Il dibattito sull'intervento
straordinario nel Mezzogiorno, dopo un lungo sonno, si è riacceso.
Le sferzanti (ma un poco sospette) parole del presidente del Consiglio
sul "pozzo senza fondo" degli interventi pubblici nel Sud hanno
spinto verso l'affannosa ricerca delle colpe e dei colpevoli. Più
che ridurre il dibattito alla patologia dell'intervento, è opportuno
riportarlo su un terreno più pratico. La straordinarietà
dell'intervento, infatti, non si deve alla pur eccezionale mole di trasferimenti
pubblici nel Sud (55 mila miliardi nei trascorsi 35 anni, 120 mila miliardi
nei prossimi 9 anni), quanto all'aver previsto un meccanismo istituzionale
che attribuiva la programmazione e la realizzazione degli interventi a
un organismo unitario al di fuori dell'ordinaria amministrazione. L'unitarietà
dell'intervento era affidata alla Cassa per il Mezzogiorno, che aveva
la capacità di operare su un'ampia area del territorio nazionale,
con competenza esclusiva sulla realizzazione degli interventi previsti
dalla normativa speciale, con un mandato che di fatto surrogava ed esautorava
l'amministrazione ordinaria, dai livelli comunali sino al livello ministeriale.
Lo stesso ministero, infatti, era configurato come "senza portafoglio":
organismo di indirizzo e controllo, non di programmazione e attuazione.
Sembrava questo il modo eccezionale per affrontare la "questione
meridionale" che tanto aveva segnato la crescita economica e politica
del Paese dall'unità, e che pure sembrava dover condizionare i
destini della nuova repubblica. In un articolo su Cronache sociali (n.
5, 1949) che oggi andrebbe riletto, l'allora giovane Gianni Baget Bozzo
metteva in evidenza come la "questione" si legasse con la necessità
di creare una classe media, industriale e urbana, a sostegno dei partiti
di governo.
Dall'ente unico
alla pluralità dei soggetti
La straordinarietà
dell'intervento si giustificava anche in quella prospettiva e la sua
centralizzazione aveva pure un significato di ricomposizione delle lobbies
locali intorno ad un centro unificante.
Dopo 35 anni, lo scioglimento della Cassa veniva di fatto richiesto
con riferimento a quelle stesse motivazioni: da una parte vi era chi
riconosceva che l'opera di ricostruzione di una classe media locale
era stata compiuta (facendo emergere una ideologizzazione dei nuovi
ceti dirigenti meridionali); dall'altra si sosteneva che la Cassa era
ormai divenuta una insostenibile organizzazione clientelare. Su un fronte
si parlava di raggiungimento dei fini e degli obiettivi che si erano
proposti De Gasperi, Menichella, Pastore, e i meridionalisti di tutte
le scuole politiche; sull'altro, si accusavano Cassa, politici, economisti
e meridionalisti d'aver impoverito intellettualmente il Sud e di avere
omologato le forze critiche alla pura gestione degli strumenti d'intervento
straordinario nelle regioni meridionali.
In ogni caso, ad un intervento straordinario gestito unitariamente attraverso
un solo organismo si è sostituito un intervento ugualmente definito
"straordinario", ma fondato su una molteplicità di
soggetti (amministrazioni centrali, enti pubblici, enti locali, soggetti
privati), tutti ammessi alla realizzazione di interventi previsti dalla
normativa speciale e unificati da una complesso rete di rapporti tra
organismi di governo. Così come l'intervento straordinario nel
Mezzogiorno ha rappresentato nei trascorsi 35 anni l'unica sperimentazione
effettiva di programmazione in Italia, al di là degli appassionati
ma inconcludenti propositi degli Anni '60, l'attuale trasformazione
nelle forme dell'intervento prefigura le modalità in cui nei
prossimi anni verrà gestita la funzione programmatoria dello
Stato, e le procedure usate alla fine dell'86 saranno le routines che
governeranno nei fatti i rapporti tra organismi pubblici e privati negli
anni a venire. A questo si aggiunga che molta parte degli investimenti
previsti dalle imprese pubbliche e private,
nell'ambito della nuova fase dell'intervento straordinario, sono in
settori nuovi: pertanto la definizione delle procedure sarà determinante
anche in relazione agli indirizzi strategici del Paese. La nuova disciplina
(leggi 651/83 e 775/84, Programma triennale, legge 64/86) ha infatti
delineato un intervento la cui positività dipenderà proprio
dalle modalità di interazione tra i diversi soggetti, a partire
dallo stesso ministero.
