§ L'INCHIESTA

Polemiche sul Mezzogiorno




M. C. Milo, A. Foresi, F. Albini



Il dibattito sull'intervento straordinario nel Mezzogiorno, dopo un lungo sonno, si è riacceso. Le sferzanti (ma un poco sospette) parole del presidente del Consiglio sul "pozzo senza fondo" degli interventi pubblici nel Sud hanno spinto verso l'affannosa ricerca delle colpe e dei colpevoli. Più che ridurre il dibattito alla patologia dell'intervento, è opportuno riportarlo su un terreno più pratico. La straordinarietà dell'intervento, infatti, non si deve alla pur eccezionale mole di trasferimenti pubblici nel Sud (55 mila miliardi nei trascorsi 35 anni, 120 mila miliardi nei prossimi 9 anni), quanto all'aver previsto un meccanismo istituzionale che attribuiva la programmazione e la realizzazione degli interventi a un organismo unitario al di fuori dell'ordinaria amministrazione. L'unitarietà dell'intervento era affidata alla Cassa per il Mezzogiorno, che aveva la capacità di operare su un'ampia area del territorio nazionale, con competenza esclusiva sulla realizzazione degli interventi previsti dalla normativa speciale, con un mandato che di fatto surrogava ed esautorava l'amministrazione ordinaria, dai livelli comunali sino al livello ministeriale. Lo stesso ministero, infatti, era configurato come "senza portafoglio": organismo di indirizzo e controllo, non di programmazione e attuazione. Sembrava questo il modo eccezionale per affrontare la "questione meridionale" che tanto aveva segnato la crescita economica e politica del Paese dall'unità, e che pure sembrava dover condizionare i destini della nuova repubblica. In un articolo su Cronache sociali (n. 5, 1949) che oggi andrebbe riletto, l'allora giovane Gianni Baget Bozzo metteva in evidenza come la "questione" si legasse con la necessità di creare una classe media, industriale e urbana, a sostegno dei partiti di governo.

