§ L'INEDITO

I poeti sanno dove sono le capre d'inverno




Antonio Verri



Dieci lettere dagli Incontri Poetici Internazionali di Yverdon (Svizzera).


Yverdon, 11 settembre 1986, ore 24

Caro Aldo,
la seconda edizione degli Incontri Poetici Internazionali qui a Yverdon è cominciata proprio bene. Una bella giornata., molte presentazioni, una bisboccia serale.
Sessanta poeti e scrittori che arrivano uno dietro l'altro da tutte le parti del mondo, è la prima impressione, non riescono a sconcertare il silenzio, l'estremo ordine e pulizia che regna in questa cittadina del canton Vaud, patria di Pestalozzi e sede, tra le tante altre cose, di una ottima scuola per ingegneri di Stato.
Bene. Alle 15,30, dopo venti ore di treno, arrivo anch'io. Devo dirti, non molto ben disposto, comunque carico di quella luce ("ora so che cosa mi portavo in giro per il mondo: questa luce", ricordi?, sono parole del tuo amico pittore in "Amare Contee") dove tutto è possibile, tutto realizzabile, dove non sono dei tutto cretini i donchisciotte che al vento danno sciabolate...
In attesa di entrare nel vivo degli Incontri (da domani), il cui fine dichiarato è fraternizzare e operare, di quel che c'è intorno o di come li vivo, in attesa di tutto ciò ti faccio una rapida registrazione di quanto è avvenuto oggi.
Buona accoglienza. Il mio amico Horia Liman (un po' carico di acciacchi, ma molto simpatico e buon scrittore dopo una vita da giornalista) è venuto da Neuchâtel a prendermi alla stazione; con lui Lucette Junod, gentilissima, presidente degli Incontri. Liman non parteciperò né alla lettura dei testi né al simposio (sua scelta, anche se mi ha accennato a dell'altro) ma promette di venirmi a trovare qualche altro giorno.
Una cartella come in tutti i buoni convegni. Dentro c'è un'antologia dei poeti presenti a questa seconda edizione dei "Rencontres", buona graficamente e costruito con a fronte due poesie, scritte a mano, per ogni autore, una traduzione in francese per tutti e una bibliografia degli autori dietro: ottimo strumento, penso, per individuare anche poeticamente chi ti è davanti. Fino ad ora una organizzazione perfetta, camera con tutti i conforts, ottimo ristorante, gentilezze, squisitezze. Tutto si gioca tra Motel de la Prairie e il Motel Les Bains, mia residenza. Tutto perfetto. Vedremo.
Non ci mettiamo molto a "fraternizzare". Eccoci, dopo cena (con un terzo piatto di more, proprio more, in salsa calda con al centro un gelato), dopo cena siamo giù gruppo: Kostas Valetas, romanziere greco, con sua moglie Caterina; Rolando Certa che nell'antologia è registrato non come italiano ma come siciliano (!), organizzatore degli Incontri Poetici del Mediterraneo, a Mazara Del Vallo, molto più autentico di quanto a volte facciano pensare i suoi versi, ricco di animosità e paladino della poesia in molte parti del mondo (gli ho cucito sopra il nostro incantevole ormai scomparso termine, falaetta, a lui sta bene!); Francisco Delgado, che ha gustato da giovanissimo le prigioni di Salazar e tanto altro, finché non è scappato a Ginevra dove fa lo psicologo e il poeta; Ferenc Baranyi, ungherese, che ha cantato tutto la sera in napoletano. Simpatico e interessante, Ferenc, è buon traduttore, ha tradotto molto Pasolini, Ungaretti, Montale, qualche canto della Divina Commedia. E' critico musicale alla televisione ungherese, gira il mondo ma si ferma volentieri in Italia. Accanto a Ferenc la sua compagna, Franciska Kassai, una cantautrice ed una interprete eccezionale, anche lei rappresentante della poesia ungherese. E poi Boris Vishinski, scrittore e direttore editoriale macedone che per tutta la sera ha fatto il filo alla rappresentante del Portogallo, Filomena Cabral, felicissima tutte le volte che la chiamo "bella ciao". Non ti voglio più angosciare con nomi e situazioni. Solo questo. Abbiamo cantato fino ad un quarto d'ora fa, su Yverdon addormentata, canzoni italiane soprattutto.

