Industria (intesa
soprattutto come grandi imprese non finanziarie) da una parte; finanza
(vale a dire imprese finanziarie, fra le quali le banche commerciali e
gli intermediari non bancari) dall'altra. Che cosa potrebbe accadere,
se ad un certo punto venisse meno la netta demarcazione tra l'una e l'altra
attività? Quali rischi si corrono? E la legge bancaria può,
o non può essere ritoccata o riformata?
Queste e molte altre domande sono oggetto di riflessione presso la Banca
d'Italia. Certamente, non sono domande del tutto nuove, per il vertice
dell'istituto di Emissione, visto che lo stesso Governatore, Azeglio Ciampi,
è intervenuto più volte su questo tema nel corso degli ultimi
due o tre anni. Ma è altrettanto certo che, oggi come oggi, queste
stesse domande assumono un'attualità tutta particolare: al punto
che la risposta della Banca d'Italia appare ormai definita alla luce delle
nuove tendenze affermatesi sul mercato. Queste "nuove tendenze"
hanno segnato, in pratica, il ribaltamento della problematico affermatasi
negli Anni '70, quando (esattamente il 2 gennaio 1975) Guido Carli propose,
con l'intento di sostenere un sistema industriale che non appariva in
grado di fronteggiare gli impegni nei confronti del sistema creditizio,
l'acquisizione delle azioni delle imprese da parte delle banche. la proposta,
hanno osservato i dirigenti della Banca d'Italia, si basava sull'evidenza
empirica del mutamento intervenuto nei rapporti tra banca ed impresa.
Nel 1968-69, i mezzi propri delle imprese censite da Mediobanca erano
pari al 20% dei fondi amministrati; nel 1974 erano ,scesi al 13%; nel
1975-79 non superavano il 14%. Piuttosto forte anche la crescita del l'indebitamento,
sia a breve sia a medio termine.
Dagli inizi degli Anni '80, la svolta del sistema produttivo italiano:
scatta la ristrutturazione, si riequilibra la struttura finanziaria delle
imprese, viene frenata la crescita degli oneri finanziari. Nel 1981-82,
gli oneri finanziari lordi gravavano sul valore aggiunto delle imprese
private per il 23,3%; quelli netti per il 13,1%. Nel 1985, gli oneri finanziari
lordi incidevano per il 17,5%, mentre quelli netti rappresentavano solo
il 3,2% del valore aggiunto. Pertanto, è a partire dagli Anni '80
che l'industria comincia a guardare alla finanza in modo diverso. Non
a caso, all'interno delle stesse aziende, la cosiddetta "finanziarizzazione"
procede a passi spediti: tesoreria, cambi, struttura delle passività
divengono più efficienti. Al punto da far dire agli esperti della
Banca d'Italia che "l'industria era indietro in questo campo; globalmente,
oggi lo è molto meno, con punte di avanguardia".
Ma l'industriale, (ed ecco il cuore del problema sollevato ora dalla Banca
centrale), non deve guardare alla finanza con intenti strategici. Banca
e industria devono rimanere entità divise; deve essere salvaguardato,
e persino rafforzato, il principio di questa separatezza; e la legge bancaria,
che ha retto bene la prova del tempo - sono trascorsi ben cinquant'anni
dal suo varo - non può dunque essere toccata o ritoccata in questo
punto fondamentale.
Perché questa posizione intransigente? La riflessione della Banca
d'Italia su questo punto non data certo da ieri. Ma è altrettanto
certo che gli "appetiti" in campo finanziario e assicurativo,
mostrati senza neanche tante velature dai maggiori gruppi industriali,
hanno in qualche modo accelerato questa riflessione, fino a farla sfociare
in una conclusione: l'industriale continui a fare l'industriale, e non
punti, semmai questo fosse l'obiettivo ultimo e reale, ad acquistare il
controllo sostanziale di banche e di imprese finanziarie.
