Da
"Tre operai" di Carlo Bernari e da "Tuta blu" di
Tommaso Di Ciaula sono passati, rispettivamente, cinquantadue e otto
anni. Due scrittori meridionali, diversamente motivati, ma con una stessa
lacerante responsabilità: l'aver aperto e chiuso, forse definitivamente,
un'epoca e, con questa, un modo di intendere la letteratura e i suoi
personaggi.
Quando apparve, nel 1934, nel dilagante consenso degli intellettuali
al fascismo (con sparute voci dissidenti, tra le quali il Silone di
"Fontamara", ma dall'estero), il romanzo di Bernari fu una
provocatoria anticipazione. Per la prima volta, centro corrosivo del
romanzo era la classe operaia, con i sogni infranti, disillusa dal Ventennio
e svuotata persino dell'ultimo ideale del 'virile' massimalista. I problemi
del proletariato industriale erano ben altri. Scriveva Bernari, lanciando
la prima pietra nello stagno: "Teodoro guarda quelle cose svogliato.
Si aspettava di entrare in una vera fabbrica con un complesso macchinario,
invece si trova in un ambiente stretto, macchine panciute e primitive,
che hanno nomi goffi ( ... ), nulla che faccia pensare all'industria,
alla grande industria che lui sognava abbandonando la scuola".
La grande industria: sarà questo il mito da rincorrere, cullare,
vezzeggiare durante tutto il periodo della ricostruzione e del primo
boom economico, anche quando si manifestano i segni di un progressivo
rigetto all'interno della logica industriale. Quarantaquattro anni dopo,
dalla campagna pugliese sconvolta da nude ciminiere, gibbosa e ricca
di terre (senza più, però, braccia contadine), Di Ciaula
avrebbe risposto nel dialetto duro e asciutto dell'operaio -scrittore:
"Ma è tutto una illusione: molte di queste fabbriche chiudono,
dopo un po' di tempo riaprono, riaprono magari più avanti, in
un'altra zona, ma riaprono, poi richiudono ( ... ). Ci troviamo qui
che non sappiamo più che cosa siamo: uomini-macchine, semi-uomini,
semi-macchine, il paese che non sa di niente, distrutto, gli uomini
che si arrabbiano, che mordono. Le ultime vacche sono inseguite da ragazzi
scarmigliati a calci e a pietre". Scomparsi, con la ciminiera,
anche l'identità territoriale e i referenti storici.
Che cosa è successo, in questi 44 anni, nella classe operaia
(ri)scoperta da Bernari e poi affossata dal metalmeccanico pugliese?
E perché i due romanzi sono stati rimossi, quasi con fastidio,
come un corpo estraneo, persino dalla coscienza storica e dalla storiografia
dei partiti di massa?
Sono forse questi gli interrogativi più importanti non emersi
nel corso del Convegno su "Letteratura nel mondo industriale e
post-industriale: civiltà o macchina?", organizzato nell'ambito
della sesta edizione del Premio internazionale di narrativa "Grinzane
Cavour", nelle Langhe piemontesi. Non emersi, perché l'introspezione
non è andata oltre il triangolo industriale Torino-Genova-Milano,
e perché un peso decisivo, vincolante, è stato assegnato
all'esperienza olivettiana, in camice bianco, di Volponi e di Ottieri,
senza una disgressione - vincolante e "compromettente" - sulle
voci della narrativa meridionale che si sono scontrate con il manicheismo
logoro e facile di un Nord industrializzato contrapposto al Sud arretrato
e, per questo, grigio, incolore, amorale. Non una parola su Brancati,
Vittorini, Scotellaro, Fiore (e dov'è finito "Un popolo
di formiche"?), Lussu, Padula, Rea, Incoronati, Carrieri, Sciascia...
Silenzio assoluto sull'opera di Silone, mentre il referente, il punto
di partenza, in falso piano, è sempre il "Metello"
di Vasco Pratolini. Nessuna indiscrezione sulla carne umana - meridionale
- stipata nei treni della disperazione (della "speranza",
per gentile e delicata concessione) e scaricata nelle città ad
ingrossare le catene di montaggio e gli 'slums' fatiscenti di periferia.
Non erano operai anche loro? O detta ancora legge l'esperienza di "Menabò"
e del "Politecnico" che decretarono distanze siderali tra
la cultura operaistica settentrionale e quella meridionale?