12 settembre, ore 9

Caro Aldo,
stanotte, mentre perlette di buio gocciolavano su tutta Yverdon, ho sognato Pargö il Tibetano, "l'eremita dal grande potere" (una mia fascinosa lettura di fine luglio). Strano però, non sogno quasi mai, meglio, quasi mai ricordo quel che ho sognato... Perché Pargö? E' quello che mi sto chiedendo ora mentre riprendo a scriverti, in questa mezz'ora che ho prima di incamminarmi verso l'Hotel de la Prairie. Ecco. Ho sognato la grossa tela che narra delle sue bizze di gioventù, delle sue sventure, della sua felicitò meditativa, della sua, diciamo, ascensione. Tutto fisso là tra rosso cinabro, blu indigo e verde malachite. Poi lui, Pargö, barbuto, che usciva fuori dalla tela con nella destra un tamburo-clessidra e nella sinistra un osso. Niente altro, non c'erano né lama narratori né balli propiziatori né carovane che trasportano sale e né quelle lente processioni di pellegrini orientali che somigliano tanto a quelle naccarate tarantine della settimana santa. Niente altro. Solo Pargö che mi guardava irriverente, giocoso, subdolo, con la sua barba di caprone e i capelli avvolti intorno ad una scatola piena di incantesimi...
Posso mettere il tutto in relazione con certi miei strani momenti? Pargö entra nel mio turgore eccessivo, nelle mie finzioni, nella mia stanchezza, nel rifiuto del già fatto? Boh!, e forse faccio meglio a non chiedermelo qua in questa sorta di bomboniera borghese, aperta però, pronta al nuovo nonostante il carattere prudente e conservatore di sempre. Forse è meglio prendere la via per il Prairie e non far trapelare niente.

12 settembre, ore 77,30

Caro Aldo,
non sono andato a visitare le terme di Yverdon, come da programma, ho guardato un paio di librerie che per l'occasione hanno riempito la vetrina, e addirittura il marciapiede, con moltissimi testi di e sulla poesia. Non ho guardato tutto però, dovrò ritornarci. A passeggio per Yverdon. La gente, quella che c'è, è meno fredda che nella Svizzera tedesca, ti sorridono, hanno garbo, anche se sanno farsi bene i loro conti. Buoni locali, casette come le disegnavamo noi a scuola, molto ordine, come sempre.
Niente conferenza alle 10. Aspetto che si cominci a fare sul serio. A pranzo sono quasi tutti presenti, riesco più o meno ad identificarli un po' tutti. Chi più mi meraviglia, scusami, è il sottoscritto. Da un po' di tempo ho pochissimo interesse per tutto quello che mi succede ma qui riesco a ridere, a prendermi sul serio, a parlare del più e del meno. (Come vedi le mie lettere da Yverdon hanno già un loro volto: ti parlo di me, dei miei amici, di quel che si combinerò, e non delle curiosità di questo o quel cantone, della neutralità, della democrazia diretta (o autocoscienza liberale) o del miracolo svizzero. Anche se forse una parola in più meriterebbero la letteratura e il cinema svizzero da Dürrenmatt a Frisch, a Ramuz, a registi come Tanner, Goretta, ecc.).
A ognuno i suoi giochi. Penso che tutto, proprio tutto, vada giocato in una forte, accesa letterarietà, in una ossessione continua che può, nel mio caso, per esempio, non avere niente di salentino ma dove proprio tutto è salentino o di quella regione solare, lineare, creativa... Delle tre, delle tantissime Puglie ("difficile contarle, non hanno confini precisi", ancora dalle tue "Amare Contee") preferisco abitare quella meno rotonda, meno roboante, più bizantina, più scabra e lineare che ha Otranto come capitale ma che si distende tranquilla fino a Leuca (Puglia asciutta, creativa, questa, forse palea, paglia, come dice il mio amico Buongiorno, piena del rosso, del giallo e del fulminante bianco di Mandorino, delle nostre chisciottate, delle nostre tenerezze, delle grazie avide e inesplose delle nostre ragazze, le mulacchione, azzannate dalla luna e da a volte incantevoli inibizioni), questa Puglia che di locale non ha niente, anzi, torno a dire, uno spessore creativo insito, naturale (è facile intuire i guizzi, i desideri nascosti, le speranze del ragazzo che dalla sua porta-finestra covava guardando tutta piazza Aligheri; o di quell'altro che dai terrazzi delle case basse e bianche "si organizzava, si ostinava a non voler crescere regolarmente..,."), voglia di voli (figli come siamo di Giuseppe Desa da Copertino!), tenerezze per la madre, unica, accorta e fidata custode delle memorie del ragazzo lesto a prender treni... e poi, e poi, e poi fidando in te, a cui scrivo, o nei lettori di Sud-Puglia, finisco coi darti (da Yverdon addirittura!) testimonianza di una pattuglia di giovani dai quali un giorno saremo ben rappresentati: Antonio Corvaglia, pittore da Giuggianello; Lucio Conversano, che tra San Cesario-Valenza-Parigi costruisce stilizzati suoi rifiuti; Mario Didonfrancesco, cartapestaio a Lecce, paziente come questa sua scelta, ma buon artista; il povero Roberto Greco che ha lavorato come un matto prima del tragico volo; Abele Vadacca, da Calimera, scultore di sicuro, grande avvenire; Cosimo Colazzo, un compositore di grosso talento nato a Melpignano ma che ègiù in giro per i Conservatori di mezza Italia; Antonio Errico, strapieno di buone suggestioni, letterarietà e mestiere; Fabio Tolledi, demistificatore, poeta fine e spregiudicato, lo splendido Salvatore Toma, il quanto mai completo artista Sergio Sperti e ancora qualche altro: tutti giovanissimi o quasi, ma bene agguerriti, tutti figli del bizzoso Pantaleone, di una cultura che ha radici e confini illimitati, profondissimi. Giovani ai quali auguro di tutto cuore tanta arroganza, creatività continua, di essere poi burberi e poi umili e poi forti quanto più possono...
Perdonami Aldo, mi sono lasciato prendere la mano, dimenticando l'apertura ufficiale del "Rencontres" e il successivo omaggio alla poesia inglese. Corro.