QUANTO PESANO LE
DIRETTIVE CEE
Riferita a termini
operativi, che cosa può significare questa conclusione? Innanzitutto,
proprio nel momento in cui è aperto in Parlamento il dibattito
sulla possibilità o meno di aggiornare la legge bancaria, vuoi
dire che la Banca d'Italia sosterrà il principio della netta
divisione tra banca e industria; principio che, del resto, costituisce
l'asse portante e fondamentale su cui si articola la normativa che regola
il sistema creditizio. In secondo luogo, (tenendo sempre a mente che
gran parte del sistema bancario è comunque controllata dalla
"mano pubblica", non soggetta, o scarsamente soggetta a passare
sotto il controllo privato), occorre considerare la posizione assunta
dalla Banca d'Italia - attraverso il vicedirettore generale, Antonio
Fazio - in sede di lavori della Commissione Fracanzani sugli eventuali
aggiornamenti dell'ordinamento creditizio. In questo caso, il problema
sollevato tocca, anche alla luce della nuova normativa che ha recepito
le direttive della Comunità economica europea, la questione dell'assetto
proprietario degli istituti di credito. In altre parole, secondo la
Banca d'Italia, la possibilità di creare nuove aziende e istituti
di credito sotto forma di società per azioni può porre
di nuovo i problemi che negli anni Trenta furono risolti attraverso
la proprietà pubblica degli istituti.
"Si può profilare - ha spiegato Fazio - la possibilità
di un uso parzialmente distorto della creazione di nuovi intermediari
creditizi come strumento per fornire supporto finanziario a particolari
settori o gruppi, anziché ad arricchimento della concorrenza
secondo criteri imprenditoriali". E' dunque, un deciso "no"
della Banca d'Italia a quello che viene definito "l'asservimento
dell'intermediario creditizio, attraverso il controllo del capitale,
a finalità settoriali".
Ma non è solo questo. Facendo leva sulla legge 281 del 1985 che,
oltre a puntualizzare la natura giuridica della Consob, ha anche fissato
i criteri applicabili all'individuazione dei partecipanti al capitale
degli istituti di credito costituiti sotto forma di Società per
Azioni, la Banca d'Italia sollecita la predisposizione di una normativa
che integri la ricezione della direttiva della Comunità economica
europea sulla libertà di stabilimento. Obiettivo prefissato:
evitare il rischio deIl'"asservimento", operando quindi nel
quadro di un rafforzamento dei principi fissati dalla legge bancaria.
La riflessione della Banca d'Italia, che si accompagna in questi tempi
alla grande effervescenza del mercato, è sicuramente destinato
a far discutere. Con quali conclusioni, è difficile preventivare:
ma quel che sembra chiaro è che né il Parlamento, né
l'industria, né la banca potranno non tener conto di questa posizione.
LA BANCA, OGGI
Sul "pianeta
banca", sulle tendenze di profonda trasformazione in atto, sulle
prospettive di evoluzione sul mercato nazionale e nel contesto internazionale,
si sono avute, negli ultimi anni e nei mesi recenti, riflessioni e ricerche
approfondite che hanno egregiamente analizzato soprattutto gli aspetti
strutturali della questione.
Un lato del problema, tra i più rilevanti, è stato però
di norma trascurato: quello della capacità delle banche di "stare
sul mercato", cogliendo gli aspetti evolutivi legati sia ai nuovi
strumenti tecnologici sia alle profonde modificazioni della domanda
proveniente dai risparmiatori e dalle imprese. Questa lacuna viene ampiamente
colmata da una ricerca condotta, per conto della Olivetti, dalla Consulbank,
una società del Gruppo Poliedros. La ricerca si intitola "Indagine
sulle strategie di mercato delle banche italiane", ed è
stata condotta da un gruppo di lavoro diretto da Guido Di Stefano, con
il coordinamento tecnico-scientifico di Walter Giorgio Scott, Ordinario
di Tecnica delle ricerche di mercato all'Università Cattolica
di Milano. l'indagine si basa su un campione di trenta aziende di credito,
che rappresentano il 12 per cento di quelle esistenti in Italia, il
50 per cento della raccolta totale, il 55 per cento dei dipendenti e
il 39 per cento degli sportelli. Ne sottolineamo, oltre all'analisi,
alcune conclusioni.