Dall'ente unico alla pluralità dei soggetti

La straordinarietà dell'intervento si giustificava anche in quella prospettiva e la sua centralizzazione aveva pure un significato di ricomposizione delle lobbies locali intorno ad un centro unificante.
Dopo 35 anni, lo scioglimento della Cassa veniva di fatto richiesto con riferimento a quelle stesse motivazioni: da una parte vi era chi riconosceva che l'opera di ricostruzione di una classe media locale era stata compiuta (facendo emergere una ideologizzazione dei nuovi ceti dirigenti meridionali); dall'altra si sosteneva che la Cassa era ormai divenuta una insostenibile organizzazione clientelare. Su un fronte si parlava di raggiungimento dei fini e degli obiettivi che si erano proposti De Gasperi, Menichella, Pastore, e i meridionalisti di tutte le scuole politiche; sull'altro, si accusavano Cassa, politici, economisti e meridionalisti d'aver impoverito intellettualmente il Sud e di avere omologato le forze critiche alla pura gestione degli strumenti d'intervento straordinario nelle regioni meridionali.
In ogni caso, ad un intervento straordinario gestito unitariamente attraverso un solo organismo si è sostituito un intervento ugualmente definito "straordinario", ma fondato su una molteplicità di soggetti (amministrazioni centrali, enti pubblici, enti locali, soggetti privati), tutti ammessi alla realizzazione di interventi previsti dalla normativa speciale e unificati da una complesso rete di rapporti tra organismi di governo. Così come l'intervento straordinario nel Mezzogiorno ha rappresentato nei trascorsi 35 anni l'unica sperimentazione effettiva di programmazione in Italia, al di là degli appassionati ma inconcludenti propositi degli Anni '60, l'attuale trasformazione nelle forme dell'intervento prefigura le modalità in cui nei prossimi anni verrà gestita la funzione programmatoria dello Stato, e le procedure usate alla fine dell'86 saranno le routines che governeranno nei fatti i rapporti tra organismi pubblici e privati negli anni a venire. A questo si aggiunga che molta parte degli investimenti previsti dalle imprese pubbliche e private,
nell'ambito della nuova fase dell'intervento straordinario, sono in settori nuovi: pertanto la definizione delle procedure sarà determinante anche in relazione agli indirizzi strategici del Paese. La nuova disciplina (leggi 651/83 e 775/84, Programma triennale, legge 64/86) ha infatti delineato un intervento la cui positività dipenderà proprio dalle modalità di interazione tra i diversi soggetti, a partire dallo stesso ministero.
