§ IL NIDO DELLE AQUILE

Archita e Leonardo




Enzo Panareo



Le più remote ricerche meccaniche di cui si abbia notizia, quelle cioè sviluppate dai Greci, riguardavano la statica, vale a dire la teoria dell'equilibrio. Ed anche nel momento in cui, in seguito alla conquista turca di Costantinopoli - nel 1453 - gli esuli greci impressero, con le opere antiche trasferite in Occidente, originali spinte alla ricerca, furono sempre problemi di statica - ed erano, in particolar modo, le opere di Archimede a sollecitarli - ad impegnare gli scienziati più illustri.
D'altro canto, le riflessioni e le indagini sulla meccanica in Grecia ebbero inizio molto tardi ed una tale circostanza ovviamente fece sì che esse accusassero un notevole ritardo rispetto ai progressi notevoli che s'andavano realizzando, speditamente, nella meccanica ed in particolar modo nella geometria. In effetti, le cognizioni sulla meccanica, nella misura in cui riguardano i più antichi scienziati greci, sono particolarmente scarse. Tra questi scienziati dunque - e l'accezione sembra avere un certo che di limitativo rispetto alla complessa personalità dell'uomo, il quale si mostra portatore di superiori valori etici che il concetto di scienziato, sul piano umano, può anche non comprendere -, un posto ragguardevole è occupato dal tarantino Archita.
Com'è noto, si distinse come geometra, studiò, come s'è detto in precedenza, il celeberrimo problema della duplicazione del cubo, realizzò strumenti meccanici per tracciare curve diverse. Inoltre, fu astronomo ed insegnò che la terra ha forma sferica ed in un giorno compie la rotazione intorno al suo asse. In meccanica realizzò la teoria delle pulegge. Infine, si sa che in un suo scritto fu in grado di applicare la geometria alla meccanica.
E' stupefacente il fatto che nella preistoria della meccanica, l'interesse dei ricercatori per un verso si indirizzasse verso le applicazioni pratiche e per l'altro, invece, speculasse intorno alla costruzione di automi che si prefiggevano l'obiettivo di sbalordire gl'ignoranti. Ancora qualche secolo dopo, in Ctesibio (285 -247 a.C.) e in Erone (primo secolo a.C.) un tale atteggiamento non sembrava modificato. Non solo, ma esso si rinnovò nel Medioevo, durante il periodo di declino della cultura, quando si costruirono automi ingegnosi e meccanismi straordinari il cui funzionamento dalla credulità popolare era attribuito al diavolo (1). E' sintomatico il calcio sferrato da San Tommaso d'Aquino al cameriere meccanico fabbricato - secondo quanto si racconta - dal monaco Alberto Magno. Del cui materiale si giovò il primo, il genio anzi di costui, che di Alberto Magno era stato discepolo, allo scopo di apprestare una più originale elaborazione ed edificare, sulla base di quel materiale, un maestoso edificio di pensiero, nel cui centro situare l'idea di Dio. Alberto Magno si era proposto di rendere di agevole fruizione al mondo latino la sterminata enciclopedia aristotelica parafrasandola tutta, inserendo nel commento digressioni critiche e storiche. Per far ciò utilizzò largamente le conoscenze naturali, in particolare di botanica e di zoologia, che egli aveva ricavato dal l'osservazione diretta delle cose. Ma Alberto Magno non aveva trascurato lo studio degli scienziati greci ed arabi (2).
Con la costruzione di quegli automi, in effetti, s'iseguiva, nel Medioevo, l'intenzione utopica, di penetrare nell'intimo della vita, laddove, invece, non se ne imitavano che gli aspetti esteriori. Connessa ad una tale erronea concezione era anche l'originale fiducia nella possibilità di un perpetuum mobile. infine a poco a poco, con una naturale gradualità, cominciavano ad affacciarsi alla mente dei pensatori i veri problemi della meccanica. Aristotele, infatti, ha uno scritto dal titolo Problemi meccanici.