venerdì notte, 12 settembre

Caro Aldo,
ormai è sabato mattina, sono le 4, ho lasciato mezz'ora fa i miei amici, tutti un po' brilli naturalmente. Delgado è una stella, una baraonda. E' molto attivo, sa inventarsi di tutto per prolungare le bevute. Io lo accompagno molto volentieri e sono giù sei le volte che, con Certa, cantiamo o urliamo "Bella ciao". Filomena oggi è diventata poetessa "acquolica" per il suo preferire l'accadueo al vino che gira generoso, anche se qui costa un occhio, tradotto in lire, dalle 25 alle 35 mila la bottiglia. Ferenc è di buona compagnia e si guarda negli occhi la sua Franciska; Kostas è piacevolmente acido e a volte duro, buon osservatore, ha ereditato la cultura e l'ironia dei suoi padri millenari; Caterina è dolce, al solito; Rolando è una falaetta innamorata, ottima voce e occhi allegri. Beh, posso continuare ma non credo sia questo che ti aspetti da me. Ah, per la prima parte della serata si è unito a noi Benito Mazzi (il terzo italiano; il quarto è Marco Guzzi, lavora al Centro Montale, un tipo che si apparta facilmente, è con la moglie). Benito è mio vicino di camera, viene dalla Val d'Ossola, è uno che con la letteratura fa sul serio, è un buon narratore (ho guardato un po' il suo "L'osteria dei Patrizi", interessante: dei termini e dei modi di dire dei suo duro dialetto nei suoi lavori diventano poesia), non ha mai fatto versi e sull'antologia figura con due brevissimi passi del suo prossimo romanzo; è anche direttore dell'Eco Risveglio Ossolano, ha la voce roca e sicura delle sue valli.
Bene, scordato fin quasi sottocasa dalle tenerezze da esule e da poeta del mio amico Delgado, cerco di sintetizzarti la prima serata di lavoro. Il centro di tutto il da fare degli Incontri è un Castello dei 1200 che è al centro di Yverdon, davanti al bronzo di Pestalozzi, ed è proprio qui che due, tre grossi tavoli fanno da supporto alla produzione in libro di tutti gli autori presenti. Moltissimo buona roba, ma anche qualche insicuro autoedizione; il livello generale comunque è buono, esce fuori anche il fatto che molta gente pratica con successo il romanzo. Chi c'è? C'è Eugène Guillevic (è come il nostro Luzi in Francia) con i suoi libri firmati Gallimard; Mateya Matevski che domenica riceverò il premio "Blaise Cendrars"; Raymond Tschumi, che presiederò il Simposio, con i suoi saggi, le sue poesie; Jacques Gaucheron, molto serio, con una buona produzione; Roger-Luis Junod, uno dei patron dei "Rencontres", con i suoi romanzi; buona la produzione degli inglesi; da segnalare uno svizzero italiano, Fabio Pusterla, un buon poeta, giovane, e già buon amico, e poi maltesi, ungheresi, rumeni, ecc. ecc.
Girare intorno ai libri è stata anche una buona occasione per familiarizzare con qualche altro, il tutto tra un buon sigaro Churchill e il vino del buffet che, al solito, rende brillanti e di molte parole.
Arrivano gli inglesi. Quest'anno si fa omaggio alla poesia inglese (due anni fa toccò alla poesia portoghese). Eccoli i poeti: John Fuller, George Macbeth, sua moglie Lisa St-Aubin de Teran, Christopher Reid e Hugo Williams, assenti Roy Fisher e Blake Morrison. Li ha tradotti e presentati Tschumi, dell'Università Economica di St-Gall, che a grandi linee ha fatto una storia della poesia inglese da Chaucer a Shakespeare, da Blake a Byron, Schelley, Elliot, Keats, fino ad arrivare ad un gruppo di poeti inglesi degli anni cinquanta, "The Mouvement", che si riconosceva in una poesia immediata e antiromantica. I nostri invece, i qui presenti dico, è quanto di meglio si può trovare oggi nella giovane poesia inglese; li chiamano 'sperimentali' e il loro verso è ironico e narrativo. Un salone incantevole del castello, ristrutturato con molto rispetto, ottimo l'audio, è stato buon palcoscenico a questi ragazzi che hanno detto benissimo i loro versi, con molto garbo e ironia, un po' esangui forse, come ogni buon poeta inglese. Tutto O.K.
Inizio serata con Benito, Delgado, Certa, Boris e Filomena alla "Locanda dei Siciliani", un posto un po' squallido come strutture, ma molto spontaneo. C'è una cultura del dopolavoro negli italiani che qui in Svizzera si sognano. Luigi, una faccia pulita, un omone simpatico (che avevamo incontrato per caso la sera prima) mi ha detto che questo nome glielo abbiamo dato noi, lui si chiama Carmelo, poi ha cacciato un grosso libro sulla Sicilia, di Calogero Messina, che, stupendamente, tenevano dietro al bancone e Certa ha recitato poesie in siciliano. Ho pure incontrato un compaesano di Galateo che da cinque anni non torna a casa.
Ultimo bicchiere, si fa per dire, al Prairie, dove abbiamo incontrato Denise, la stupenda poetessa canadese, e bla bla bla.