A quest'ultimo viene attribuito, per delega del presidente del Consiglio, il compito di coordinare il complesso dell'azione pubblica nel Sud. Questo compito di coordinamento, che sembra prefigurare quella programmazione "per sistemi" sostitutiva del vecchio approccio "per piani", viene dunque affidata al ministero dell'intervento straordinario nel Mezzogiorno; ma ben poco si dice delle possibilità che questi ha di svolgere effettivamente nel campo dell'"ingegnerizzazione sociale". Viene solo istituito presso la presidenza del Consiglio un dipartimento per il Sud, "per l'espletamento di tutte le funzioni previste dalla legislazione vigente, ivi comprese quelle relative alla valutazione economica dei progetti da inserire nei piani annuali di attuazione"; e viene fondata un'Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, che "opera per l'attuazione degli interventi promozionali e finanziari ad essa affidati dal Programma triennale". Riaffermati e confermati gli enti di promozione esistenti, (Formez, lasm ecc.), si attribuisce largo spazio ai servizi reali, ma viene rimesso in piedi in tutto il suo vigore l'apparato agevolativo, che le polemiche, anche rissose, degli ultimi anni non hanno visibilmente scalfito.
Presentando il Piano triennale, il ministro scriveva: "Considerando chiusa la fase dell'intervento sostitutivo, la politica meridionalista deve assumere il tono di una sfida all'intervento ordinario, centrale e periferico". Si ha invece l'impressione che si perpetui la straordinarietà, ricreando soggetti esterni all'amministrazione ordinaria, quasi che lo Stato, vinto ormai dalla strutturale diffidenza nei confronti della propria amministrazione, creda che l'ordinaria amministrazione si realizzi attraverso la nomina di sempre nuovi Alti commissari, e la creazione di agenzie e dipartimenti, la cui operatività debba infine essere ricomposta da un atto del ministro.
Non ci si sposta, dunque, dalla tradizionale diffidente frattura tra governo e amministrazione, che portò a suo tempo alla creazione della Cassa. Come scrisse Sabino Cassese (MI sistema amministrativo italiano", Il Mulino, Bologna 1983), "sul presupposto che l'amministrazione statale non funziona si dà vita a strutture pubbliche fuori dallo Stato", spingendo poi il momento decisionale ultimo ad un organismo come il Cipe, che, nato proprio sul principio della inaffidabilità delle strutture amministrative ordinarie, riassume in se stesso sia le funzioni di rappresentanza politica, sia la competenza amministrativa, con compiti di indirizzo, di attuazione e di controllo, lasciando tuttavia alle vecchie e nuove amministrazioni un rifugio nella meticolosa ricerca delle ammissibilità procedurali. Questa impostazione amministrativa sembra del resto essersi trasferita anche ai livelli regionali, e proprio nel Sud sono allestite (o si stanno allestendo) nuove amministrazioni parallele sotto forma di agenzie, a fronte di amministrazioni ordinarie già senescenti. E infatti emerge già, negli interventi di molti meridionalisti, il rimpianto per un organismo forte, in grado di riunificare l'intervento: nostalgia della vecchia Cassa, o voglia di una nuova Cassa, sia pure sotto spoglie diverse.

Ma il Sud è più costoso?