Quello della colombra volante, fu nell'antichità, un evento clamoroso che sollevò grande scalpore. Nel mondo fabuloso e fascinoso della mitologia c'era l'idea di due creature che s'erano levate in volo. Orazio (1, 3, 34-35) avrebbe cantato "expertus vacuurn Daedalus aëra / pennis non homini datis": Dedalo, infatti, rinchiuso nel Labirinto con il figlio Icaro, era fuggito dalla prigione con ali di penne adattate con cera al proprio corpo ed a quello del figlio. Ma le ali di costui, che s'era troppo avvicinato al sole, volando alto - e c'è un significato etico in una tale circostanza -, s'erano liquefatte ed il ragazzo era caduto nel mare che da lui avrebbe preso il nome. Dedalo, invece, più prudente, era giunto a Cuma e di là in Sicilia, dove aveva trovato benigna accoglienza presso il re Cocalo.
Era cominciato la sofferta e stupenda storia del volo umano? Certo è che l'immagine umana e scientifica di Archita è rapportabile per solennità umana, per saggezza interiore, per vastità speculativa e per prudenza intellettuale, a quella di Leonardo. I cui disegni, nel Codice Atlantico, intorno al volo umano ripropongono tutta la maestosità delle intuizioni meccaniche dello scienziato di Taranto.
Uno dei frammenti più notevoli dei testi letterari di Leonardo è quello che riguarda il primo volo: "Piglierà il primo volo il grande uccello sopra il dosso del suo magno Cecero, empiendo l'universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture, e gloria eterna al nido dove nacque". Questo frammento è riportato nell'interno della copertina del Codice sul Volo degli Uccelli e fissa un momento nel quale la commossa fantasia di Leonardo immaginava, con gli occhi di un'esaltata aspirazione, la macchina meravigliosa (il grande uccello) staccarsi dal monte Ceceri e, finalmente, volare per la vastità dell'azzurro cielo di Toscano. Straordinario evento, audace compimento di una delle più ardue aspirazioni dell'uomo, tale da essere celebrato in tutte le scritture e da procurare fama e gloria. Tuttavia, lo spirito di consapevole umiltà ond'era dotato Leonardo lo induceva a non far parola di sé; egli scompariva all'interno della creatura sua, che tanti sofferti pensieri gli aveva procurato, e, di conseguenza, la fama apparterrà tutta al prodigioso apparecchio e la gloria sarà tutta di Firenze, il nido dove nacque il grande uccello.
Commovente è un dato: la parola, trasportata sull'onda del rapimento speculativo, assunta in tutta la pregnanza del contenuto, resa fremente di passione creativa, ha qui acquisito un sereno ritmo poetico. l'ansia del partecipare è diventata creazione poetica e ne è risultato un brano strutturato secondo risuonanti endecasillabi, ad eccezione di empiendo la sua fama tutte le scritture. Il monte Ceceri (Cecero è uguale a cigno ed anche questa è una stupefacente intrusione voluta dal destino della filologia), com'è noto, sta presso Firenze (3).
C'è, in effetti, come un alone di romantica leggenda intorno alle figure di questi due giganti del pensiero, appartenuti a due epoche diverse per contenuti storici, ma tutte e due mirabili per tensione creativa. Nei tempi in cui vissero, sia Archita che Leonardo, espressioni di due civiltà al punto più alto della loro parabola, stupirono i loro contemporanei. C'è, tuttavia, una differenza tra i due. Leonardo era uno spirito solitario, dalla psicologia estremamente tormentata, operoso e costruttivo, ma anche meditativo, chiuso in sé, nel groviglio dei fantasmi che l'uomo cercava di padroneggiare. Gli tornava spesso nella memoria la puerizia con il richiamo ossessivo degli incubi calati come voragini nel sogno. Archita, dal canto suo, con la sua solare operosità, era l'espressione vivente e palpitante della profondità di pensiero del sodalizio pitagorico, strutturato come un ordine monastico con norme comportamentali intelligentemente codificate dal Maestro. Nell'ambito di questo severo e sereno sodalizio, impostato, nell'arco di una vita di riflessione, su basi iniziatiche ed osservato seguendo il filo di una saggezza nativa, Archita espresse i valori più alti e più fecondi della suo patria tarantina.
L'uomo del Rinascimento, tutto chiuso in una suo tenebrosità interiore nella quale si agitavano i fantasmi della volontà decisa a conoscere ed a padroneggiare le forze oscure della natura, seguiva l'uomo di una estroversa intelligenza mediterranea dalla cui dinamica trama emergevano i valori di una civiltà sul nascere, dunque tanto più vigorosa e creativa.