La prima è che il sistema bancario italiano non si trova in ritardo
nel momento specifico dell'innovazione tecnologica e dei servizi offerti
alla clientela. L'introduzione di nuove tecnologie è proceduta
a ritmi più che serrati, forse anche in anticipo rispetto all'industria
e ad altri settori del terziario. Con ogni probabilità, l'adozione
massiccia di nuove tecnologie comporta, per il momento, più costi
addizionali che risparmi dovuti a razionalizzazione, perché la
produttività e l'efficienza non hanno ancora riflesso le nuove
condizioni. il ritardo sembra più connesso con la struttura organizzativa
e decisionale interna, con l'elemento "risorsa umana" o con
una diffusa resistenza al cambiamento nella struttura di base degli
istituti.
Una seconda conclusione importante è che la conversione a un
maggiore orientamento al mercato procede in teoria con sollecitudine,
ma nella pratica in modo abbastanza spontaneo e incompleto.
La ricerca evidenzia l'importanza di questi due fattori di freno, anche
se correttamente rileva che la durata della transizione in atto è
da misurare necessariamente sui decenni, più che su un periodo
di pochi anni. E possiamo ai contenuti dell'indagine. Vi è affermato
che il sistema bancario italiano, analogamente a quelli dei Paesi industrializzati
più avanzati, si trova ormai da qualche anno sottoposto al combinato
operare di una molteplicità di forze che ne determinano la trasformazione
secondo ritmi sempre più accelerati. I bisogni e i comportamenti
della clientela mutano, la tecnologia esercita un impatto crescente
sui processi operativi e sui prodotti, i mercati tendono ad estendersi
oltre le tradizionali delimitazioni territoriali. Da tutto questo consegue
un progressivo aumento della pressione competitiva, originata tanto
all'interno del sistema del credito, che al suo esterno.
Sembrerebbe quindi prossima a cadere, o quantomeno ad attenuarsi, la
linea di demarcazione fra imprese industriali e commerciali, e le banche,
la cui funzione di "istituzione" è stata a lungo ritenuta
prevalente e differenziante, comunque tale da non consentire, o da non
richiedere, l'applicazione di concetti, di strumenti e di tecniche propri
dell'organizzazione e della gestione aziendale.
I segni dell'uscita della banca dalla situazione di "conservazione
organizzativa" che l'ha caratterizzata per decenni, per entrare
in un'epoca di cambiamento accelerato, continuano a moltiplicarsi. Gli
operatori del settore, infatti, sempre più incalzati dalle forze
che agiscono all'esterno e all'interno delle banche, iniziano ad interrogarsi
in modo non episodico né contingente sul "come fare banca"
nelle nuove situazioni. E' in relazione a questa esigenza sempre più
diffusa che la Olivetti ha incaricato la Consulbank di effettuare l'indagine
sul modo in cui la modifica delle condizioni di mercato si riflette
sulle strutture e sui comportamenti delle banche, con particolare riferimento
all'azione di queste svolta sul mercato medesimo. Scopo fondamentale
dell'indagine è stato quello di offrire un contributo di conoscenza
e di metodo al processo di innovazione e di sviluppo della gestione
strategica della banca, impegnata a ricercare risposte efficaci da dare
a un mercato che manifesta segni palesi e crescenti di cambiamento,
di variabilità e soprattutto di competitività.
Dalla ricerca, condotta su un campione di aziende di credito italiane,
è emerso con chiarezza come sia in atto un processo di innovazione
organizzativa che, almeno nelle sue linee generali, può dirsi
funzionale rispetto a un maggiore "orientamento al mercato".