A quest'ultimo viene attribuito, per delega del presidente del Consiglio,
il compito di coordinare il complesso dell'azione pubblica nel Sud.
Questo compito di coordinamento, che sembra prefigurare quella programmazione
"per sistemi" sostitutiva del vecchio approccio "per
piani", viene dunque affidata al ministero dell'intervento straordinario
nel Mezzogiorno; ma ben poco si dice delle possibilità che questi
ha di svolgere effettivamente nel campo dell'"ingegnerizzazione
sociale". Viene solo istituito presso la presidenza del Consiglio
un dipartimento per il Sud, "per l'espletamento di tutte le funzioni
previste dalla legislazione vigente, ivi comprese quelle relative alla
valutazione economica dei progetti da inserire nei piani annuali di
attuazione"; e viene fondata un'Agenzia per la promozione dello
sviluppo del Mezzogiorno, che "opera per l'attuazione degli interventi
promozionali e finanziari ad essa affidati dal Programma triennale".
Riaffermati e confermati gli enti di promozione esistenti, (Formez,
lasm ecc.), si attribuisce largo spazio ai servizi reali, ma viene rimesso
in piedi in tutto il suo vigore l'apparato agevolativo, che le polemiche,
anche rissose, degli ultimi anni non hanno visibilmente scalfito.
Presentando il Piano triennale, il ministro scriveva: "Considerando
chiusa la fase dell'intervento sostitutivo, la politica meridionalista
deve assumere il tono di una sfida all'intervento ordinario, centrale
e periferico". Si ha invece l'impressione che si perpetui la straordinarietà,
ricreando soggetti esterni all'amministrazione ordinaria, quasi che
lo Stato, vinto ormai dalla strutturale diffidenza nei confronti della
propria amministrazione, creda che l'ordinaria amministrazione si realizzi
attraverso la nomina di sempre nuovi Alti commissari, e la creazione
di agenzie e dipartimenti, la cui operatività debba infine essere
ricomposta da un atto del ministro.
Non ci si sposta, dunque, dalla tradizionale diffidente frattura tra
governo e amministrazione, che portò a suo tempo alla creazione
della Cassa. Come scrisse Sabino Cassese (MI sistema amministrativo
italiano", Il Mulino, Bologna 1983), "sul presupposto che
l'amministrazione statale non funziona si dà vita a strutture
pubbliche fuori dallo Stato", spingendo poi il momento decisionale
ultimo ad un organismo come il Cipe, che, nato proprio sul principio
della inaffidabilità delle strutture amministrative ordinarie,
riassume in se stesso sia le funzioni di rappresentanza politica, sia
la competenza amministrativa, con compiti di indirizzo, di attuazione
e di controllo, lasciando tuttavia alle vecchie e nuove amministrazioni
un rifugio nella meticolosa ricerca delle ammissibilità procedurali.
Questa impostazione amministrativa sembra del resto essersi trasferita
anche ai livelli regionali, e proprio nel Sud sono allestite (o si stanno
allestendo) nuove amministrazioni parallele sotto forma di agenzie,
a fronte di amministrazioni ordinarie già senescenti. E infatti
emerge già, negli interventi di molti meridionalisti, il rimpianto
per un organismo forte, in grado di riunificare l'intervento: nostalgia
della vecchia Cassa, o voglia di una nuova Cassa, sia pure sotto spoglie
diverse.
Ma il Sud è
più costoso?
Perché le
opere pubbliche, soprattutto nel Mezzogiorno, costano sempre di più?
