tutto) dei comparti estrattivo e manifatturiero, le stesse
contattate mensilmente dall'Isco per le sue inchieste mensili. Dalle
risposte date al questionario emerge un apparato industriale squilibrato,
sovradimensionato, in termini di addetti, nella maggior parte dei settori.
Il 49% delle imprese partecipanti all'indagine ha infatti dichiarato
di avere un eccesso di manodopera; solo il 2% ne ha accusato una carenza.
Lo squilibrio è più accentuato nei settori metallurgico
e meccanico, dove oltre il 60% delle aziende ha denunciato un surplus
di manodopera; mentre circa il 14% ha registrato una carenza di personale
qualificato. l'attuale tendenza al ridimensionamento dell'occupazione
nei vari settori produttivi non sembra dunque destinata a modificare
il suo corso, almeno non nel breve periodo. Questo squilibrio qualitativo
fra domando e offerta di lavoro rende difficile un incontro delle forze
in campo e alimenta una situazione instabile e precaria ai due lati
del mercato.
Ma vediamo quali sono per le aziende i fattori che agiscono da freno
all'aumento dell'occupazione. A livello macroeconomico, il 90% delle
aziende ha visto nella carenza di domanda l'ostacolo più grande;
l'80% ha messo in evidenza la scarsa competitività. Eguale importanza
è stato attribuita all'onerosità dei costi di lavoro non
salariale (denunciata dal 90% degli interpellati). Fra gli altri fattori
di freno sono stati indicati quelli relativi alla scarso mobilità
della manodopera, sia a livello macroeconomico sia a livello aziendale:
l'86% delle aziende considera i procedimenti di assunzione e di licenziamento
troppo rigidi e/o costosi. Infine, il 62% delle imprese ha ammesso che
anche l'adozione di nuove tecnologie e i processi di razionalizzazione
produttiva vanno considerati come altrettanti ostacoli all'aumento occupazionale.
Dalle risposte date a livello settoriale, possiamo notare un settore
tessile meno "ostacolato", grazie al processo di ristrutturazione
aziendale qui ormai in fase avanzata. Notevoli difficoltà ad
accrescere l'occupazione sono invece incontrate dai comparti chimico,
meccanico ed elettrico. Gli ostacoli maggiori: per il settore chimico,
il livello del costo del lavoro non salariale e la scarsa flessibilità
delle procedure di assunzione e di licenziamento; per i settori meccanico
ed elettrico, l'insufficienza di domanda. Per quel che riguarda il comporta
metallurgico, la grave crisi strutturale che investe il settore porta
ad individuare nella scarsa competitività e nella carenza di
domanda gli ostacoli maggiori alla crescita occupazionale.
Analizziamo, ora, i vari strumenti di politica economica e contrattuale
che, secondo le aziende interpellate, sono in grado di incidere positivamente
sul livello occupazionale. Tra gli interventi concretantisi in modifiche
della struttura e del l'organizzazione del mercato del lavoro, l'80%
delle aziende ha considerato molto positivo quello rivolto a semplificare
le procedure di licenziamento; mentre scarsa importanza è stata
attribuita all'esigenza di una semplificazione delle procedure di assunzione.
Questa affermazione può suscitare dubbi, soprattutto se si considerano
i suoi effetti nel breve periodo: si assisterebbe, infatti, ad un numero
di licenziamenti superiore al numero di assunzioni. In un'ottica di
medio periodo, invece, il risultato sarebbe molto diverso, grazie al
progressivo ricambio delle forze espulse nel breve. Ed è in quest'ottica
che la precedente affermazione va valutata. Per quanto riguarda gli
interventi volti a modificare la struttura del costo del lavoro, il
69% delle aziende ha giudicato molto positiva l'introduzione di una
contrattazione salariale legata alla produttività aziendale.
larghi consensi ha pure suscitato l'ipotesi di un maggiore ventaglio
salariale legato al grado di professionalità e alle condizioni
di lavoro. Anche l'introduzione di un salario di ingresso viene vista
con favore; mentre limitata efficacia è stata attribuita all'adozione
di quote salariali legate ai profitti aziendali.
Con riferimento
ai provvedimenti più direttamente legati alla mobilità
del lavoro nell'azienda, gli interventi proposti non sono stati considerati
tali da poter migliorare sensibilmente l'attuale situazione di stallo
in cui versa il mercato del lavoro. Giudizi molto negativi ha provocato
soprattutto la proposta di un'eventuale riduzione dell'orario di lavoro,
considerata dal 58% delle aziende una ragione in più per accelerare
il processo di ridimensionamento occupazionale.
In sostanza, le aziende vedono nella deregolamentazione del mercato
del lavoro l'unica strada per porre sotto controllo il problema dell'occupazione.
Il discorso, contraddittorio quanto si vuole, è questo: la fase
di ristrutturazione ancora in atto ha bloccato il processo di espansione
industriale. La possibilità di creare nuovi posti di lavoro è
dunque rimandata al momento in cui riprenderà quel processo.
Di conseguenza, finché gli occupati saranno rigidamente tutelati
non ci sarà posto per i senza lavoro. Il mercato non potrà
godere del ricambio qualitativo della manodopera, per cui continueranno
ad aversi settori sovradimensionati accanto a settori con carenza di
personale. L'eccessiva onerosità del costo del lavoro porterà
le aziende ad accelerare il processo di razionalizzazione e l'introduzione
di nuove tecnologie; altra manodopera sarò allora espulsa dal
mercato; e il processo si aggraverà con l'ulteriore irrigidimento
delle posizioni e delle misure atte a tutelare i lavoratori ancora occupati.
Deregulation, dunque. Basterà? Le aziende, e noi con loro, non
lo credono. Non dimentichiamo, infatti, che la questione occupazionale
nasce da un complesso di altri problemi, di natura economica, politica,
sociale, storica, territoriale. La sua soluzione non può esulare
dal superamento di questi ultimi. Naturalmente, nella situazione in
cui ci troviamo, dobbiamo cogliere al volo qualunque rimedio possa dare
risultati concreti. E quello suggerito dalle imprese può farlo.
Senza attenderci svolte decisive. La delusione sarebbe amara. Attraverso
l'attuazione di una o più delle modifiche proposte dalle imprese,
l'occupazione potrà superare del 9% quella che altrimenti si
avrebbe senza alcun intervento. Ed è già una conquista.
Ma nessuno ci dirà cosa fare della disoccupazione keynesiana,
quella derivante, cioè, da carenza di domanda aggregata. Così
come non sarà certo la sospirata "deregulation" a frenare
l'adozione di nuove tecnologie, atte a risparmiare ulteriormente forza-lavoro.
Certo. Forse un giorno la classe lavoratrice non avrà più
motivo di esistere. Tutti a pancia in su, serviti da macchine che governano
altre macchine. Ma la situazione attuale svela prospettive meno allettanti.
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