§ NUOVE REALTA' DELL'ECONOMIA - 2

Il "pubblico" come il privato"




Franco Reviglio



Negli ultimi mesi, in alcuni Paesi di una certa importanza., il relativo allentamento delle politiche monetarie ha ridotto i tassi d'interesse nominali e reali, favorendo in questo modo ingenti acquisizioni. La recessione e l'andamento dei prezzi hanno inoltre colpito in maniera uniforme, rivelando così i problemi strutturali di aziende il cui valore netto è caduto tanto da rendere possibili eventuali scalate. Nonostante questo, credo che le acquisizioni che non si fondano su una strategia industriale siano ancora molto rischiose. Esiste un'ampia gamma di strumenti che permettono di realizzare la cooperazione o l'associazione. L'acquisizione diretta di maggioranza è lo strumento tradizionale e per un certo numero di anni è stata la principale via per i capitali in cerca di nuovi impieghi. Il quadro attuale è un po' più complesso. Non sono infrequenti, infatti, le acquisizioni di minoranza, così come gli accordi non-equity, che non implicano il trasferimento di quote azionarie, in una gamma che va dalla concessione di licenze ai patti di riacquisto. Questo significa che non c'è una via che sia in assoluto preferibile alle altre per espandersi a livello internazionale. Il grado e la forma dei coinvolgimento dipendono dalle prospettive strategiche come dalle dimensioni e dalla solidità delle imprese, oltre che da fattori specifici dei Paese ospite, la legislazione e la gestione dei rischio in particolare. La dinamica dei mercati finanziari, infine, si è rivelata un ulteriore incentivo alle acquisizioni. Come si sa, i flussi monetari, di credito e di capitali sui mercati internazionali hanno superato il flusso di beni e servizi. Un mercato finanziario altamente sviluppato è infatti la condizione che permette di ottimizzare sia l'assetto finanziario che quello reale. La moltiplicazione delle fusioni, delle acquisizioni e delle joint ventures non implica di per sé che questo processo sia positivo sotto tutti i punti di vista. I pro sono le ragioni a favore della cooperazione e dell'internazionalizzazione, fattori che sono alla base di una buona performance macroeconomica in un contesto dinamico. Dal punto di vista microeconomico, inoltre, essi possono aumentare l'efficienza, anche per la pressione che il timore di una scalata esercita sulla direzione di un'azienda. I contro, invece, sono l'aumento dei potere monopolistico, con i suoi effetti negativi sul benessere e il possibile spreco di risorse come conseguenza di qualche tentativo di acquisizione da parte di puri speculatori. Ma la concentrazione, la cooperazione e l'internazionalizzazione sono comunque imprescindibili. Il potere monopolistico sarà compensato dai maggiori rendimenti di scala, dalla possibilità di sfruttare le nuove tecnologie, dai legami tra i Paesi e dall'integrazione a livello mondiale delle economie nazionali. Alcuni dati possono servire a illustrare quanto ho finora detto. Gli Stati Uniti sono il Paese leader nell'internazionalizzazione: nel 1983, l'ammontare degli investimenti statunitensi all'estero aveva raggiunto i 227 miliardi di dollari, circa il 7% dei Pii. Ma anche altri Paesi stanno aumentando il proprio grado di internazionalizzazione: più che la Gran Bretagna, con un ammontare di investimenti all'estero storicamente il più elevato rispetto al Pil (20%), sono la Germania Federale e il Giappone, con un capitale investito all'estero tra il 5 e il 6% dei Pii, che stanno aumentando rapidamente i propri investimenti all'estero. Ancora più importante è il fatto che in quasi tutte le economie industrializzate (escluso il Giappone), gli investimenti esteri tengono il passo con gli investimenti all'estero. Da questo punto di vista, l'Italia rappresenta un caso interessante, dato che gli investimenti stranieri nel Paese, anche se relativamente modesti, controbilanciano quasi esattamente l'ammontare degli investimenti italiani all'estero: entrambi raggiungono il 2-3% dei Pii (a seconda dei criteri statistici adottati). Per quel che riguarda l'Italia, ricerche empiriche recenti pongono in luce alcuni caratteri e alcune determinanti di questo processo. Il sistema delle multinazionali italiane è polarizzato: da una parte, poche grandi holdings che possiedono più del 90% dell'intero ammontare degli investimenti all'estero; dall'altra, un buon numero di piccole aziende, con meno di 500 dipendenti, che rappresentano quasi tutto il settore manifatturiero, dalle industrie ad alta tecnologia a quelle tradizionali. In assoluto, la presenza all'estero di piccole aziende è ancora bassa. Ma rispetto alle loro dimensioni, il loro grado di internazionalizzazione è piuttosto elevato e sta aumentando rapidamente. Per quanto riguarda i settori di attività, l'espansione italiana all'estero riguarda soprattutto i prodotti meccanici e i macchinari, seguiti dalle attività tradizionali (quali quelle alimentari e tessili). Tra le determinanti, poi, sembrano prevalere le strategie di mercato rispetto alle acquisizioni di tecnologia e alle motivazioni finanziarie o fiscali. Il quadro è coerente con le caratteristiche basilari dell'esperienza italiana: data la struttura del commercio internazionale, le aziende italiane all'estero sono orientate al mercato piuttosto che alle tecnologie. la distribuzione geografica degli investimenti riflette la distribuzione dei prodotti italiani sui mercati e la necessità di superare le barriere protezionistiche. Una quota sostanziale degli investimenti nel settore manifatturiero è stata diretta, infatti, verso i Paesi in via di sviluppo e verso l'Europa meridionale. le piccole dimensioni medie, la localizzazione e l'orientamento di mercato degli investimenti spiegano perché le aziende preferiscano le joint ventures e gli accordi non-equity alle acquisizioni di maggioranza. Le "forme intermedie" di