Riaffiorare si è visto, invece, un senso di colpa (e di disorientamento)
da un castello di cristallo che, iper-industrializzato, si voleva perfetto,
autosufficiente, completo nelle sue manifestazioni letterarie e nelle
stesse trasposizioni antropologiche. Dice Gianni Merlini, Confindustria:
"Se per l'impresa moderna l'immagine più ricorrente si è
consolidata nel ricorso esasperato e spasmodico all'automazione, alla
meccanizzazione, alla computerizzazione, non deve sfuggire che l'impresa
richiede a coloro che sono in essa coinvolti un allargamento delle basi
conoscitive e della partecipazione, che non si esaurisce nel rapporto
di costoro con le strutture di impresa, ma si dilata a divenire sistema
di vita". Cioè, di fronte alle trasformazioni dell'impresa,
è obbligatorio che l'uomo muti il suo atteggiamento "di
partecipazione": non più tuta blu, ma operaio robotizzato,
al silicio. In altre parole, lavoratore post-moderno. Avverte, a questo
proposito, Domenica De Masi, docente di sociologia all'Università
di Roma: "Ma anche tra quei lavoratori addetti all'industria, molti
svolgono ormai lavori non più industriali, ma di tipo impiegatizio,
che potremmo definire del terziario avanzato o addirittura del quaternario
e quinario". Con queste premesse, ben pochi spazi di manovra rimangono
a una lettura e a una letteratura del mondo industriale. Dei resto,
le stesse caratteristiche del romanzo di fabbrica sono state spazzate
via. Con il tempo, e in nome della "deverticalizzazione" delle
imprese nel territorio, la fabbrica si è trasformata nella sublimazione
dell'universo supermoderno, sofisticato, impersonale. Un punto di arrivo
necessario, quasi fisiologico, anticipato nel 1978 da Tommaso Di Ciaula.
Scrive, in "Tuta blu": "Ma il suo sogno era fare l'operaio.
Tanto fece che riuscì a farsi assumere dall'azienda come manovale
e finalmente si mise la sospirata tuta blu. Finalmente dopo tanta attesa
è stato promosso operaio ( ... ). E' tanto felice, gli ridono
gli occhi, gli sembra di aver toccato il cielo con un dito. lasciamoglielo
credere". Dov'è finito, ora, questo operaio sommerso di
polsini e di camici bianchi?
Intanto, pochi hanno rilevato che, in nome prima della reindustrializzazione,
e poi della cibernetica, la classe operaia è stata buttata alle
ortiche, come un oggetto inservibile svenduto nelle botteghe dei rigattieri.
Così come nessuno, dal 1978 ad oggi, di fronte ad una massiccia
e progressiva disoccupazione industriale, ha riportato la classe operaia
al centro di una nuova indagine letteraria-sociologica. Perché
il modello - utilizzato sull'onda della contestazione giovanile, negli
anni Sessanta, e poi in pieno clima di emergenza terroristica come frangiflutto
alla violenza - è stato gradualmente imbavagliato, annientato
con l'effimero, con il superfluo, e con i modelli importati da oltre
oceano.
Di fronte a questa spersonalizzazione, che è poi incapacità
di gestire politicamente il cambiamento epocale, l'altra faccia della
luna. Anticipa Luciano Gallina: "E se la società stesse
diventando invisibile e incomprensibile più di quanto non lo
sia mai stata? La domanda nasce dalla rapida diffusione di sistemi computerizzati
che si inseriscono, come potenti ed efficaci mediatori, tra la persona
ed altre persone. Con tale mediazione è possibile comunicare,
lavorare e controllare senza muoversi. Ciò comporta che per un
numero crescente di soggetti individuali e collettivi stia diventando
molto difficile costruirsi un'immagine realistica, una mappa mentale
relativamente fedele degli altri soggetti con i quali intrattiene rapporti:
la società telematica, la società del telelavoro, del
telestudio, della telediagnosi, potrebbe così diventare, nell'ottica
del singolo, la società teleassente". E', in pratica, la
scomparsa dell'"homo faber" e del momento di partecipazione
creativa alle cose. Quando si parla del rapporto letteratura-industria,
e si guarda con risentimento a un supposto colpevole immobilismo del
Sud, refrattario a sperimentare le categorie del "nuovo Rinascimento",
bisognerebbe tener conto anche di una tacita ribellione a un mondo che
non si autodetermina più. E il grido, anche se strozzato, si
sente solo da queste parti.