Perché le opere pubbliche, soprattutto nel Mezzogiorno, costano sempre di più? è stato proprio il presidente del Consiglio, abbiamo detto, ad aprire la polemica, scegliendo la Puglia (e la Fiera del Levante) come sede per la sfida-accusa. Al 30 giugno dello scorso anno, risultavano "ancora formalmente in corso 43.080 progetti, dei quali ben 36.632 già realizzati per oltre il 90% delle opere, ma non finiti. Credo che non esista un cittadino che non vorrebbe sapere perché 36 mila opere realizzate per oltre il 90% non vengano ultimate, chiuse, e non entrino in produttività". Si tratta di opere "grandi, piccole ed anche grandissime", che vanno da porti a dighe, da strade ad acquedotti, da scuole ad infrastrutture sociali. "Per capire perché tutta questa massa di opere sia formalmente ancora in corso, non occorre fantasticare troppo: ogni cantiere aperto è un pozzo che spilla soldi".
Una denuncia raggelante. Al punto che il presidente dell'Associazione nazionale dei costruttori, Francesco Perri, ha voluto chiarire i termini della polemica, sostenendo che gran parte delle 36 mila opere; pubbliche non ultimate nel Sud e nelle Isole "sono soltanto pratiche contabili ed amministrative non ancora archiviate", ma che si riferiscono a lavori conclusi, spesso, da parecchi anni. Il più delle volte, basta il persistere di contenzioso per l'espropriazione di terreni perché "la pratica resti aperta".Oppure, è sufficiente una contestazione sul pagamento di lavori già effettuati. Opere "non ultimate", dunque, solo agli effetti burocratici. Ma per un'altra parte di lavori pubblici, la situazione può essere emblematicamente spiegata con il caso della diga sul fiume Sinni. Qui l'opera è stata eseguita completamente, ma la diga non può essere messa in funzione perché manca il sistema di manovra. Cioè: non sono state ancora installate le apparecchiature elettrotecniche, pur essendo la progettazione definita da tempo. Ancora un altro esempio: la diga di Marsico Nuovo, dove si sono dovute progettare le opere di difesa delle sponde del lago, dopo che la diga era già stata realizzata. Il caso conferma che il difetto è nella "progettazione di massima" da parte delle amministrazioni appaltanti.

Ovviamente, quando i lavori, inizialmente previsti in quattro o cinque anni, si prolungano per ragioni del genere - e sono anni d'inflazione veloce, come quelli tra la fine del decennio '70 e l'inizio di quello '80 - l'aumento dei costi è inevitabile e consistente. La revisione dei prezzi si rende indispensabile, anche se "nessuno l'aveva prevista".
Altre cause: spesso si progetta e si avvia l'esecuzione di un'opera pubblica, magari di grandi dimensioni, senza che sia stato predisposto l'intero finanziamento. Capita così che i lavori procedano a tranches, con costi rilevanti anche durante le pause nell'attività delle imprese impegnate (macchinari, materiali, depositi, personale di guardia, ecc.). Oppure, il progetto cresce strada facendo, per successivi adeguamenti. Clamoroso, in questo senso, il caso dei depuratori di Napoli, progettati come emergenza dopo il colera. Il costo iniziale, anni fa, era stato previsto in 120 mila miliardi. Costerà almeno dieci volte di più, ma ci si è resi conto che per li disinquinamento del Golfo occorrevano una serie di impianti, quasi 500 chilometri di tubazioni e di convogliatori, per una fascia di 300 chilometri di costa e di migliaia di chilometri quadrati: come dire, a servizio di quasi tutta l'area campana.
Ma ci sono anche casi di rapina a mano disarmata. Quello che si è sperperato per il porto-fantasma di Sibari, o per il quinto centro siderurgico calabrese, poi declassato a laminatoio, infine accantonato perché sarebbe stato al cento per cento parassitario, o per gli impianti chimici in Calabria e in Sardegna, mai entrati in funzione, o per decine di altre opere "di sviluppo" che non hanno mai aperto le porte agli operai, rientra nella storia degli sprechi, delle dissipazioni, dei profitti illeciti, delle attività mafiose: e sia chiaro una volta per tutte: mafia del Sud, ma anche, e forse più spesso, mafia del Nord.