sabato 13 settembre, ore 17

Caro Aldo,
salto un po' di concerto che Franciska dà per gli amici nella hall dei Prairie e comincio a scriverti: ne vale la pena, è stata una buona giornata.
Si comincia alle 9 (non è come da noi, qua sono puntualissimi), col solito brillante Tschumi - garbo e tanta simpatia - che imposta il tema del Simposio di quest'anno: "Parodie et originalité dans la création poétique" (due anni fa, e qui abbiamo gli atti, il tema era: "La poésie comme dernier recours de l'identité").
Le domande son tante; si cerca di rispondere ognuno mettendo del suo (molto mi sfugge, a dire il vero, colpa del parlare o leggere veloce in francese: ci sono cuffie e traduttori ma solo per gli inglesi); questioni a volte ambigue con due termini (parodia/originalità) che sembrano uno opposto all'altro ma che in realtà convivono e interagiscono nello spazio della metafora, della libertà di dilatare, del dire necessariamente nuovo o del "nuovo fremito" di fronte ai dire antichi (nella cartellina del Simposio: "Se, come afferma Genette, ogni testo ne imita un altro, che resta da dire?").
Gli interventi-relazioni (R-L. Junod, P. Thierrin, J. Fuller, J. D'Arzilie, J-P. Vallotton, J.L'Anselme e poi, nel primissimo pomeriggio, Marco Guzzi (che non ho sentito), Jacques Gaucheron, Tschumi (ancora) (la "meglio gente", viene da pensare, cioè chi ha qualcosa da dire e cura e vive una condizione di impegno creativo, a differenza di chi è arrivato qui - non molti, ma ci sono - con un paio di edizioni all'acqua di rose), le relazioni, dicevo (fermo restando quella mia difficoltà col francese), mi pare abbiano aggiunto altri interrogativi a quelli che già avevamo, o meglio, non ci hanno dato quel che c'era da aspettarsi: cioè, dignità operativa alla parodia ("contro il canto" è la traduzione letterale in greco che ieri sera mi ha dato Kostas), dignità necessaria perché oggi il testo ha una sua urgenza e non bisogna assolutamente distrarsi. Mi è andato bene Gaucheron quando ha detto 'genere letterario antichissimo', un inglese quando ha aggiunto che la letteratura cede rapidamente e che la parodia la può salvare; meno bene quando si è detto 'la parodia è in tutto', e sono intervenuto (addirittura nella giornata delle relazioni, e non era permesso) quando Vallotton ha confinato la parodia nel teatro, nella musica, o in altri generi, meno che nella poesia o nel testo poetico.
Caro Aldo, scusami se divento un po' barboso ma mi va di dirti, anche a mo' di verifica, del mio intervento. Più o meno d'accordo che la poesia, essendo momento di sintesi, non può essere posto per la parodia, ma assolutamente non lo sono teatro, musica, ecc., dove si corre il rischio di fare solo spettacolo leggero, da cabaret. Posto, allora, privilegiato e operativo della parodia è il romanzo. Ecco, tutto si risolve nel romanzo, il romanzo è luogo di infrazioni incredibili, è il luogo del fatto, della ricerca e del presunto. Il nostro termine parodia altro non è che quel che facciamo agire per arrivare al testo, e poi è il testo stesso; parodia, in altri termini, è qualcosa di estremamente razionale, è continua riscrittura, continuo mettere in gioca parole e situazioni, appunto del "dire antichi". Soprattutto parole. Perché credo che lo spazio, il margine che la letteratura oggi deve ricavarsi ha confini solo verbali: possiamo riconoscere come anticipatori o profeti o maestri Joyce del Finnegans Wake o Queneau della Piccola cosmogonia portatile; e non è assolutamente vero che dopo Joyce non ci sarà più posto per il romanzo, perché semmai Joyce ha aperto, a grandissima levatura, la strada, le strade, le tantissime strade della costruzione verbale, del gioco. Un verso della Cosmogonia di Queneau (riporto la traduzione di Solmi) è illuminante in questo senso: "dal calembour può nascere significato"; e tutto allora si risolve in questo che io credo sia il tratto essenziale e unificatore di parodia e originalità: la libertà di dilatare, riscrivere, dar vita a quel demone radicale che vive di suoni, di provocazioni, di follia, di derisione, di giochi verbali impensabili, di esplosioni, di frantumazioni, di metafore, di analogie, di tumori, di arrotondamenti, morbidezze e ogni cosa che al testo dà vita. C'è da ridire allora che parodia è il testo stesso, ma anche la disposizione giocosa, quella dimensione astuta, candida e aperta con la quale l'autore affronta la pagina bianca che, credimi Aldo, non darò mai sgomento visto che ormai qua più nessuno aspetta l'ispirazione per scrivere qualcosa (mi pare di essere l'unico joyciano - per amore di tecnica - e che Queneau lo conoscano in pochi).
Ecco quanto, anche se ti ho solo quasi parlato del mio intervento (durante il Simposio non so perché ma ho ripensato a Pargö e al mio suonotare silenzioso senegalese). Adesso scusami, scappo. Franciska canta da almeno mezzo'ora.