Gli interventi, qui di seguito riportati, di Carlo Bernari, di Tommaso
Di Ciaula, di Maria Corti, di Alfredo Vinciguerra e, infine, di Emanuele
Severino non vogliono avere - e non hanno - il carattere della completezza.
Rappresentano, infatti, solo una parte di quello che si potrebbe dire
e argomentare sul problema della letteratura del mondo industriale e
post-industriale.
Lega idealmente questi "rapporti" dall'interno del sistema
culturale un filo logico che si perfeziona ad ogni passaggio. Se si
vuole, un dialogare a distanza, con la voce che rimbalza libera, senza
i limiti e i freni imposti da una visione troppo settentrionale (o troppo
meridionale) delle cose. Solo commenti, e cronaca del nostri giorni,
e del futuro prossimo venturo.
In Bernari e in Tommaso Di Ciaula emergono gli aspetti inediti della
condizione operaia, all'inizio e alla fine di una parabola durata più
di cinquant'anni. Con Maria Corti, ritorna prepotentemente alla ribalta
l'aspetto negativo delle esperienze declinate solo sul futuribile e
sulla speculazione telematico-scientifica. I modelli sono mutuati dall'America
di "Voci dal Nord Est", dove "nulla appare più
sciocco che la repentina aspirazione a un vivere incondizionato in questo
condizionatissimo mondo", e dove i giovani universitari chiedono
(con un referendum, come prima si rivendicavano le parificazioni salariali
o il diritto allo studio) una pastiglia di cianuro da usare in caso
di conflitto nucleare.
Alfredo Vinciguerra, dal l'osservatorio privilegiato del "Civiltà
post-industriale", parla dell'avvenuta instaurazione meccanicistica
di una società post-moderna, con il riflusso dell'edonismo e
del neocorporativismo.
Chiude, come un corollario, Emanuele Severino, il filosofo che nella
sua opera più recente - l'interpretazione dell'"Orestea"
di Eschilo - ha posto la "TECHNE'", scintilla prometeica e
insieme punizione degli dei, al centro del pensiero occidentale. Dice
Severino: "Il poeta e lo scrittore sono, nonostante tutto, profondamente
legati alla civiltà delle macchine e alla tecnica. L'importante
sarà verificare, domani, quanto lo stesso scrittore e lo stesso
poeta saranno in grado di opporsi alla disumanizzazione della loro cultura".
Che è poi l'interrogativo di fondo in chiusura di millennio.
CARLO BERNARI
"E' dagli anni Sessanta che si dibatte il problema del rapporto
letteratura-industria, con interventi di autorevoli scrittori come
Vittorini, Calvino, Sereni, Fortini. Fra le righe di quella polemica
sembrava di udire ora più flebili, ora più robuste,
esortazioni agli scrittori di saltare i muri di cinta delle fabbriche,
di penetrare nei recinti industriali, mescolarsi alla produzione,
e scrivere i propri testi ispirandosi direttamente alla vita operaia.
Rapporto mondo operaio-cultura: un 'rapporto' non può né
consistere, né fondarsi sopra un solo elemento. Necessita dunque
di due elementi: e se diamo per accettato uno, la cultura, dobbiamo
rintracciare l'altro, che non troveremo certo fra i ritagli di vita
operaia in fabbrica, dove una ottantina di anni fa il dato prevalente
era fornito dalle statistiche degli infortuni (120.000 in un anno).
E neppure nelle ore libere della vita casalinga. In un esauriente
saggio (apparso a gennaio nella Rivista di storia contemporanea) di
Carlo Cartiglia si legge: "Un'inchiesta svolta a Torino nel 1896
indica che la maggioranza delle famiglie proletarie (64%) occupava
due camere, mentre una minoranza (intorno al 36%) stava in una sola
stanza ( ... ). Il tipo di abitazione operaia più comune era
quella ricavato nelle soffitte e nei mezzanini che, nei casi più
favorevoli, guardavano il cortile interno". La situazione abitativa
certamente non era migliore a Napoli o a Palermo, laddove predominava
il 'basso'. In tali condizioni di vita, non è immaginabile
uno spazio dove l'operaio potesse trovare rifugio per dedicarsi, non
si dice alla cultura, ma sia pure ad una amena lettura.