Tuttavia, l'introduzione dei nuovi concetti di gestione e l'applicazione
di più avanzati strumenti organizzativi si trovano ancora nelle
fasi iniziali di sviluppo, con una molteplicità di ostacoli da
superare e di problemi da risolvere. In particolare, il processo innovativo
sembra essere inteso soprattutto in termini di strutture, di procedure
e di tecnologie, piuttosto che di impiego delle risorse umane, di modifica
dei comportamenti e di sviluppo dei processi conoscitivi orientati all'esterno.
Si direbbe che gli esistenti comportamenti organizzativi e gestionali
di tipo burocratico tendano ancora a condizionare l'orientamento e le
modalità di attuazione dei processi innovativi.
Le banche nel loro complesso stanno manifestando un orientamento strategico
definibile in termini di differenziazione del prodotto, il che vuoi
dire che esse reagiscono alle mutate condizioni della domanda ponendo
mano alla leva prodotto. Vengono in questo modo creati nuovi prodotti,
o prodotti modificati, frequentemente combinati in "pacchetti"
volti a meglio soddisfare le esigenze di specifici gruppi di clienti.
Ne consegue anche una diversa attenzione per la leva distribuzione,
cioè l'insieme degli strumenti di contatto con il mercato finale.
Muta anche il modo in cui viene impiegata la leva promozione, anche
se questa rimane ancora abbastanza estranea a quella che è la
mentalità bancaria prevalente.
L'innovazione in termini di risposta alla "sfide di mercato"
si manifesta tuttavia secondo forme tendenzialmente imitative, basate
sull'adozione da parte della generalità delle banche dei modelli
a mano a mano emergenti, piuttosto che sull'individuazione delle specifiche
aree di opportunità da sfruttare in modo differenziato, e articolato,
a livello di singola banca.
Inoltre, dalla ricerca emerge anche una certa tendenza a considerare
la tecnologia come uno dei fattori del processo operativo, piuttosto
che come il fattore di trasformazione dell'intero processo. Da ciò
deriva il privilegio accordato dalle banche all'investimento in "macchinario"
rispetto alla formazione degli utenti ai vari livelli. Anche il trasferimento
dell'innovazione tecnologica in innovazioni di prodotto sembra ancora
essere poco market-oriented, con una spiccata tendenza a realizzare
prima le innovazioni, e poi a proporle al mercato.
Sullo specifico piano dell'organizzazione e del coordinamento delle
funzioni direttamente connesse con l'azione sul mercato, o funzioni
di marketing, si manifestano 'alcune carenze di fondo, così riassumibili:
- insufficiente sviluppo delle strutture informative di mercato;
- mancanza di funzioni di gestione del prodotto;
- ruolo marginale della comunicazione pubblicitaria e promozionale;
-insufficiente coordinamento e integrazione organizzativa delle funzioni
di marketing;
- mancanza di sistemi di gestione per obiettivi a livello operativo.
Come si vede, non si tratta certamente di aspetti di secondaria importanza.
Una valutazione corretta della situazione deve essere tuttavia operata
tenendo conto del fatto che le condizioni affinché le banche
maturino più spiccati orientamenti di mercato si sono andate
determinando solo in anni molto recenti. E la trasformazione di un'impresa
in funzione del mercato, quale che ne sia la natura, implica necessariamente
un processo non breve di transizione. Ciò che conta, in ultima
analisi, è la presa di coscienza delle caratteristiche di tale
processo e delle opportunità che vengono offerte, per una sua
efficace gestione, dai più avanzati strumenti resi disponibili
dalla ricerca aziendale. Sotto questo profilo, si può affermare
in buona coscienza che le banche italiane sembrano essere sulla buona
strada.