E non solo Archita, in fondo, rappresentava questi caratteri di civiltà: infatti, si vuole - ma è un'ipotesi, peraltro, estremamente sollecitante - illuminato autore degli Aurea Carmina, che appartengono alle tracce lasciate dalla tarda tradizione pitagorica, Liside di Taranto, cioè uno dei diretti discepoli del Maestro, scampato, insieme ad Archippo, alle fiamme nel corso di una violenta insurrezione antipitagorica, e rifugiatosi a Tebe dove, accolto con favore negli ambienti aristocratici, avrebbe avuto come discepolo Epaminonda. Ma è ipotesi, questa di un Liside autore degli Aurea Carmina, che non ha potuto giovarsi del conforto di una convalida in chiave critica (4). E tanto meglio, forse, per gli Aurea Carmina, poiché, nel l'indeterminatezza del loro autore, vedono accresciuto il fascino del loro vertiginoso pensiero speculativo.
Certo è che intorno alla colomba volante di Archita nel corso del secoli si sono esercitate le intelligenze di tutti gli storici della scienza. Addirittura, uno studioso francese, P. Tannery, s'ingegnò di attribuire l'invenzione della colomba volante ad un Archita architetto nettamente distinto dal pitagorico (5). Uno studioso moderno, Guglielmo Schmidt, volle tentare una ricostruzione - accettata, in seguito, almeno in parte, con molte riserve - di questo automa architiano. Egli immaginò il fusto di un albero vuoto, al cui interno è celato un contrappeso. Questo contrappeso è posto in relazione, mediante funicelle e carrucole, con la colomba, nel cui corpo è introdotta l'aria compressa. Aperta una valvola nel corpo del congegno ligneo, l'aria compressa esce, la colomba diventa più leggera e sale. E l'aria che, uscendo, imprime un movimento alle ali. Ad un certo punto, comunque, la colomba si ferma: esaurito il deposito dell'aria compressa, naturalmente, il congegno non poteva più elevarsi.
Se nell'antichità a lungo s'è discusso di Archita, della sua statura civile e politica, delle sue intuizioni e realizzazioni nel campo della meccanica -Filostrato (Vita di Apollonio Tianeo, libro VI, cap. XXXI), Eliano (Storia varia, libro X, par. 12, XII, par. 15), Giamblico (Vita di Pitagora, cap. 31), Aristotele (Retorica, libro III, cap. II), Diogene Laerzio (Vite, VIII, 71), Cicerone (De Senectute, cap. XII, De Amicitia, cap. XXIII) - non meno s'è discusso di tutto questo in tempi a noi più vicini. Quello di Archita, infatti, è un nome continuamente ricorrente. Ma è sufficiente a questo proposito qualche cenno.
Montaigne, nei Saggi, s'occupò di Archita, sia pure brevemente, citandolo nel libro II, cap. XXXI Della collera, e nel libro III, cap. IX Della vanità. In entrambi i casi il forte pensatore francese accenna ad una personalità di calibrata saggezza (6).
Tommaso Garzoni da Bagnacavallo, parlando delle professioni meccaniche affermò, dopo aver citato alcuni scienziati dell'antichità greca, che "di Archita si legge che lavorò di legno una colomba con tanta maestria temperata e gonfiata che da sé volava per l'aria come se fosse una colomba viva e vera" (7). Il pistoiese Henrion, invece, sostenne che per ben due volte Archita, nel corso di qualche peregrinazione compiuta in Grecia per illustrare i suoi ritrovati intorno ai quali s'era esercitato il suo ingegno, fece compiere alla sua colomba il giro di una piazza di Atene (8). Ed ha del suggestivo la personalità di quest'uomo eminente il quale se ne va per le città allo scopo di mostrare - onde trovare credito -- i risultati del suo fertile ingegno. In definitiva, cominciava, sia pure su basi puramente intuitive, la storia del volo umano, nel cui contesto, giustamente, la colomba di Archita avrebbe assunto una sua pionieristica posizione. Che, per fare un altro caso, non le sottrae nemmeno il Garibbo (9).