Nord e Sud. Chi è assistito?

La polemica non è antica. Il vero assistito, dicono gli economisti più attenti, non è tanto il Sud, quanto il Nord. Ma torniamo al problema degli investimenti nel Mezzogiorno. Per gli industriali del Nord (o esteri) è un'opportunità o un azzardo? Per Pierre Carniti è, sostanzialmente, un azzardo, e forse anche ad alto rischio. Ribatte Andrea Saba: Carniti arriva con almeno quindici anni di ritardo. Il problema della lentezza nell'erogazione degli incentivi alle imprese meridionali fu sollevato in modo puntuale da Saraceno, che valutò in due anni il tempo medio che intercorreva fra presentazione della domanda ed erogazione della prima rata del contributo. "Carniti, prima di sparare a zero in modo indiscriminato, dovrebbe tener conto di alcuni elementi fondamentali":
1) se è vero che l'erogazione degli incentivi alle imprese meridionali è lenta, è anche vero che non risulta più lenta delle altre leggi di incentivazione. La legge 675 sulla riconversione industriale nacque, come esigenza, subito dopo la prima crisi energetica del '74 e fu varata dal Parlamento nel '77. L'erogazione dei contributi alle imprese perché attuassero i programmi di riconversione iniziò nell'81. Le grandi imprese del Nord, grazie al loro potere di pressione sulle strutture politiche e amministrative, ottennero le agevolazioni in tempi relativamente brevi. le piccole imprese - dislocate sia al Nord, che al Centro, che al Sud - dovettero aspettare un periodo non inferiore a quello necessario per le erogazioni da parte della Casmez;
2) a partire dal 1980, la Cassa è stata prorogata di sei mesi in sei mesi, praticamente fino a quando è stato sostituita dall'Agenzia prevista dalla legge 64/86. "Io non voglio fare il difensore d'ufficio della Casmez; credo però che qualunque persona di medio buon senso capisca come sia difficile pretendere alta efficienza da un organismo casi complesso, quando lo si tiene per sei anni in condizioni di assoluta precarietà". Nonostante ciò, la Casmez ha effettuato circa 12 mila operazioni di incentivazione a favore delle imprese industriali meridionali. "E' vero che molte imprese hanno sofferto -alcune sono addirittura fallite - per i ritardi nella erogazione dei finanziamenti; ma dobbiamo dire che se oggi esiste nel Sud un tessuto industriale, ciò è dovuto certamente anche alla politica di incentivazione. Dei resto, anche la Fiat si è localizzata nel Sud principalmente per gli incentivi, come viene ricordato ai visitatori dell'impianto fantascientifico di Termoli. E se alla Fiat è parso conveniente andare nel Mezzogiorno, perché la stessa cosa non dovrebbe accadere per altre imprese italiane?";
3) si sta ora mettendo sotto accusa tutto il Sud. Eppure, ormai, esistono in ogni regione meridionale ottimi imprenditori che debbono faticare il doppio per stare sul mercato e che non meritano il disprezzo con cui vengono talvolta trattati dalla pubblicistica. La cultura industriale si sta diffondendo, bene o male, anche a Sud. "Guardi, Carniti, come esempio, il Sole-24 Ore del 2 ottobre '86, in cui il quotidiano economico milanese, informando i suoi lettori che le banche aderenti al sistema Bankamericard-Visa entrano in lizza per l'acquisto della Bai, sottolinea (anche nel titolo) che "l'iniziativa lanciata dalla Popolare di Sassari si inquadra nella guerra delle carte di credito. Io a Sassari ci sono nato e francamente che una Banca locale dirigesse una "guerra" per le carte di credito non me lo sarei mai sognato, eppure faccio l'economista, conosco assai bene la Sardegna. E questa è cultura industriale";
4) e a questo proposito, bisognerebbe distinguere - gli economisti industriali lo fanno - tra incentivi per aree già sufficientemente sviluppate e incentivi per far nascere un nuovo tessuto produttivo in aree emarginate dal mercato. Questo secondo caso, che riguarda direttamente il Mezzogiorno, è molto più difficile da realizzare. è dunque grave errore confondere tempi e risultati di interventi in due aree così diverse. La politica per l'industria va cambiata, ma non solo per il Mezzogiorno. è tutta l'Italia che necessito di una vera politica industriale, se non altro per coordinare i diversi incentivi. Questo è il punto di partenza minimo per un Paese industriale avanzato.
Il fatto è che negli ultimi dieci anni, mentre si sono erogati migliaia di miliardi a favore delle industrie del Nord (spesso con la scusa della crisi), non si è stati in grado di mettere in moto una legge con incentivi moderni per il Sud. E' ovvio che alle imprese conviene investire nel Nord. Ma è esattamente ciò che i governi hanno voluto come atto di omaggio al potere economico. Ed ecco che non appena la legge finanziaria minaccia di ridurre la fiscalizzazione degli oneri sociali a beneficio delle imprese del Nord, iniziano i lamenti e le invettive contro il Mezzogiorno. E non è certo questo che il Sud si aspetta dai governi italiani.