Un terreno minato
C. A.
Un alone di mistero
circonda nella comunità internazionale il rapporto banche-imprese.
Dagli eurocrati cui ho posto alcune domande ho avuto un secco "no
comment" e soltanto un funzionario di livello intermedio è
andato più in là riconoscendo che gli uffici competenti
della Commissione dispongono di un dossier dettagliato coperto dalla
massima riservatezza. Si ha la sensazione di penetrare in un terreno
minato dove le banche che dispongono di struttura e dimensione nazionale
più dinamiche rispetto al trend di crescita delle altre categorie
economiche cercano di ampliarsi pensando in termini di accrescimento
dell'impegno internazionale. Sull'onda della deregulation reaganiana
anche l'Europa ha vissuto e continua a vivere il capitolo delle privatizzazioni
cui non è esente il settore bancario. Gli esempi inglesi, francesi
e tedeschi dimostrano che per questa via le imprese vengono coinvolte
in un processo decisionale gestito sempre più dalla logica di
una concorrenza totalizzante.
L'esperienza della Deutsche Bank, il primo istituto di credito privato
d'Europa, è emblematica. Nel suo capitale sociale figurano grossi
pacchetti azionari di estrazione industriale che le consentono di essere
presente in posizione non secondaria in molti consigli di amministrazione.
Detiene consistenti partecipazioni in Daimler-Benz, Bayer, Allianz (assicurazioni),
HenkeI, Mannesmann, Siemens, Thyssen, Nixdorf, Volkswagen, Luftansa.
E' recente inoltre la costituzione di una testa di ponte in Italia dopo
l'acquisto ormai perfezionato della Banca d'America e d'Italia (Bai).
Situazione analoga si riscontra nella secondo principale banca tedesca,
la Dresdner Bank. Sue importanti partecipazioni azionarie si trovano
in Airbus, Bmw, DaimIer-Benz, Volkswagen, Esso, Henkel, Krupp; nelle
assicurazioni Allianz, Hamburg-mannheimer, Hapeg, Lloyd e nella catena
commerciale Kaufhof.
Gli esempi potrebbero continuare, sorretti da una indiscussa fiducia
nel processo di graduale liberalizzazione del mercato dei capitali.
Non è un caso che il punto di forza delle banche citate risieda
nel settore delle operazioni valutarie di borsa e nell'attività
di emissione che le rende protagoniste nel circoscritto mondo degli
affari.
Fonti CEE attribuiscono all'Italia il 7° posto come potenza industriale
ed il 160 come potenza finanziaria ed imputano questa notevole differenza
alla circostanza di disporre di un mercato ancora troppo regolato. Le
preoccupazioni dei centri istituzionali verso un intervento massiccio
delle partecipazioni industriali nel settore bancario sono note e seriamente
motivate. Con l'ausilio della memoria storica si può ricordare
la crisi del Banco di Roma negli anni venti e con quello della cronaca
più recente il fallimento di istituti privati prestigiosi come
il Banco di San Marco, l'Ambrosiano e la Banca Steinhauslin. C'è
quindi un clima di sospetto ma anche d'interesse per i vantaggi che
il sistema bancario nel suo complesso ne trarrebbe in termini di competitività,
di innovazione e di elastico adattamento alle condizioni del mercato
interno ed internazionale. Profondi mutamenti sono comunque attesi in
questo specifico settore del mercato, in particolare sul versante di
una maggiore fungibilità tra attività finanziarie e strumenti
di credito. Sia per attrezzarsi in funzione della maggiore concorrenza
prodotta dalle Banche estere già presenti in Italia, sia per
prepararsi adeguatamente alla scadenza del 1992 che sancirà in
via ufficiale l'entrata in vigore della normativa CEE sulla liberalizzazione
del mercato europeo dei capitali. Naturalmente operando senza errori
d'intransigenza o di eccessiva rapidità poiché, com'è
noto, non sempre le grandi manovre sono manovre grandi.
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