sabato 13 settembre, ore 22,30

Caro Aldo,
Franciska è incantevole, ha una splendida voce, ricchissima, e le sue canzoni popolari ungheresi sembrano nenie d'inverno sotto la neve (Ferenc è sempre là, credo innamoratissimo, che la guarda negli occhi). Mentre ti scrivo (sono le 22,30 e tra mezz'ora ho appuntamento al Prairie con Delgado e gli altri) ho ancora certi suoi passaggi nelle orecchie.
Dopo la serata degli inglesi siamo alla "Soirée internationale". Domani, quando l'Alpe rosseggierà, leggeranno i poeti d'espressione francese.
Comincia Mohammed Abu-Rub, poeta giordano, con la sua "La rêve inachevé" (possiamo seguire in francese, serve anche a questo l'antologia stampata anzitempo) (Abu-Rub è molto alto, è come una 'Perla dissimulata' che sorride un po' a tutti); segue Ferenc con "Rose jaune". E a questo punto mi sembra un po' pesante dirti dettagliatamente di tutti e ventitrè i poeti protagonisti; mi limiterò ad annotarti, con nomi e cognomi, quello che può servire ad identificare una sorta di linea comune della multicolore pattuglia poetica di questo sabato tredici.
Oddio, linea comune è pretendere troppo, comunque la gente che più giù ti indicherò, secondo il gusto e la cultura del sottoscritto, in comune qualcosa ce l'ha: un piacere del narrato, un far scorrere senza troppi esclamativi la penna sulla pagina, l'immediatezza a volte, a volte quel miracolo di sintesi (Montale ne era maestro), quel riuscire a chiudere in poche righe un racconto, una storia, magari situazioni epocali.
Comincio a farti nomi: Toni Hafliger che ci è dato come svizzero ma produce in inglese; Dan Laurentiu, rumeno, letto dalla Junod, assente, si mormora, per Ceausescu; l'altro rumeno lon Deaconescu: ottimo Fabio Pusterla, il suo passo poetico è lento, incalzante, denso di mille gesti, di mille giochi con se stesso; la danese Sara Mathai-Stinus con la sua "Luna magica", e il suo connazionale Erik Stinus; il lussemburghese Nico Helminger col suo "sonnet 33"; il tunisino Omar Ben Salem, letto da Abu-Rub; Dina Cuvata, nome d"arte per Dimo Dimcev, iugoslava (molto schivo, prontissimo ad isolarsi, l'ho visto poche volte in giro, una volta abbiamo mangiato insieme), ha in antologia una preghiera alla Walt Witman, per il suo popolo, molto sentita e penetrante, ma gli organizzatori in busta gli fanno trovare la seconda poesia; naturalmente Kostas Valetas e Benito Mazzi; il poeta maltese assente Olivier Friggeri, amico di molti qui; l'ottima Frantisek Lipka, cecoslovacca, con la sua "Grammatica", e poi l'ungherese Gyorgy Somlyo, tradotto in francese da Guillevic, che ha incantato con un gioco incalzante di parole e suoni: il tutto con la suggestiva voce di Jean Ber (attore e poeta, ha lavorato un bel po' anche in Italia) e di Lucette Junod.
Per quanto mi riguarda. Nella mia busta ho trovato "Il castello di Munot" dal "Pane sotto la neve" (anche se avevo. spedito - tradotto da Laura Capozzi in francese - il primo monologo del Galateo; oppure ho cercato di imporre, inutilmente, all'organizzazione passi della mia nascente "Betissa"). Ho letto con molta lestezza perché sui palchi io non sto bene.
Aldo, lascio, non posso far aspettare i miei amici. Delgado, dal cognome gaddiano, in testa.