Nord e Sud. Ma chi è assistito?

Si fa un gran parlare del Mezzogiorno. Come mai? Se lo chiede il direttore del Mattino, Pasquale Nonno, che aggiunge: "Voglio dire, però, che il polverone e le manovre sono possibili perché intorno al problema del Mezzogiorno nel corso degli ultimi anni è cambiato lentamente ma inesorabilmente il clima. Parlare del Sud è diventato "out", fastidioso, superato. L'immagine del Mezzogiorno si è andata identificando tout court con lo spreco e il parassitismo, nonché con la delinquenza. A chi sia giovata questa campagna, mentre si decideva l'impiego di tutte le risorse verso il Nord sia in forme assistenziali sia come investimenti, è fuori discussione, anzi è sotto gli occhi di tutti. Ma al di là dello svantaggio materiale, il fatto grave è il progressivo accentuarsi di un isolamento del Sud, che prende corpo giorno per giorno in quanto le sue esigenze e le sue peculiarità sono quotidianamente ignorate. E prima era il contrario". Eppure, da Saraceno a Carli, da Ruffolo a Colombo, da Galasso a Carniti, tutti sottolineano la gravità della situazione in riferimento alla disoccupazione, al degrado ambientale, urbano, istituzionale, al basso livello delle funzioni, dei servizi, delle forme e della qualità della vita. le motivazioni addotte sono forti:
1) la consapevolezza, di fronte ai bagliori di guerre economiche già visibili sull'orizzonte internazionale, che in questa fase si compiono scelte che influiranno per un periodo lungo sul ruolo del Mezzogiorno rispetto all'Italia e all'Europa;
2) la persuasione (purtroppo non diffusa fino a vincere certe chiusure provinciali e certe punte di neo-razzismo) che il sistema-Italia difficilmente potrà reggere le sfide che gli stanno di fronte con un Sud in ritardo, che consuma più di quello che produce;
3) la percezione che nel rapporto col Mezzogiorno si gioca gran parte (come è già avvenuto nel secondo dopoguerra) di quella che una volta si chiamava egemonia. Infatti, proprio nel Sud si addensano quelle questioni cruciali, (valorizzazione del lavoro; espansione dell'apparato produttivo; difesa e uso razionale dell'ambiente; innovazione di sistema, servizi, democrazia; riforma della politica; ecc.), su cui si misurano l'azione politica e di politica economica, la legittimazione a governare, il pensiero meridionalista superstite.
La disoccupazione nel Sud si esprime ormai in percentuali spaventose (il 14,5% dei disoccupati del Paese, il 28% dell'offerta di lavoro sul 1985. Se la produttività fosse pari a quella del Nord, i disoccupati, come dice Pasquale Saraceno, non sarebbero un milione e 200 mila, ma due milioni e 400 mila).Ma il danno non è solo questo. Essa produce anche fenomeni immateriali, essendo fattore di disgregazione, di tensione e di devianza sociale. Spesso, è ridotta a merce di scambio elettorale, a strumento di dipendenza personale, e dunque di logoramento morale e civile. Scrive Giacomo Schettini: "Nella battaglia meridionalistica bisogna evitare due deformazioni, due forzature, che non sono mancate anche nel recente dibattito: il rivendicazionismo piagnone e l'ottimismo provinciale (le forze locali autopropulsive), a cui corrisponde quel palleggiamento di responsabilità tra governo centrale e governi locali, che, come sappiamo, è un'antica e tenace forma di trasformismo. Politica nazionale e metodi di governo locali non sono divisibili, così come non sono separabili e eludibili le rispettive responsabilità. La questione fondamentale resta quella di dare avvio a una svolta di politica economica: ed è la battaglia sulla finanziaria, sulla riforma fiscale, ecc.".