è stato proprio il presidente del Consiglio, abbiamo detto, ad
aprire la polemica, scegliendo la Puglia (e la Fiera del Levante) come
sede per la sfida-accusa. Al 30 giugno dello scorso anno, risultavano
"ancora formalmente in corso 43.080 progetti, dei quali ben 36.632
già realizzati per oltre il 90% delle opere, ma non finiti. Credo
che non esista un cittadino che non vorrebbe sapere perché 36
mila opere realizzate per oltre il 90% non vengano ultimate, chiuse,
e non entrino in produttività". Si tratta di opere "grandi,
piccole ed anche grandissime", che vanno da porti a dighe, da strade
ad acquedotti, da scuole ad infrastrutture sociali. "Per capire
perché tutta questa massa di opere sia formalmente ancora in
corso, non occorre fantasticare troppo: ogni cantiere aperto è
un pozzo che spilla soldi".
Una denuncia raggelante. Al punto che il presidente dell'Associazione
nazionale dei costruttori, Francesco Perri, ha voluto chiarire i termini
della polemica, sostenendo che gran parte delle 36 mila opere; pubbliche
non ultimate nel Sud e nelle Isole "sono soltanto pratiche contabili
ed amministrative non ancora archiviate", ma che si riferiscono
a lavori conclusi, spesso, da parecchi anni. Il più delle volte,
basta il persistere di contenzioso per l'espropriazione di terreni perché
"la pratica resti aperta".Oppure, è sufficiente una
contestazione sul pagamento di lavori già effettuati. Opere "non
ultimate", dunque, solo agli effetti burocratici. Ma per un'altra
parte di lavori pubblici, la situazione può essere emblematicamente
spiegata con il caso della diga sul fiume Sinni. Qui l'opera è
stata eseguita completamente, ma la diga non può essere messa
in funzione perché manca il sistema di manovra. Cioè:
non sono state ancora installate le apparecchiature elettrotecniche,
pur essendo la progettazione definita da tempo. Ancora un altro esempio:
la diga di Marsico Nuovo, dove si sono dovute progettare le opere di
difesa delle sponde del lago, dopo che la diga era già stata
realizzata. Il caso conferma che il difetto è nella "progettazione
di massima" da parte delle amministrazioni appaltanti.
Ovviamente, quando
i lavori, inizialmente previsti in quattro o cinque anni, si prolungano
per ragioni del genere - e sono anni d'inflazione veloce, come quelli
tra la fine del decennio '70 e l'inizio di quello '80 - l'aumento dei
costi è inevitabile e consistente. La revisione dei prezzi si
rende indispensabile, anche se "nessuno l'aveva prevista".
Altre cause: spesso si progetta e si avvia l'esecuzione di un'opera
pubblica, magari di grandi dimensioni, senza che sia stato predisposto
l'intero finanziamento. Capita così che i lavori procedano a
tranches, con costi rilevanti anche durante le pause nell'attività
delle imprese impegnate (macchinari, materiali, depositi, personale
di guardia, ecc.). Oppure, il progetto cresce strada facendo, per successivi
adeguamenti. Clamoroso, in questo senso, il caso dei depuratori di Napoli,
progettati come emergenza dopo il colera. Il costo iniziale, anni fa,
era stato previsto in 120 mila miliardi. Costerà almeno dieci
volte di più, ma ci si è resi conto che per li disinquinamento
del Golfo occorrevano una serie di impianti, quasi 500 chilometri di
tubazioni e di convogliatori, per una fascia di 300 chilometri di costa
e di migliaia di chilometri quadrati: come dire, a servizio di quasi
tutta l'area campana.
Ma ci sono anche casi di rapina a mano disarmata. Quello che si è
sperperato per il porto-fantasma di Sibari, o per il quinto centro siderurgico
calabrese, poi declassato a laminatoio, infine accantonato perché
sarebbe stato al cento per cento parassitario, o per gli impianti chimici
in Calabria e in Sardegna, mai entrati in funzione, o per decine di
altre opere "di sviluppo" che non hanno mai aperto le porte
agli operai, rientra nella storia degli sprechi, delle dissipazioni,
dei profitti illeciti, delle attività mafiose: e sia chiaro una
volta per tutte: mafia del Sud, ma anche, e forse più spesso,
mafia del Nord.