internazionalizzazione sono infatti meno rischiose, permettono una maggiore flessibilità e offrono vantaggi derivanti dall'esperienza che il socio straniero ha del mercato. In breve, costituire una joint venture è una scelta strategica. Volendo fare una previsione, credo che le future tendenze dell'internazionalizzazione daranno una maggiore importanza a queste "forme intermedie". L'Eni è stato uno dei primi gruppi industriali ad adottare forme atipiche di cooperazione. La sua espansione all'estero, verso la metà degli anni '50, è stata caratterizzata dalla costituzione di joint ventures con i Paesi produttori di petrolio. Abbiamo cominciato agli inizi degli anni '50 in Somalia e in Egitto con contratti normali: royalties in cambio di petrolio. Ma ben presto, nel 1957, abbiamo adottato quella che viene chiamata la "Formula Mattei" (il primo contratto fu stipulato con l'Iran): una joint venture con il Paese esportatore di petrolio, con i costi e i rischi di esplorazione a carico dell'Agip, e la divisione tra i soci del costo di sviluppo e di produzione. Questo tipo di contratto si è rivelato uno strumento molto utile per penetrare in un mercato che allora era caratterizzato da alte barriere all'entrata. Alla fine degli anni '60, dopo aver stipulato contratti di questo tipo con le compagnie petrolifere di dieci Paesi, abbiamo introdotto nuove formule, come i Production Sharing e i Service Contracts. Da allora, il numero degli accordi è aumentato con un ritmo sempre maggiore. Alla fine dell'85, l'Agip partecipava a 162 joint ventures in 27 Paesi. Anche in altri settori il numero delle joint ventures e di accordi nonequity è andato aumentando. L'Enichem è entrata recentemente in una joint venture con l'Ici per consorziare la produzione di Pvc. Altre joint ventures sono in progetto nel settore del polietilene. Abbiamo inoltre stipulato numerosi accordi con produttori nel campo dei materiali nuovi. A parte questi esempi, tuttavia, bisogna ammettere che le acquisizioni, le joínt ventures e gli accordi multilaterali in Italia sono principalmente confinati al settore privato. Con l'eccezione dell'Eni-Agip e della Finsider, le imprese statali italiane hanno un grado di internazionalizzazione molto al di sotto del loro potenziale, specie se si considera la loro importanza nell'economia nazionale. Le ragioni sono da ricercare nel ruolo che storicamente è stato attribuito alle imprese statali: rafforzare la struttura industriale nazionale in settori strategici, promuovere l'equilibrio fra Nord e Sud, salvaguardare gli attuali livelli di occupazione nelle industrie in crisi. Tale ruolo, in genere, ha indotto ad un atteggiamento difensivo invece che dinamico nei confronti dell'internazionalizzazione e all'opinione errata che gli interessi che portano una società ad investire all'estero siano sempre contrari agli interessi nazionali. L'esempio dell'Eni dimostra esattamente il contrario. In industrie nelle quali un'azienda non può crescere o addirittura sopravvivere senza una prospettiva globale, la difesa dell'interesse nazionale, così come una saggia strategia imprenditoriale, obbligano le imprese statali all'internazionalizzazione. Per concludere, voglio pormi una domanda difficile: un'impresa statale che abbia una strategia di acquisizioni, joint ventures e dismissioni, all'estero o in patria, incontra ostacoli maggiori di una società privata? Ho nominato anche le dismissioni, perché esse rappresentano la possibilità di vendere aziende redditizie al fine di ottenere riassetti strategici e la ristrutturazione dell'attivo. Si tratta di una questione molto importante, perché in Italia le imprese pubbliche rappresentano una quota notevole dell'industria e svolgono un ruolo cruciale in quanto forniscono una parte rilevante dei consumi intermedi al sistema produttivo nel suo insieme. Ciò che le imprese statali possono o non possono fare significa, in qualche misura, ciò che l'industria italiana può o non può fare. Fatti recenti, quali quelli riguardanti la Sme, la Cimi-Montubi e Maccarese, suggeriscono che il quadro istituzionale che governa le imprese statali ha bisogno di essere rinnovato per permettere la globalizzazione e la maggiore competitività dell'intera economia. Gli ostacoli istituzionali, tuttavia, non dovrebbero essere esagerati. Credo, invece, che i rischi, le responsabilità e i criteri di queste operazioni dovrebbero essere chiariti del tutto. Si potrebbe pensare che sia una stranezza parlare di imprese statali che non solo vendono, ma comprano, in un mondo orientato alla riprivatizzazione. Ma la stranezza è più apparente che reale. La strategia industriale non può essere ridotta ad alternative nette, oppure ad ideologia. "Pubblico" non vuoi dire "inefficiente": l'inefficienza dipenda da errori di gestione che possono essere, sono stati e devono essere corretti. Un equilibrio tra scelte politiche e decisioni del manager dev'essere stabilito chiaramente: vi sono scelte che possono essere classificate come decisioni di "primo livello", nelle quali l'azionista pubblico deve tenere a mente i più ampi interessi nazionali. Altre decisioni, che possono essere classificate di "secondo livello", non possono non essere affidate alla responsabilità dei dirigenti. La vendita di un'azienda, o la sua acquisizione, devono far parte della vita normale di un grande gruppo industriale, senza riguardo al fatto che si tratti di una società pubblica o privato. E' perfettamente normale ritirarsi da un'azienda verso la quale non si ha un interesse industriale o strategico. D'altra parte, in industrie nelle quali le imprese statali hanno un interesse strategico, disinvestire equivale a un suicidio. In questo caso, anzi, le acquisizioni, le joint ventures e tutti i tipi di accordo multilaterale possono rivelarsi la giusta strategia.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000