domenica 14, ore 14

Caro Aldo,
alle 13,45 sono tutti partiti in "boteau" per un pic-nic sul lago di Neuchatel. Piove. Per pochi minuti ho perduto il 'boteau', gli svizzeri non aspettano: ti scrivo più o meno deluso.
Sto ripensando al ragazzo che venerdì venne al Castello con in una scatola sessanta buste tutte uguali. In ogni busta interventi visivi e sue poesie. Era là per distribuire il tutto ai colleghi maggiori (voleva parlare ai Junod, non li ha trovati, ha parlato con Thierrin, mi pare, che evidentemente lo ha rispedito a casa). Il ragazzo viveva in Svizzera ma era di origine abruzzese, mi aveva detto di aver fretta perché doveva prendere il treno per l'Aquila dove si sposava una sorella. E la sua poesia? Mi sento in colpa per non averlo aiutato.
Ma hanno una loro funzione, un loro posto questi incontri biennali ad Yverdon? Penso proprio di sì (anche se si auspica meno organizzazione e più spontaneità). Basta solo il fatto che vengono fatti in un paese, la Svizzera, da sempre non dico ostico ma poco attento ai fatti culturali. Stamattina, ore 9,30, discussione libera sul tema del Simposio. Ma quello che c'era da dire è stato detto ieri.
Dopo pranzo ho nuovamente fumato un Churchill (dal telegiornale della Svizzera italiana intanto apprendo che a Berna è stato presentato progetto per aumentare i soldi che di solito vanno alla Cultura), ma non sono come i miei Pablo. Hanno un sapore diverso i sigari qui: hanno perso quel gusto di chicche smodate di quando un mese fa, per esempio, li esibivo sull'Albergo Palazzo (che da ragazzo, attaccato alla mano di mia madre, potevo solo guardare da lontano) o nel salone dell'Orsa Maggiore, a Castro. "Ma continuano a venire i vecchi amici della Signora Ada? Carmelo Bene, Nerino Rossi, la Durante?". Niente. Alzata di spalle. "Sì, si affacciano.. ". Dio mio, scappai subito via. Nessuno poteva più comprare venti cicale a Frigole.
Caro Aldo, ieri sera, con i soliti amici, più i signori Junod, più Abu-Rub (che faceva arrivare continuamente bottiglie di ottimo vino, pur di ascoltare e registrare "Bella ciao": cosa che noi ci guardavamo bene dal concedere subito!), a canti e danze intorno al tavolo abbiamo fatto le quattro di mattina. Vado a riposare. Ciao.

lunedì 15 settembre, ore 8

Caro Aldo,
sistemata un po' di roba, fatta colazione, fatta una telefonata al mio amico Horia (anche per avvertirlo che tengo molto a vedere, a Martigny, la mostra di Giacometti; in pratica la prima grossa mostra organica a questo grande artista), prendo carta e penna ed eccomi qua.
Un po' per la stanchezza, un po' per le tre, quattro ore di sonno a notte, un po' perché sono di una lentezza notevole, ieri sera sono arrivato al Castello che erano le 19. In pratica mi sono perso quasi tutti i poeti "d'espressione francese" (ho fatto in tempo a sentire Guillevic, superbo, ed altri due) (mi è dispiaciuto non sentire Delgado, ma ci rifaremo questa sera intorno ad un tavolo) e sono arrivato per le due premiazioni.
Un premio, quello dei nostri "Rencontres,", è andato ad Anne Perrier (due anni fa è stato consegnato a Chappaz, amico dei mio amico Liman). La Perrier è l'angelo della poesia svizzera romanda, per la sua lindura, per il francescanesimo dei suoi versi, per la sua ingenuità, per il suo candore, in realtà sembra una casalinga svizzera tutta bianca che dal '43 ad oggi non ha fatto altro che scrivere e pubblicare versi e libri puliti, trasparenti, senza scossoni. Gente così sta bene nei Premi (vedi un po' la nostra letteratura nazionale: i romanzi romanzeschi dei vari, puliti, autori che girano dal Campiello al Viareggio, allo Strega, ecc.)! Chi non stava bene ieri sera nei panni del premiato (molto emozionato, non sapeva dove mettere le mani) era Mateya Matevski, che qui ha ricevuto il "Prix Blaise Cendrars", professore di storia del teatro e del dramma universale all'Università di Skopjé (Macedonia), ma già capo redattore e poi direttore e poi direttore generale della radio e Televisione Macedone. Ma soprattutto poeta. E buon poeta, a giudicare dal suo ultimo libro di versi, "Nascita della tragedia" che ieri sera girava di mano in mano. (Altissimo, Mateya, non è a suo agio davanti al microfono, la sua lingua è durissima però la sua poesia è autentica).
Letture di poesie, letture di saggi di R-L. Junod, di Tschumi, tra uno sguardo ad un grosso pannello dipinto e gli accenti mozartiani di un Minnesänger tedesco (per Benito è uscito fresco fresco dai cori della Cappella Sistina; lui abituato al Carlin, alla voce roca e al buon vino delle sue valli, di Re, di Meis, di Santa Maria Maggiore), tutto questo fino alle 22, finché poi ci siamo riuniti tutti quanti in una sorta di Salone degli Specchi, al Prairie, per la "soirée récréative", per molti sera d'addio. Per Ferenc e per Franciska, per il mio amico Delgado che ha sfoderato le ultime due bottiglie di Pinot nero e poi è quasi scappato via! Si è continuato con musica, canti e danze fino alle due di notte. Ultimi fuochi.
Gli Incontri volgono al termine, caro Aldo, fra cinque minuti prendiamo il bus per una escursione culturale nel Valais; sui passi di Rainer-Maria RiIke, per la precisione. Ultima giornata. Ciao.