"Provocazioni" per il Sud

E' giusto o no un ritorno alle gabbie salariali? Cioè: si può indicare la soluzione dei problemi del Sud nell'antica ricetta della riduzione del costo del lavoro nel Sud?
Se ne discute ad ampio raggio. Queste le posizioni predominanti, tutte contrarie alla proposta avanzata in via giornalistica, prima ancora che politica o economica, forse come "assaggio" preventivo, per sentire il polso di imprenditori, amministratori, ed esperti del problema meridionale:
a) causa degli scarsi effetti degli investimenti che il Paese ha fatto per lo sviluppo del Sud: l'avere affidato ai poteri pubblici, anziché essenzialmente il compito di indirizzare e promuovere iniziative, quello di attuarle e gestirle direttamente, con l'inevitabile conseguenza di inefficienza e di alimentazione della corruzione politica. Errato pensare di risolvere i problemi del Sud con le "gabbie". Non tanto perché, contrariamente a quel che si pensa, il costo del lavoro a Sud è già sensibilmente inferiore per occupato rispetto a quello del Centro-Nord; ma soprattutto perché nell'attività industriale ormai le regole sono mutate. Il costo del lavoro è generalmente inferiore al 30% al costo del prodotto, e nei settori di punta notevolmente al di sotto: per fare un esempio, nello stabilimento di Scarmegno della Olivetti, dove si producono personal computers al ritmo di uno ogni quindici secondi (fra poco, uno ogni dodici secondi), il costo della manodopera è dell'ordine del 5%. Una riduzione di questo costo non agisce più come fattore determinante per una localizzazione al Sud: è motto più importante, per esempio, l'esistente esenzione decennale Irpef e Ilor, per non parlare degli altri fattori. Ma soprattutto sembra errato puntare sull'incentivazione a imprenditori non del Mezzogiorno, che mille vincoli inducono a investire nelle loro sedi. Occorre invece attivare l'iniziativa degli imprenditori, attuali e potenziali, che ormai nel Sud ci sono. In questa direzione, è accettabile la nuova legge De Vita per l'imprenditoria giovanile, purché applicata coerentemente senza distorsioni assistenziali e senza tempi remoti;
b) ripristinare le gabbie salariali è come tornare a considerare i lavoratori meridionali come mano d'opera a buon mercato. Scrive un crotonese a un quotidiano: "Forse sarebbe ora che tutti "meridionalisti", o quanti si interessano a questo annoso problema della vita italiana, cominciassero a lasciare le carte, abbandonando le statistiche, per conoscere la realtà meridionale con un'indagine sul campo. Scoprirebbero così che il Sud non può che arretrare, perché non c'è più posto per realizzare alcuni servizi di civiltà dei quali era e rimane privo, ma scoprirebbero anche che la "storicizzazione" sta prendendo piede anche in economia, per cui se al Sud nascono delle nuove imprese, mettiamo nel settore della trasformazione dei prodotti agricoli, queste sono le prime a cadere di fronte ai contingentamenti decisi in sede comunitaria, per non intaccare l'economia del Nord. Ancora oggi non si sa su quali linee deve muoversi lo sviluppo del Meridione: se su quelle agricole, su quelle industriali, o su quelle turistiche. Ogni volta se ne propongono diverse, ma mai si concretizzano, (vedi itinerari turistici, vedi industrie chimiche, vedi centrali a carbone di Gioia Tauro). Intanto, quel poco che c'era va scomparendo. è il caso della Calabria, che ha cominciato a conoscere l'industrializzazione nel lontano 1925, quando grazie alla realizzazione dei bacini idroelettrici della Sila, a Crotone nacquero delle grandi (per l'epoca e per la Calabria) industrie: la Montecatini e la Pertusola. La localizzazione fu facilitata dagli incentivi sui costi delle energia, ed ancora oggi quelle aziende resistono; quando, invece, gli incentivi si sono dati sui progetti e sulle realizzazioni delle industrie, abbiano assistito alla Sir, alla Liquichimica, alla Andreae. Una modesta proposta "storica" potrebbe essere, appunto, quella di ritornare a quel tipo di incentivi, restituendo alla Calabria, per esempio, parte della ricchezza della quale viene depredata attraverso l'esportazione dell'energia elettrica, od anche attraverso l'esportazione del metano che la Snam sta pompando dal sottosuolo da anni, senza che i calabresi ne traggano alcun beneficio";
c) primo tradimento verso il Sud: quello perpetrato "obiettivamente" dai sindacati e dai politici, nell'anno 1966: la legge sugli interventi straordinari nei territori depressi dell'Italia settentrionale e centrale. Con questa legge, si fece sì che le attività imprenditoriali, già frenate dalla scarsa convenienza a pagare ai meridionali gli stessi salari dei settentrionali, fossero dirottate verso il Centro e il Nord, perché gli incentivi erano uguali a quelli per il Sud. La denuncia è venuta da un imprenditore lucano: visto che si poteva godere degli stessi incentivi, senza muoversi troppo da casa, "quale imbecille veniva nel Sud? Sono venuti gli imbroglioni: le cattedrali abbandonate ne sono la riprova".