Nord e Sud. Chi
è assistito?
La polemica non
è antica. Il vero assistito, dicono gli economisti più
attenti, non è tanto il Sud, quanto il Nord. Ma torniamo al problema
degli investimenti nel Mezzogiorno. Per gli industriali del Nord (o
esteri) è un'opportunità o un azzardo? Per Pierre Carniti
è, sostanzialmente, un azzardo, e forse anche ad alto rischio.
Ribatte Andrea Saba: Carniti arriva con almeno quindici anni di ritardo.
Il problema della lentezza nell'erogazione degli incentivi alle imprese
meridionali fu sollevato in modo puntuale da Saraceno, che valutò
in due anni il tempo medio che intercorreva fra presentazione della
domanda ed erogazione della prima rata del contributo. "Carniti,
prima di sparare a zero in modo indiscriminato, dovrebbe tener conto
di alcuni elementi fondamentali":
1) se è vero che l'erogazione degli incentivi alle imprese meridionali
è lenta, è anche vero che non risulta più lenta
delle altre leggi di incentivazione. La legge 675 sulla riconversione
industriale nacque, come esigenza, subito dopo la prima crisi energetica
del '74 e fu varata dal Parlamento nel '77. L'erogazione dei contributi
alle imprese perché attuassero i programmi di riconversione iniziò
nell'81. Le grandi imprese del Nord, grazie al loro potere di pressione
sulle strutture politiche e amministrative, ottennero le agevolazioni
in tempi relativamente brevi. le piccole imprese - dislocate sia al
Nord, che al Centro, che al Sud - dovettero aspettare un periodo non
inferiore a quello necessario per le erogazioni da parte della Casmez;
2) a partire dal 1980, la Cassa è stata prorogata di sei mesi
in sei mesi, praticamente fino a quando è stato sostituita dall'Agenzia
prevista dalla legge 64/86. "Io non voglio fare il difensore d'ufficio
della Casmez; credo però che qualunque persona di medio buon
senso capisca come sia difficile pretendere alta efficienza da un organismo
casi complesso, quando lo si tiene per sei anni in condizioni di assoluta
precarietà". Nonostante ciò, la Casmez ha effettuato
circa 12 mila operazioni di incentivazione a favore delle imprese industriali
meridionali. "E' vero che molte imprese hanno sofferto -alcune
sono addirittura fallite - per i ritardi nella erogazione dei finanziamenti;
ma dobbiamo dire che se oggi esiste nel Sud un tessuto industriale,
ciò è dovuto certamente anche alla politica di incentivazione.
Dei resto, anche la Fiat si è localizzata nel Sud principalmente
per gli incentivi, come viene ricordato ai visitatori dell'impianto
fantascientifico di Termoli. E se alla Fiat è parso conveniente
andare nel Mezzogiorno, perché la stessa cosa non dovrebbe accadere
per altre imprese italiane?";
3) si sta ora mettendo sotto accusa tutto il Sud. Eppure, ormai, esistono
in ogni regione meridionale ottimi imprenditori che debbono faticare
il doppio per stare sul mercato e che non meritano il disprezzo con
cui vengono talvolta trattati dalla pubblicistica. La cultura industriale
si sta diffondendo, bene o male, anche a Sud. "Guardi, Carniti,
come esempio, il Sole-24 Ore del 2 ottobre '86, in cui il quotidiano
economico milanese, informando i suoi lettori che le banche aderenti
al sistema Bankamericard-Visa entrano in lizza per l'acquisto della
Bai, sottolinea (anche nel titolo) che "l'iniziativa lanciata dalla
Popolare di Sassari si inquadra nella guerra delle carte di credito.