lunedì 15 settembre, ore 23,30

Caro Aldo, hanno un senso tanti acchiappanuvole per le strade di Yverdon? Oppure ne avevano uno oggi a spasso per tutto il Valais, magari davanti al sindaco di turno che faceva il discorsetto? Penso di sì. A parte il turismo culturale, i poeti, i buoni poeti, celebrano sempre qualcosa, hanno sempre qualcosa da cui rifarsi (ne accennava anche il buon Montale, durante una intervista, con parole chiare e certo meno carezzose del suoi versi), qualcosa in perdita che non ha niente a che fare con lo sgomento da vate o il tuffo al cuore romantico ed ebete. Se l'ho già detto, lo ripeto: tutto va giocato nel cuore di un'accesa letterarietà (lasciandosi dietro i poeti domenicali, o quelli col copino bianco o rosso, più intriganti) dove il cercarsi (e quindi il trovarsi) deve necessariamente essere lucido, poderoso, ribaldo e anche un po' aristocratico.
Guarda che non sono nero. Assolutamente. Oggi è andato tutto bene. Siamo partiti alle 8,30 con un autobus strapieno di conforti. Tschumi è al microfono, fa la guida (fa di tutto veramente). La vista è la solita: vacche che ruminano in verticale sui costoni, il solito verde immenso, brevi o non brevi gallerie, amore continuo per la geometria, vigneti che, come dice Tschumi, devono esser protetti da uccelli, poeti e altri vagabondi; qualche burrone (e c'è sempre una fitta nebbia); ci metto anche la storia del sangue della Madonna di Re che Benito, accanto a me, mi racconta; montagne che salgono e scendono in forme varie (tutto è, ancora una volta, come quelle montagne e quelle casette che ti ho detto disegnavamo a scuola); il dorato gioco del sole (si rivede, finalmente) su sconnessi lastroni; una piccola cascata col suo magico bianco in un mare di verde; varietà di pini sulle montagne (non il sughero diffuso della Sardegna); un angolo che la guida (è cambiata, è un certo Caruzzo, scrittore) dice 'mediterraneo' (dopo Sion, prima di Sierre) per flora ma anche per la presenza delle cicale, se ho capito bene; caffè e hotels dai nomi fantastici. E poi paesi e cittadine: Montreux, Losanna sulla destra, St. Maurice, passi e cascate, Martigny, Riddes, Sion, Sierre.
Fermiamo a Rarogne. Ristorante Rilke, naturalmente (oggi siamo tutti per Rilke). Poi una bella salita, a piedi, fino alla tomba e alla chiesa del poeta. Sulla tomba: tanti poeti per una devozione che francamente mi pare esagerata, cioè, sono le devozioni in genere un po' esagerate... Guillevic è rimasto un minuto assorto (scatti continui di foto), poi una storia di Rilke e delle sue abitudini e del suo paese, letta in tedesco, francese e inglese, che francamente non ci interessa. Ancora foto. Tutti gli italiani qui, oh isolate quei due e il loro flirt, oh mon ami, ici e altre scemenze di cui nemmeno i poeti sanno fare a meno (Mateya èsempre impacciato, ma sorride oggi).
Ecco, Aldo, se non esagero, vorrei dirti anche della chiesa. Una bella chiesetta. Un altare bronzato, con giallo di fondo, come una icona, qualche colonna barocca, delle finestrelle che concentrano la luce, e su tutto pace e silenzio.
Sulla parte sinistra, entrando, c'è un grande affresco, una sorta di giudizio universale, una massa di uomini e di donne, quasi tutte gravide o dal vecchio ventre, delle buche da inferno dantesco in cui vengono ricacciati dannati da una sorta di Cerbero teutonico, e vilipesi e battuti e martoriati da mostri stranissimi (ho rivisto Pargö), e immancabili trombe e spade, carri di dannati in penitenza, e poi fiamme che avvolgono e irridono poveri diavoli: tutto e tutti rivolti verso una gigantesca figura, sembra San Pietro, che apre le porte di una città felice; sopra, fra le nuvole, dei vecchi saggi con barba e anche qui qualche mostro, una banda di mostri adorati, tamburi, trombe, vessilli, ecc. E' una storia ben costruita (per un attimo ho pensato al nostro mosaico otrantino) con figure molto nette, ben fatte, qualche scritta per me incomprensibile; insomma un posto dove sicuramente Rainer-Maria stordiva i suoi affanni, le sue ossessioni.
Si arriva a Sierre. Le montagne in paese arrivano fino al cielo, oppure minacciano il paese, o lo proteggono, comunque sono presenze scure, mentre Roseline è triste, Delgrado è partito e Kostas sta sempre a sfottere.
Andiamo a mangiare la "raclette" au Chateau de Villa Sierre. Buona la raclette! Una forma del formaggio buono di questi posti, messa sul fuoco e tolta al punto giusto. Bene, la raclette è il ricavato di un coltello che passa rapidamente sulla superficie del formaggio; si accompagna con patate intere bollite e con un buon rosso. Allegria. C'è allegria anche in chi ci serve il tutto (invitano continuamente a mangiare e a bere), tra di loro una signora di Cremona che mi privilegia nei piatti e nel caffè "italiano" che mi porta.
Per ordine di Tschumi mi avvicino al tavolo degli inglesi (sempre un po' apportati), a provocare brindisi: ci riesco bene, in questo almeno ci so fare; poi quando ho provato con la Regina, loro, in coro, hanno gridato "Repubblica!!! ".
Scambio qualche parola con John Fuller (povero Delgado!) e sono alla settima razione di raclette, i bicchieri non si contano, quando chiedo a Boris il Macedone di parlarmi di Alessandro e della sua ascensione; mi risponde qualcosa su Pindaro, su Pindaro e le capre. Boh!
Dopo una visita agli autografi di Rilke in un museo di Sierre, partiamo per Sion. Tiro fuori dalla mia borsa il numero di dicembre '85 di "Sud/Puglia" che avevo portato per Roger-Luis (me ne riparlerà a sera, complimentandosi e chiedendomi qualcosa sulla rivista). Visita alla "Cave Gay", altri biccheri di bianco e Guillevic che tolti gli occhiali e spalancati gli occhi mima il diavolo. Qualcuno se ne va: Benito, più tardi Boris. Dopo, ancora da mangiare, al ristorante del marito di Roseline; siamo in pochi ormai, scambi di dediche e indirizzi, Mateya, Guillevic, Jean Ber, Gaucheron, mentre lo "zingaro" si aggira come irritato. Canti o profumi o senso del distacco ci hanno riportato mezz'ora fa a Yverdon.