Estremamente controversa è la tradizione intorno alla località nella quale Archita trovò la morte. C'è, intanto, un preciso riferimento in Orazio (1,28, 1-16), dalla cui testimonianza poi si dipartono due interpretazioni, che nel tempo hanno tenuto in esercizio, ed hanno appassionato, l'attenzione degli studiosi. I significati interiori dello stesso carme oraziano, d'altra parte, sono a loro volta abbastanza controversi. Ed il Pascoli, il quale sostenne che il carme fosse uno dei primi tentativi della lirica oraziana, vide in esso un attacco ai sistemi filosofici che ammettono la sopravvivenza, dopo la morte del corpo, dello spirito dell'uomo. Tali sistemi erano quasi personificati in Archita per opera del quale il Pitagorismo transitò nella dottrina di Platone. Comunque, nel complesso, tutto il carme, alla cui esegesi in epoca moderna si sono applicati critici illustri, è, nel contesto della lirica oraziana, tra i più macchinosi sia sul piano dell'impostazione tematica che su quello dei significati riposti(10).
Ma ecco i versi di Orazio: "Te maris et terrae numeroque carentis harenae / mensorem cohibent, Archyta, / pulveris exigui prope litus parva Matinum / munera ... ". Ed eccone la traduzione: "Te misuratore del mare e della terra e delle immensurabili arene, coprono, o Archita, pochi pugni di polvere presso il lido Matino ... ". Il lido può essere sia quello della garganica Mattina, oggi Mattinata, sia quello a sud della salentina Gallipoli, presso Matino, il piccolo centro eminente sulle estreme serre della penisola salentina. (11)
Per quanto riguarda la garganica Mattinata, non si hanno notizie certe dell'esistenza di una città nell'antichità, ma sarebbe da identificare in Mattinata la greca Apeneste, diventata in epoca romana Matinum, sul cui lido si vuole abbia fatto naufragio appunto Archita. Essa è la Matino contata anche da Lucano. La tradizione vuole che Matinum sia stata inghiottita, in una certa epoca, da un violento maremoto.
E chiaro che a nessuno è lecito tentare di stabilire un dato che, peraltro, riesce molto più suggestivo, molto più cattivante, se resta avvolto nelle nebbie di una romantica indeterminatezza.
Che tra i due siti, peraltro geograficamente nemmeno molto distanti l'uno dall'altro, ci siano delle analogie, o ci siano state delle analogie, è fuor di dubbio. Tranne la differenza, senza meno sostanziale, che Mattinata è, in posizione incantevole, sul mare e la salentina Matino no, qualche analogia tra i due centri c'è. Per fare un caso, gran copia di piante aromatiche è presente sia su quel tratto di costa garganica che su quella fertile piaga della penisola salentina. Ma tutto ciò, non è chi non lo veda, è tutt'altro che sufficiente. E, tuttavia, malgrado tutti gli sforzi e le buone intenzioni, ed i non contestabili risultati, degli esegeti più agguerriti, non sono sufficienti, purtroppo, nemmeno i versi di Orazio. Versi, certo, dal ritmo solenne, ma tutt'altro che ricchi di riferimenti utili per identificare con buona probabilità la Matino della morte di Archita.
Il Cantarelli, commentando l'ode oraziana, stabilì che "Dinanzi al tumulo di Archita, che sorgeva formato da poca terra sulle spiagge calabre di Taranto per dove dall'Apulia distendesi a mezzogiorno il monte Matino, si ferma l'ombra di un di Taranto, il cui corpo sommerso dalla tempesta nel mare illirico era stato dalla corrente trasportato sul lido della patria sua"(12). L'ode, infatti, si articola in tre parti: vv. 1-16 in cui un ignoto rivolge il discorso ad Archita, perito per naufragio: dove? Sul promontorio Matino presso il Gargano? Vv. 17-22 in cui l'ignoto parla di sé, morto; vv. 23-26 in cui l'ignoto si rivolge al viandante e lo prega di gettargli, sul corpo insepolto, qualche pugno di polvere.
L'Orelli, dal canto suo, fu tra quelli che ritennero che per litus Matinum si dovesse intendere la spiaggia che assume il nome dal monte Matino nell'Apulia. E, comunque, osservava il Ritter, "Apuliae finis meridianus non procul est a Tarento, ac Matinus in Apulis incipiens in Calabros in quorum agro Tarentum positum est, procurrit" (13), di modo che per litus Matinum si dovrebbe intendere Tarentinum Calabriae litus. L'Ussani, poi, rifiutava ogni altra interpretazione e situava il lido Matino sul litorale ionico salentino(14). Un'ultima osservazione va fatta. Coraggioso esploratore della meccanica ondulatoria anche per il mare, come per una sorta di fatalità, eroica fatalità, Archita al pari di Ippaso di Metaponto, non poteva morire che naufrago. Dove?