Io a Sassari ci sono nato e francamente che una Banca locale dirigesse
una "guerra" per le carte di credito non me lo sarei mai sognato,
eppure faccio l'economista, conosco assai bene la Sardegna. E questa
è cultura industriale";
4) e a questo proposito, bisognerebbe distinguere - gli economisti industriali
lo fanno - tra incentivi per aree già sufficientemente sviluppate
e incentivi per far nascere un nuovo tessuto produttivo in aree emarginate
dal mercato. Questo secondo caso, che riguarda direttamente il Mezzogiorno,
è molto più difficile da realizzare. è dunque grave
errore confondere tempi e risultati di interventi in due aree così
diverse. La politica per l'industria va cambiata, ma non solo per il
Mezzogiorno. è tutta l'Italia che necessito di una vera politica
industriale, se non altro per coordinare i diversi incentivi. Questo
è il punto di partenza minimo per un Paese industriale avanzato.
Il fatto è che negli ultimi dieci anni, mentre si sono erogati
migliaia di miliardi a favore delle industrie del Nord (spesso con la
scusa della crisi), non si è stati in grado di mettere in moto
una legge con incentivi moderni per il Sud. E' ovvio che alle imprese
conviene investire nel Nord. Ma è esattamente ciò che
i governi hanno voluto come atto di omaggio al potere economico. Ed
ecco che non appena la legge finanziaria minaccia di ridurre la fiscalizzazione
degli oneri sociali a beneficio delle imprese del Nord, iniziano i lamenti
e le invettive contro il Mezzogiorno. E non è certo questo che
il Sud si aspetta dai governi italiani.
Nord e Sud. Ma
chi è assistito?
Si fa un gran parlare
del Mezzogiorno. Come mai? Se lo chiede il direttore del Mattino, Pasquale
Nonno, che aggiunge: "Voglio dire, però, che il polverone
e le manovre sono possibili perché intorno al problema del Mezzogiorno
nel corso degli ultimi anni è cambiato lentamente ma inesorabilmente
il clima. Parlare del Sud è diventato "out", fastidioso,
superato. L'immagine del Mezzogiorno si è andata identificando
tout court con lo spreco e il parassitismo, nonché con la delinquenza.
A chi sia giovata questa campagna, mentre si decideva l'impiego di tutte
le risorse verso il Nord sia in forme assistenziali sia come investimenti,
è fuori discussione, anzi è sotto gli occhi di tutti.
Ma al di là dello svantaggio materiale, il fatto grave è
il progressivo accentuarsi di un isolamento del Sud, che prende corpo
giorno per giorno in quanto le sue esigenze e le sue peculiarità
sono quotidianamente ignorate. E prima era il contrario". Eppure,
da Saraceno a Carli, da Ruffolo a Colombo, da Galasso a Carniti, tutti
sottolineano la gravità della situazione in riferimento alla
disoccupazione, al degrado ambientale, urbano, istituzionale, al basso
livello delle funzioni, dei servizi, delle forme e della qualità
della vita. le motivazioni addotte sono forti:
1) la consapevolezza, di fronte ai bagliori di guerre economiche già
visibili sull'orizzonte internazionale, che in questa fase si compiono
scelte che influiranno per un periodo lungo sul ruolo del Mezzogiorno
rispetto all'Italia e all'Europa;
2) la persuasione (purtroppo non diffusa fino a vincere certe chiusure
provinciali e certe punte di neo-razzismo) che il sistema-Italia difficilmente
potrà reggere le sfide che gli stanno di fronte con un Sud in
ritardo, che consuma più di quello che produce;
3) la percezione che nel rapporto col Mezzogiorno si gioca gran parte
(come è già avvenuto nel secondo dopoguerra) di quella
che una volta si chiamava egemonia. Infatti, proprio nel Sud si addensano
quelle questioni cruciali, (valorizzazione del lavoro; espansione dell'apparato
produttivo; difesa e uso razionale dell'ambiente; innovazione di sistema,
servizi, democrazia; riforma della politica; ecc.), su cui si misurano
l'azione politica e di politica economica, la legittimazione a governare,
il pensiero meridionalista superstite.