Una ricchezza del Sud

Secondo Mario Fazio, nel rinnovato dibattito sul divario Nord-Sud e sulle proposte per colmarlo sano rari gli accenni al recupero del ricchissimo patrimonio storico, artistico, archeologico e naturale delle regioni meridionali più sofferenti: Campania, Calabria, Sicilia. "II centro storico di Palermo è ridotto a una necropoli; uno dei più insigni monumenti barocchi d'Italia, il nucleo centrale di Noto, con la famosa piazza, è in disfacimento; il parco archeologico di Agrigento aspetta da anni; quello di Locri rimane tra i sogni della Calabria".
Quante migliaia di posti di lavoro si potrebbero creare, rimettendo seriamente in sesto i territori disboscati e depredati per secoli, esposti al rischio di tragiche frane che seminano rovina ogni anno nella stagione delle piogge? Il riassetto idrogeologico della Calabria (da non confondere con la moltiplicazione dei forestali, più o meno autentici) dovrebbe essere alla base di un "nuovo corso", ma se ne parla poco o non se ne parla affatto. Né sembrano molto convincenti i discorsi sul risanamento delle aree urbane congestionate e disastrate oltre ogni immaginazione, prime quelle di Napoli e di Palermo. Un risanamento che avrebbe benefici effetti sul tessuto sociale in cui prosperano mafia e camorra. Vedi a Palermo l'esempio del quartiere periferico San Lorenzo. Non c'è studio o relazione scientifica in cui non si chiedo priorità per il recupero delle aree urbane di Napoli e di Palermo, col fine di innescare il progresso civile che è condizione indispensabile per ridurre lo spazio vitale dei nuovi barbari e far scaturire impulsi di rinascita. Il seguito concreto è deludente. Solo a Napoli si è compiuto un primo passo, col piano di 20 mila alloggi, ma c'è da lavorare per almeno trent'anni. Scrive Fazio: "Ministri, parlamentari, studiosi hanno ripetuto mille volte che al naufragio della politica di industrializzazione e di grandi infrastrutture, finanziata dal protettorato della Cassa del Mezzogiorno, dovrebbe seguire una politica di sviluppo fondata sulla valorizzazione delle risorse del Mezzogiorno. Perciò, sviluppo di un turismo non distruttivo, che richiede il restauro dell'ambiente naturale e di quello storico. Si era parlato con enfasi degli "Itinerari culturali del Mezzogiorno": che ne è di quel progetto, alquanto nebuloso ma carico di promesse?".
Fazio non intende affermare che il riassetto idrogeologico, il recupero delle periferie, il restauro di centri storici e monumenti siano rimedi risolutivi: "Osservo però che il divario Nord-Sud, non valutabile soltanto in termini di redditi e di consumi, è meno sensibile nelle regioni in cui mafia e camorra non sono presenze asfissianti, come la Basilicata, la Puglia, il Molise, l'Abruzzo. Si può convincere un imprenditore del Nord a investire a Termoli o Matera, più difficilmente a Reggio Calabria".
Dunque, è evidente che qualsiasi nuova strategia per il Sud porterebbe a nuovi naufragi se mancasse una concreta politica di rigenerazione dell'ambiente, del territorio, delle città, molto più fruttuosa delle misure di emergenza che costano molto e non compensano decenni di abbandono, di errori, di sperperi.

Come uscirne?

Chi, e quando riuscirà a guarire il "male oscuro" che blocca le potenzialità di crescita del Mezzogiorno? Come si farà a rimontare nella considerazione pubblica per cui il termine "meridionale" non sia più associato ai terribili clichés di parassita, indolente, infido, e al limite mafioso o camorrista?
è difficile, e a tratti disperante, dare in poche parole una risposta a queste domande. Si corre il rischio di semplificare e perciò stesso di mancare i bersagli. Comunque: il difetto sta nelle procedure della spesa pubblica, che verrebbe distorta dalle sue finalità e convogliata a sostenere interessi parassitari? Ma allora si provveda con leggi che riformino e semplifichino le procedure. Ma attenzione: non sempre i "supercommissari" si mostrano più efficienti di sindaci e di assessori eletti dal popolo, come insegna l'esperienza di questi anni. Parliamo, ovviamente, di sindaci e di assessori onesti. Oppure gli inconvenienti maggiori stanno nel groviglio contraddittorio degli incentivi alle attività produttive? Bene: si prenda atto che il nuovo sistema di incentivi porta alla paralisi, e si introducano modifiche, se non di legge, procedurali, nell'amministrazione di questi incentivi. Vogliamo dire, concludendo, che, ancora una volta, più della ricerca del sensazionale, dell'eclatante, di ciò che serve a traumatizzare l'opinione pubblica, c'è bisogno, per le cose del Mezzogiorno, come oggettivamente sostiene Mariano D'Antonio, di atteggiamenti misurati, propositivi, al limite dimessi. La rissa non serve a nessuno. O forse serve a quanti, dietro i polveroni, mirano a ipotecare con criteri di parte le risorse non indifferenti stanziate per il Sud.


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