§ IL CORSIVO

Tramonto dei mostri sacri




Ferdinando Camon



In pochi giorni c'è stata sulla stampa una fioritura di revisioni critiche che hanno bruscamente ridimensionato alcuni dei massimi geni letterari del secolo. La sovietica Cecilia Kin, grande esperta di letteratura italiana, ha scritto che gli ultimi libri di Moravia l'hanno parecchio delusa: li ha trovati freddi e meccanici, cioè nient'affatto nuovi, perché composti con la stessa miscela che Moravia adopera ormai da decenni. Quand'è morto Calvino, in Italia c'è stato un tal coro di elogi da tutta la stampa da far credere che la critica avesse abdicato al proprio compito, ma con una vistosa eccezione: un critico che lo stesso Calvino stimava scrisse: A morto il maggiore del minori del '900".
Su Sartre è scoppiato un anno fa una polemica che si è riflessa anche in Italia: dopo la sua morte sono uscite alcune sue opere la cui lettura è doverosa, come la sceneggiatura "Freud" (da noi, Einaudi) e le "Lettere al castoro" (da noi, Garzanti), ma ciascuna di queste opere toglieva qualcosa all'immagine compatta e granitica di Sartre: la sceneggiatura ce lo mostrava parecchio ingenuo in fatto di psicanalisi e un tantino in malafede (quello scrivere per denaro, quel tentare una propria analisi addomesticata), e le "Lettere" ce ne facevano vedere un aspetto che lo diminuisce proprio sul suo terreno, quello del sesso: la tendenza a sottomettere il sesso alla scrittura, a cercare esperienze sessuali per poterne scrivere nelle lettere.
Ma c'è qualcosa di più: di Sartre si è cominciato a discutere anche l'integrità politica. C'è una fetta della Resistenza francese che è stata coinvolta in azioni non propriamente limpide (eliminazioni di propri militanti, soffiate e tradimenti) e in questa fetta si è fatto entrare anche il nome di Sartre.
Borges era già da sempre sottoposto a critiche di questo genere, diciamo politiche; ma continuava ad essere definito "il più grande scrittore vivente". Come se la genialità letteraria fosse una quantità misurabile. Ma nel caso di Borges quella definizione era provvisoria per un'altra ragione: perché nessuno da noi aveva letto le sue opere complete.
Borges ha avuto la disgrazia che le sue opere sono state tradotte in italiano in blocco, In due volumi dei "Meridiani". In chi le lesse con animo sgombro, e senza interessi editoriali, l'impressione fu subito sgradevole: tanta era la letterarietà, la retoricità, la bibliotecarietà dei suoi racconti. Dirlo subito, un anno fa, era forse rischioso: io l'ho tentato sulla "Stampa", ma non ho fatto altro che ferire i borgesiani più tenaci, che hanno per Borges un vero e proprio culto. Giovanni Raboni lo ha ritentato quest'anno dall'"Europeo": e l'udienza è stata più disposta a lasciarsi convincere, ormai la breccia era aperta.
Stessa sorte, ma un po' più lento, sta avendo adesso Garcìa Màrquez: era appena uscito "L'amore al tempo del colera", e di fronte alla ridondanza sentimentalistica di certe pagine, e all'ovvietà dell'impianto, più di un critico si èdomandato se, con García Màrquez, non abbiamo preso un abbaglio.
Qualcuno - ma perché così tardi? - confessa di non essere mai riuscito a finire "Cent'anni di solitudine". Una volta avviata sulla strada delle grandi revisioni, o della revisione dei grandi, la critica pare intenzionata a non fermarsi tanto presto.
E Montale è su quella strada. A dire il vero, c'è sempre stato qualche critico (Fortini, per esempio) che ha continuato a sottolineare certe sfasature nella poesia di Montale, certi conservatorismi, certe concezioni" di comodo, quel parlare in termini di un moralismo astratto e astorico, la vita, il male, il dolore... : spia di appartenenza alla frangia colta ma coinvolta e infine retriva della borghesia europea.
Di recente, Raboni (ancora sull'" Europeo") si è chiesto se non sia stato un errore coltivare tanto Montale a scapito, per esempio, di Rebora. Accanto a Rebora, cominciano a rispuntare i nomi di Sbarbaro e Caproni. La grande triade Ungaretti-Montale-Quasimodo, che sembrava costituire l'asse attorno al quale doveva ruotare tutto il '900, appare sempre più una costruzione artificiosa, coniata probabilmente sul modello della triade ottocentesca Carducci-Pascoli-D'Annunzio: è altrettanto deleteria.
C'è questa fioritura di ridimensionamenti critici, dunque, sulla stampa, che ogni settimana riguarda qualche nuovo nome. E' un fenomeno che ha assunto ormai le proporzioni di una revisione generale, di una riscrittura della storia letteraria del secolo. Ormai è Impossibile non domandarsi che cosa significhi.
Credo che anzitutto significhi che il nuovo tempo - il dopogiovanilismo, dopofemminismo, doporivoluzionarismo, dopocapitalismo ristretto, dopomarxismo diffuso - non si riconosce più come figlio di quei padri. La loro paternità è, diciamo così, scaduto.
Il futuro che loro sognavano non è questo tempo, né quello che si prepara: non c'è. Né il futuro europeo di Sartre, né il futuro sudamericano di Màrquez, né il futuro italiano di Moravia. Né, tantomeno, il futuro argentino di Borges. E il mondo "invisibile" di Calvino appare ormai una fuga o un alibi. Il freudismo di Moravia è una costruzione, una nozione culturale, slegato da ogni esperienza pratica. Al contrario, gli scrittori di oggi hanno spesso una esperienza vissuta dell'analisi - magari selvaggia - mentre non ne hanno una conoscenza testuale. E i giovani poeti prendono dalla strada, dal film, dalla canzone, dal disco; non dai classici o dai filosofi, come Montale. Davvero, la nuova epoca si è ormai stabilizzata, e presto dovrò nominarsi nuovi padri: intanto comincia col ripudiare i vecchi.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000