La disoccupazione nel Sud si esprime ormai in percentuali spaventose
(il 14,5% dei disoccupati del Paese, il 28% dell'offerta di lavoro sul
1985. Se la produttività fosse pari a quella del Nord, i disoccupati,
come dice Pasquale Saraceno, non sarebbero un milione e 200 mila, ma
due milioni e 400 mila).Ma il danno non è solo questo. Essa produce
anche fenomeni immateriali, essendo fattore di disgregazione, di tensione
e di devianza sociale. Spesso, è ridotta a merce di scambio elettorale,
a strumento di dipendenza personale, e dunque di logoramento morale
e civile. Scrive Giacomo Schettini: "Nella battaglia meridionalistica
bisogna evitare due deformazioni, due forzature, che non sono mancate
anche nel recente dibattito: il rivendicazionismo piagnone e l'ottimismo
provinciale (le forze locali autopropulsive), a cui corrisponde quel
palleggiamento di responsabilità tra governo centrale e governi
locali, che, come sappiamo, è un'antica e tenace forma di trasformismo.
Politica nazionale e metodi di governo locali non sono divisibili, così
come non sono separabili e eludibili le rispettive responsabilità.
La questione fondamentale resta quella di dare avvio a una svolta di
politica economica: ed è la battaglia sulla finanziaria, sulla
riforma fiscale, ecc.".
"Provocazioni"
per il Sud
E' giusto o no un
ritorno alle gabbie salariali? Cioè: si può indicare la
soluzione dei problemi del Sud nell'antica ricetta della riduzione del
costo del lavoro nel Sud?
Se ne discute ad ampio raggio. Queste le posizioni predominanti, tutte
contrarie alla proposta avanzata in via giornalistica, prima ancora
che politica o economica, forse come "assaggio" preventivo,
per sentire il polso di imprenditori, amministratori, ed esperti del
problema meridionale:
a) causa degli scarsi effetti degli investimenti che il Paese ha fatto
per lo sviluppo del Sud: l'avere affidato ai poteri pubblici, anziché
essenzialmente il compito di indirizzare e promuovere iniziative, quello
di attuarle e gestirle direttamente, con l'inevitabile conseguenza di
inefficienza e di alimentazione della corruzione politica. Errato pensare
di risolvere i problemi del Sud con le "gabbie". Non tanto
perché, contrariamente a quel che si pensa, il costo del lavoro
a Sud è già sensibilmente inferiore per occupato rispetto
a quello del Centro-Nord; ma soprattutto perché nell'attività
industriale ormai le regole sono mutate. Il costo del lavoro è
generalmente inferiore al 30% al costo del prodotto, e nei settori di
punta notevolmente al di sotto: per fare un esempio, nello stabilimento
di Scarmegno della Olivetti, dove si producono personal computers al
ritmo di uno ogni quindici secondi (fra poco, uno ogni dodici secondi),
il costo della manodopera è dell'ordine del 5%. Una riduzione
di questo costo non agisce più come fattore determinante per
una localizzazione al Sud: è motto più importante, per
esempio, l'esistente esenzione decennale Irpef e Ilor, per non parlare
degli altri fattori. Ma soprattutto sembra errato puntare sull'incentivazione
a imprenditori non del Mezzogiorno, che mille vincoli inducono a investire
nelle loro sedi. Occorre invece attivare l'iniziativa degli imprenditori,
attuali e potenziali, che ormai nel Sud ci sono. In questa direzione,
è accettabile la nuova legge De Vita per l'imprenditoria giovanile,
purché applicata coerentemente senza distorsioni assistenziali
e senza tempi remoti;
b) ripristinare le gabbie salariali è come tornare a considerare
i lavoratori meridionali come mano d'opera a buon mercato. Scrive un
crotonese a un quotidiano: "Forse sarebbe ora che tutti "meridionalisti",
o quanti si interessano a questo annoso problema della vita italiana,
cominciassero a lasciare le carte, abbandonando le statistiche, per
conoscere la realtà meridionale con un'indagine sul campo. Scoprirebbero
così che il Sud non può che arretrare, perché non
c'è più posto per realizzare alcuni servizi di civiltà
dei quali era e rimane privo, ma scoprirebbero anche che la "storicizzazione"
sta prendendo piede anche in economia, per cui se al Sud nascono delle
nuove imprese, mettiamo nel settore della trasformazione dei prodotti
agricoli, queste sono le prime a cadere di fronte ai contingentamenti
decisi in sede comunitaria, per non intaccare l'economia del Nord. Ancora
oggi non si sa su quali linee deve muoversi lo sviluppo del Meridione:
se su quelle agricole, su quelle industriali, o su quelle turistiche.