Yverdon, martedì 76 settembre, ore 10

Caro Aldo,
cara "Sud-Puglia", è con un detto macedone (l'ho sentito da Boris, ma poteva benissimo uscire dalla bocca di Delgado o dal fondo delle valli di Benito), riadattato a questa nostra situazione, che apro quest'ultima lettera da Yverdon: I poeti sono uomini che sanno dove sono le capre d'inverno!
Ma dove vanno a cacciarsi le capre d'inverno? Credo, nelle metafore, nei calembour, nei piaceri radicali, nel crescere dei significati, fra i demoni dell'irrazionale, negli occhi spalancati dal sogno, nei buoni versi che riscattano da ogni deficienza, nell'ironia, nel postiche... (mentre noi un po' qui fingiamo, come sempre; con canti e risa e lazzi cerchiamo, al solito, di nascondere ognuno il suo inferno)... Equi mi fermo, caro Aldo; le burle, le bevute, le malinconie, l'impegno, le amarezze di sessanta poeti giunti qui ad Yverdon da tutto il mondo viaggiano sulla Nave delle "Rogazioni" brechtiane, un tempo veloce, ribelle, sicura, oggi gonfia e greve, preda delle acque dove sprofonda "senza rancore", forse senza nessuna ragione...
Ieri sera, appena sceso dall'autobus, sono scappato via nel mio albergo senza salutare nessuno, e stamattina è un po' tardi... Lascerò un biglietto a Lucette e Roger-Luis Junod, davvero gentilissimi (con saluti a Jean Ber che ho scoperto simpatico; con propositi di lavoro, di sviluppo ... ), farò qualche compera, arriverò a Neuchâtel a salutare il mio amico Horia, a conoscere suo figlio Jean-Jacques; non passerò da Martigny a vedere le opere di questo altro poeta del filo di ferro (l'altro maestro è Leandro), del sognatore delle figure-grissino, disperato e audace Giacometti. Prenderò dopo per Losanna, Milano (dentro avrò sempre quella luce, quella che "forma le forme") e, costeggiando la Val D'Ossola, mi allungherò anch'io come lungo fiume, come treno scuro, di quelli che poi da Lecce ripartono (ripartono ancora, Aldo) "via Foggia-Bologna, proseguimento per Chiasso e Dusseldorf". Ci sarà da aspettar la neve, da gustare gli sventurati (una perla della nostra cucina contadina) che la madre avrò già sul fuoco... Un altro mondo! Ciao.


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