A questo punto è legittimo porsi una domanda: "E la produzione
libraria? E le biblioteche cosiddette popolari ?". Ma, al fondo,
resta l'interrogativo di base su "quanto" e "come"
abbia potuto leggere la classe operaia. Sono ipotesi monche, che andrebbero
per lo meno sostenute con una correlazione tra indici di diffusione
della letteratura popolare e tassi di alfabetizzazione.
Un ricordo personale, dopo le fredde statistiche, può spiegarci
il fenomeno di una stentata crescita in tal senso.
Nel '45, appena finita la guerra, una rivista volle affidare a due
scrittori, considerandoli, forse a torto, tagliati 'ad hoc' per un
simile incarico, di svolgere un'inchiesta fra le classi operaie della
periferia romana.
Uno dei due scrittori fu Vasco Pratolini, l'altro ero io. Ebbene,
la nostra indagine abortì, per i pochi frutti raccolti. Fra
tanto rutilare di nomi e di titoli nella riconquistata libertà,
i dati raccolti sugli indici di lettura furono alquanto sconfortanti:
quel che ci colpì fu l'episodio di una vecchina di più
di ottant'anni; la quale, richiesta se leggeva e cosa leggeva, rispose
che lei aveva sempre e solo letto un unico libro: I reali di Francia,
di Andrea di Barberino. E perché? - ci spingemmo a domandarle:
"Perché me l'ha lasciato mio padre, e perché è
comodo". "Comodo", spiegò poi alla 'nostra domanda,
perché poteva sedercisi sopra, leggendolo. Scoprimmo allora
che doveva trattarsi di fascicoli, sottraendone uno dei quali non
scemava l'altezza della pila che le serviva da sgabello.
L'aneddoto ci riporta alla questione del"rapporto" tra cultura
e mondo operaio: certamente nella prospettiva di tale "rapporto"
vi è stata una crescita dell'elemento più svantaggiato:
l'avanzamento delle scienze, il progresso tecnologico, la diffusione
dei mass-media hanno indubbiamente influito sullo sviluppo del tasso
di civiltà inerente alla coscienza meccanicistica. Chi ricorda
la bella rivista che segnò il trionfo della coscienza tecnologica
di un poeta come Sinisgalli, Civiltà delle macchine, cui molti
di noi, semplici scrittori, non provenienti dai banchi di ingegneria
o di fisica, furono invitati a collaborare, non può esimersi
dal pensare con nostalgia e con speranza a quel "rapporto"
culturale che nelle sue pagine si attuò per molti anni.
E' il caso allora di chiudere il discorso su questo doppio sentimento
nostalgico e speranzoso verso qualcosa che si fece e non si fa più,
e che si agognerebbe rifare? Nient'affatto! Ritengo anzi che all'esortazione
rivolta alla letteratura di farsi interprete del proprio tempo, che
non è più rurale, ma tecnologicoindustriale, debba accompagnarsi
l'esortazione a chi detiene le leve del comando del mondo tecnologicoindustriale
ad elevare il livello culturale delle proprie scelte e ad incrementare
l'ingresso del libro e ad espanderne la diffusione fra le classi subalterne".
TOMMASO DI CIAULA
"Il primo approccio con la 'macchina' fu negli anni '50: era
un vecchio tornio non elettrico, io dovevo girare la manovella, io
ero la forza motrice... e il padrone lavorava! C'eravamo solo noi
due in quella piccola officina, anzi, eravamo in tre: io, il padrone
e sua maestà la macchina, nelle sembianze di un vecchio tornio.
Ogni tanto, dalla strada silenziosa entravano anche le galline, si
facevano una passeggiata tra i nostri piedi e poi se ne andavano "coccoricando"
così come erano entrate!
Mi affezionai alla macchina e ancor più a ciò che usciva
di finito da essa. Da un pezzo arrugginito e sporco di grasso con
l'aiuto della macchina facevo uscire un bel pezzo, tutto lucente,
con tante 'riprese', fori, filettature, parti coniche, ecc. Il pezzo
finito, combinato insieme ad altri pezzi, formava congegni più
complessi e così si formavano altre macchine! Sì, mi
piaceva la macchina! Il pezzo lo facevo tutto io, da cima a fondo:
c'era da piallare e andavo alla piallatrice, c'era da forare e andavo
al trapano, c'era da tornire e andavo al tornio, c'era da rettificare
e andavo alla rettifica...