Ogni volta se ne propongono diverse, ma mai si concretizzano, (vedi
itinerari turistici, vedi industrie chimiche, vedi centrali a carbone
di Gioia Tauro). Intanto, quel poco che c'era va scomparendo. è
il caso della Calabria, che ha cominciato a conoscere l'industrializzazione
nel lontano 1925, quando grazie alla realizzazione dei bacini idroelettrici
della Sila, a Crotone nacquero delle grandi (per l'epoca e per la Calabria)
industrie: la Montecatini e la Pertusola. La localizzazione fu facilitata
dagli incentivi sui costi delle energia, ed ancora oggi quelle aziende
resistono; quando, invece, gli incentivi si sono dati sui progetti e
sulle realizzazioni delle industrie, abbiano assistito alla Sir, alla
Liquichimica, alla Andreae. Una modesta proposta "storica"
potrebbe essere, appunto, quella di ritornare a quel tipo di incentivi,
restituendo alla Calabria, per esempio, parte della ricchezza della
quale viene depredata attraverso l'esportazione dell'energia elettrica,
od anche attraverso l'esportazione del metano che la Snam sta pompando
dal sottosuolo da anni, senza che i calabresi ne traggano alcun beneficio";
c) primo tradimento verso il Sud: quello perpetrato "obiettivamente"
dai sindacati e dai politici, nell'anno 1966: la legge sugli interventi
straordinari nei territori depressi dell'Italia settentrionale e centrale.
Con questa legge, si fece sì che le attività imprenditoriali,
già frenate dalla scarsa convenienza a pagare ai meridionali
gli stessi salari dei settentrionali, fossero dirottate verso il Centro
e il Nord, perché gli incentivi erano uguali a quelli per il
Sud. La denuncia è venuta da un imprenditore lucano: visto che
si poteva godere degli stessi incentivi, senza muoversi troppo da casa,
"quale imbecille veniva nel Sud? Sono venuti gli imbroglioni: le
cattedrali abbandonate ne sono la riprova".
Una ricchezza
del Sud
Secondo Mario Fazio,
nel rinnovato dibattito sul divario Nord-Sud e sulle proposte per colmarlo
sano rari gli accenni al recupero del ricchissimo patrimonio storico,
artistico, archeologico e naturale delle regioni meridionali più
sofferenti: Campania, Calabria, Sicilia. "II centro storico di
Palermo è ridotto a una necropoli; uno dei più insigni
monumenti barocchi d'Italia, il nucleo centrale di Noto, con la famosa
piazza, è in disfacimento; il parco archeologico di Agrigento
aspetta da anni; quello di Locri rimane tra i sogni della Calabria".
Quante migliaia di posti di lavoro si potrebbero creare, rimettendo
seriamente in sesto i territori disboscati e depredati per secoli, esposti
al rischio di tragiche frane che seminano rovina ogni anno nella stagione
delle piogge? Il riassetto idrogeologico della Calabria (da non confondere
con la moltiplicazione dei forestali, più o meno autentici) dovrebbe
essere alla base di un "nuovo corso", ma se ne parla poco
o non se ne parla affatto. Né sembrano molto convincenti i discorsi
sul risanamento delle aree urbane congestionate e disastrate oltre ogni
immaginazione, prime quelle di Napoli e di Palermo. Un risanamento che
avrebbe benefici effetti sul tessuto sociale in cui prosperano mafia
e camorra. Vedi a Palermo l'esempio del quartiere periferico San Lorenzo.
