§ LA CAMPAGNA ESCLUSA

E il Santo sfila con i serpenti al collo




Alfonso Maria Di Noia



Un calendimaggio piovoso e bizzarro, quest'anno, in Abruzzo. Una folla sterminata di abruzzesi, marchigiani, ciociari è ancora una volta salita al monte di Cocullo, il paese dei serpenti, crocefisso alla roccia fra le terre dei Marsi e quelle dei Peligni, tra il Fucino e Sulmona. E li, nei vicoli e nelle piazzette, nei quali segni architettonici di antico fulgore medievale si contaminano con le costruzioni antisismiche, pur esse ricondotte a dignità umana dalla cura paziente degli abitanti, i serpenti, quest'anno, erano oltre centocinquanta: opulente bisce innocue, lunghe, in alcuni esemplari, fino a un metro e venti centimetri , corpose, appena sveglie dal letargo invernale, verdi o nere, lucide e iridate nelle loro squame sontuose, con occhi vivaci e con la lingua forcuta in cerca di preda animale.
In mezzo a queste valli, un rito arcaico ci trasferisce verso la storia delle popolazioni italiche (a qualche miglio da Cocullo, i resti di Corfinio testimoniano la resistenza eroica degli Italici contro Roma), e insieme acquista suoi precisi significati attuali.
Le fonti classiche, i versi di Virgilio, le puntuali osservazioni di Plinio, le notazioni degli scrittori greci e latini tardo-antichi registrano l'attitudine misteriosa delle etnie marse a trattare immunemente le serpi velenose: circolavano gli incantatori marsi per le vie di Roma a vendere la teriaca, un medicamento universale nel quale erano magistralmente dissolte teste di vipere, e, ridotto ad una innocua panacea di erbe, ancora lo si prepara nell'antica farmacia di Santa Maria della Scala, in Trastevere.
Curavano, i marsi emigrati a Roma fra il primo e il secondo secolo, avvelenamenti da morso ofidico, e pretendevano di possedere il potere di incantare le serpi, maneggiandole e attraendole con formule e canti. Nei primi secoli del Medioevo, quando l'ethnos italico è del tutto sparito, i marsi riappaiono come nome di mestiere, quello dei dominatori e incantatori di serpi. Le truci storie delle Passiones e degli Acta dei martiri ricordano spesso il "marso" convocato dagli imperatori e dai magistrati persecutori per sottoporre il martire cristiano alla prova delle serpi.
Ritroviamo questi serpari molto tardi, in Sicilia e in tutte le terre meridionali, hanno un nome degradato nella valutazione lessicale corrente e, invece, ascrivibile a nobili origini bizantine: sono i "ciaralli", i "ciaravalli", i "cerauli", presenti fino nella Francia meridionale come- "charaud", sempre trascrizione di un tardo-greco, keraulos, che significa suonatori di quel corno con il quale le serpi erano dominate e assoggettate all'uomo, da noi come in India.
A Cocullo, in una strana condizione di motivi storici, la tradizione marsa dei signori degli ofidi si fonde, intorno al quattordicesimo secolo, con il culto di un Santo, Domenico di Foligno, un benedettino peregrinante giunto nel cuore dell'Abruzzo intorno all'undicesimo secolo.
Esce, questo Santo, processionalmente, dalla sua chiesa cocullese, circondato da bisce vive che strisciano lungo il suo petto e il suo volto, e la folla degli umili compie cerimonie apparentemente primordiali. Questi contadini del Sud suonano, nella chiesa, una campanella, tirando la fune con i denti per preservarsi contro le odontalgie e raccolgono la t'erra conservata nella chiesa per spargerla sui loro campi contro le serpi e i bruchi. E tutto è scandalosamente dominato, nell'incerto sole del giorno dei serpari, dalla "rapina" antropologica: passano i contadini sotto la scandalosa vivisezione delle televisioni, dalla BBC a quelle del Belgio, della Svezia, della Francia, e nei Paesi distanti tutto si ridurrà ad un esempio di emarginante residua barbarie italiana.
Eppure, queste cerimonialità hanno un loro significato, e forse lo hanno fissato, nell'esempiarità filologica, molte ricerche italiane e straniere, e soprattutto i notevoli impegni creativi del giovane sindaco di Cocullo e le ricerche dell'Università di Leida e i seminari di studio che, all'Università degli anziani di Chieti, ha promosso esemplarmente la sociologa lenco-Spedicato. In sostanza, gli eventi cocullesi rivelano tuttora una circolazione europea di motivi culturali, se gli stessi serpenti maneggiati si riscontrano nel culto parigino di Saint-Denis o in quello greco di Marcoupolos a Cefalonia o nel rito dei serpenti di San Giacomo di Compostela.
Ma ci si è chiesti che cosa possano significare queste persistenze storiche in una società tutta tesa verso i modelli post-industriali. Qui a Cocullo ho incontrato gente (giovani, studenti) che ha sopportato duemila chilometri per venire dalla Germania o dalla Svizzera a celebrare il Santo delle serpi. A voler soltanto segnare una nota di un problema antropologico molto più basso, il rito ofidico di Cocullo si ricostituisce come un tentativo di resistenza contadina contro gli appiattimenti del modello attuale, un itinerario verso le proprie radici in una civiltà che tende a distruggere le individualità etniche e le storie culturali. E lo ha ben compreso l'amministrazione di qui, un paese di poche centinaia di anime, che, combattendo contro le violenze del potere, ha creato borse per tesi di lauree, affinché si chiarisca un aspetto per me importante degli usi locali: che quanto può apparire peregrino consolidamento in immemoriali cristallizzazioni si trasforma in testimonianza di una situazione presente e pregnante.

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