Orazio afferma che Noto "signoreggia come nessun altro vento l'Adriatico, sia che voglia sollevare sia che voglia placare i marosi". E questo risponde con esattezza anche al mare che batte contro il litorale ionico della penisola salentina, appunto perché più violenti diventano su questo tratto di costa "i flutti che l'Adriatico insinua nei Golfi di Calabria". Nessuna tradizione, in definitiva, èda rifiutare assolutamente, ma nessuna, di rimando, è da accettare incondizionatamente. Dove sia morto un uomo di tanta statura intellettuale, infine, poco importa. Figure simili appartengono non ad una terra, ma a tutta l'umanità. Resta, tuttavia, che s'è inabissato come uno splendido dio di Grecia, vittima di una scienza che egli da vivo aveva signoreggiato con la suprema intelligenza degli spiriti sereni.


NOTE
1) Per tutta questa parte cfr. E. MACH, La meccanica nel suo sviluppo storico-critico. Torino, Paolo Boringhieri Editore, 1968.
2) Per queste cognizioni cfr. E. PAOLO LAMANNA, Storia della filosofia, volume primo. Firenze, Ed. Felice Le Monnier, 1947. Per una sommaria informazione cfr. anche Jaques LE GOFF, Genio del Medio Evo. Milano Ed. Mondadori, 1959.
3) LEONARDO DA VINCI, Tutti gli scritti a cura di Augusto Marinoni. Scritti letterari. Milano, Rizzoli Editore, 1952, p. 171.
4) Nulla di organico c'è intorno a questa fascinosa figura della Taranto pitagorica. Notizie sono sparse qua e là nei testi nei quali si parla del Pitagorismo. Cfr. L. Ferrero, Storia del Pitagorismo nel mondo romano (Dalle origini alla fine della Repubblica). Università di Torino Facoltà di Lettere e filosofia Fondazione Parini - Chirio, 1955. Un riferimento preciso anche in l Versi d'Oro pitagorei. Nuova presentazione con un saggio introduttivo sul Pitagorismo, a cura di J. Evola. Roma, Casa Editrice Atanòr, 1959. Cfr. anche Pitagorici Testimonianze e frammenti Fascicolo secondo…A cura di Maria Timpanaro Cardini. Firenze. "La Nuova Italia" Editrice, 1969, pp. 259-261, dove, da un frammento di Giamblico, s'apprende che "Epaminonda fu suo discepolo e lo chiamò col nome di padre".
5) Cfr. P. TANNERY, La Geometrie Grecque. Paris, 1887, p. 128.
6) Cfr. Michel de MONTAIGNE, Saggi. A cura di Fausta Garavini, Milano, ed. Arnoldo Mondadori, 1970, voll. due. Per Archita cfr. vol. secondo, pagg. 951 e 1315.
7) Tommaso GARZONI da Bagnacavallo, Piazza Universale di tutte le professioni del mondo. Venezia, presso Giorgio Valentini, 1617, p. 330.
8) Francesco HENRION, Fondamenti teorico-pratici dell'arte aeronautica. Firenze, Allegretti, 1789, p. 34, n. 8
9) GARIBBO, Cenni storici dell'aeronautica. Firenze, 1838, p. 134.
10) Tra i tanti esegeti del carme oraziano non va dimenticato il salentino Enrico MASCIULLO, L'Ode XXVIII di Orazio Ad Archita Tarentino Interpretazione critica. Lecce. Tip. D'Ercole-Mucciato, 1920.
11) Cfr. Tommaso LEOPIZZI, Matino Storia e cultura popolare. Editrice Tipografia Matino, 1979. Il Leopizzi esclude assolutamente che Archita possa aver fatto naufragio nel mare poco distante da questa località.
12) Cfr. Luigi CANTARELLI, Studi Romani e Bizantini: Un'ode oraziana (1,28). Tip. R. Accademia dei Lincei, 1915.
13) Cit. in Agatino D'Arrigo, La colomba di Archita in Natura e tecnica nel Mezzogiorno. Firenze, "La Nuova Italia" Editrice, MCMLVI, p. 617.
14) Cfr. Vincenzo USSANI, L'ode di Archita. Roma, Tip. Italiana, 1892.


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