Non c'è studio o relazione scientifica in cui non si chiedo priorità
per il recupero delle aree urbane di Napoli e di Palermo, col fine di
innescare il progresso civile che è condizione indispensabile
per ridurre lo spazio vitale dei nuovi barbari e far scaturire impulsi
di rinascita. Il seguito concreto è deludente. Solo a Napoli
si è compiuto un primo passo, col piano di 20 mila alloggi, ma
c'è da lavorare per almeno trent'anni. Scrive Fazio: "Ministri,
parlamentari, studiosi hanno ripetuto mille volte che al naufragio della
politica di industrializzazione e di grandi infrastrutture, finanziata
dal protettorato della Cassa del Mezzogiorno, dovrebbe seguire una politica
di sviluppo fondata sulla valorizzazione delle risorse del Mezzogiorno.
Perciò, sviluppo di un turismo non distruttivo, che richiede
il restauro dell'ambiente naturale e di quello storico. Si era parlato
con enfasi degli "Itinerari culturali del Mezzogiorno": che
ne è di quel progetto, alquanto nebuloso ma carico di promesse?".
Fazio non intende affermare che il riassetto idrogeologico, il recupero
delle periferie, il restauro di centri storici e monumenti siano rimedi
risolutivi: "Osservo però che il divario Nord-Sud, non valutabile
soltanto in termini di redditi e di consumi, è meno sensibile
nelle regioni in cui mafia e camorra non sono presenze asfissianti,
come la Basilicata, la Puglia, il Molise, l'Abruzzo. Si può convincere
un imprenditore del Nord a investire a Termoli o Matera, più
difficilmente a Reggio Calabria".
Dunque, è evidente che qualsiasi nuova strategia per il Sud porterebbe
a nuovi naufragi se mancasse una concreta politica di rigenerazione
dell'ambiente, del territorio, delle città, molto più
fruttuosa delle misure di emergenza che costano molto e non compensano
decenni di abbandono, di errori, di sperperi.
Come uscirne?
Chi, e quando riuscirà
a guarire il "male oscuro" che blocca le potenzialità
di crescita del Mezzogiorno? Come si farà a rimontare nella considerazione
pubblica per cui il termine "meridionale" non sia più
associato ai terribili clichés di parassita, indolente, infido,
e al limite mafioso o camorrista?
è difficile, e a tratti disperante, dare in poche parole una
risposta a queste domande. Si corre il rischio di semplificare e perciò
stesso di mancare i bersagli. Comunque: il difetto sta nelle procedure
della spesa pubblica, che verrebbe distorta dalle sue finalità
e convogliata a sostenere interessi parassitari? Ma allora si provveda
con leggi che riformino e semplifichino le procedure. Ma attenzione:
non sempre i "supercommissari" si mostrano più efficienti
di sindaci e di assessori eletti dal popolo, come insegna l'esperienza
di questi anni. Parliamo, ovviamente, di sindaci e di assessori onesti.
Oppure gli inconvenienti maggiori stanno nel groviglio contraddittorio
degli incentivi alle attività produttive? Bene: si prenda atto
che il nuovo sistema di incentivi porta alla paralisi, e si introducano
modifiche, se non di legge, procedurali, nell'amministrazione di questi
incentivi. Vogliamo dire, concludendo, che, ancora una volta, più
della ricerca del sensazionale, dell'eclatante, di ciò che serve
a traumatizzare l'opinione pubblica, c'è bisogno, per le cose
del Mezzogiorno, come oggettivamente sostiene Mariano D'Antonio, di
atteggiamenti misurati, propositivi, al limite dimessi. La rissa non
serve a nessuno. O forse serve a quanti, dietro i polveroni, mirano
a ipotecare con criteri di parte le risorse non indifferenti stanziate
per il Sud.
|