Alla fine, per far diventare più bello il pezzo, ci passavo
su la tela smeriglio così diventava più lucente, da
sembrare una pietra preziosa! Poi, alla fine, una spruzzata di olio
minerale, così non correva il rischio di arrugginirsi.
Alla fine della giornata, la macchina la pulivo ben bene con degli
stracci vecchi, la strofinava così bene che sembrava quasi
nuova! Mi piacevano le macchine, molto mi piacevano!
Poi iniziai ad odiarle pian piano. Fu quando mi comandarono di fare
sempre lo stesso pezzo! Lo stesso pezzo per ore, giorni, mesi, anni!
Me li portavano in uno scatolo di cartone e mi dicevano:
"Datti da fare, Tommaso; devi fare le smussature a tutte quelle
rondelle! Lì hai il pane per alcuni mesi. Datti da fare! Non
fare quella faccia!".
Così iniziavo ad eseguire il lavoro. Per passare il tempo,
cantavo, cantavo non per allegria, ma per rabbia, come l'uccello in
gabbia, cantavo tra i denti! Cantavo di tutto: canzoni napoletane,
canzoni degli alpini, canzoni dei compagni, anche vecchie canzoni
fasciste cantavo. Tanto, chi mi sentiva, visto che il rumore della
macchina copriva le mie melodie?
Così cominciò ad aumentare l'odio per la macchina. Mi
dicevo: questa rompe proprio! Che soddisfazione quando si rompeva!
Si cominciava a smontarla pezzo pezzo per vedere dove fosse il guasto.
lo mi sedevo su di una pila di barattoli e mi gustavo una sigaretta.
Ma durava poco la pacchia, perché se non trovavano il guasto,
subito subito m'invitavano a passare ad un'altra macchina e con un
lavoro ancora più noioso. Non maledivo più la macchina,
ma pregava perché trovassero subito il guasto!
I giorni di primavera desideravo che me la mettessero all'aperto,
la macchina. Chissà come doveva essere bello lavorare al tornio
all'aperto, in mezzo al canto degli uccelli e al volo delle farfalle.
Oppure, ancora più bello che me la piazzassero in casa, una
bella macchina, e farmeli lì i pezzi, quando ne avevo voglia,
e ogni tanto stare con la mia famiglia, giocare con i figli!
Invece no! La macchina doveva stare lì, nel capannone di lamiere
inchiodate con la sputazza, una dietro l'altra, e tutte insieme dovevano
fare un tale rumore che non potevi nemmeno parlare con il compagno
che ti lavorava vicino, alla macchina a fianco.
La soddisfazione più grande era quando arrivavano barre lunghissime
da tornire. Così mettevo la macchina in automatico, davo la
profondità di passata e l'utensile, intaccando il metallo,
portava a misura il pezzo. La 'passata', secondo la lunghezza del
pezzo, durava dieci-quindici minuti e così ti potevi stare
bello in pace, magari a leggerti una bella rivista porno. Volevo molto
bene alla mia macchina. Tanto bene! Adesso, non gliene voglio più".
MARIA CORTI
"Io credo che civiltà e macchina sia preferibile al bipolarismo
civiltà o macchina. Penso che sia realizzabile, nel futuro,
il formarsi di una nuova cultura in rapporto a una realtà tecnologica
più avanzata di quella attuale. Viviamo un momento di passaggio
da una struttura, in fondo abbastanza arcaica, soprattutto in Italia,
a una struttura più sviluppata, come negli Stati Uniti, e che
da noi ci sarà tra qualche anno.
Il problema, a mio vedere, è un altro: è un problema
di ordine spirituale, che gli scrittori, i filosofi, i pensatori dovrebbero
avere sempre presente: il problema che rimanga lo spirito critico,
che la mente non si standardizzi, e che non si arrivi, attraverso
l'uso delle macchine, del computer, a una impossibilità di
comunicare con gli altri uomini, salvo attraverso il congegno meccanicistico.
Quindi, a una forma di solitudine.
Si parla, a questo proposito, di "rapporto invisibile".
lo, questo rapporto, l'ho visto bene in atto negli States. Cosa comporta
questo rapporto? Che lei riceve le sue comunicazioni dal computer:
però, nell'atto di riceverle, non ottiene risposte alle sue
domande, come succederebbe in una cultura dove fossero "visibili"
i mittenti e i destinatari. Cioè, i I messaggio è sempre
a direzione unica, e questo crea solitudine. Lei dispone del computer
e riceve dei dati, li elabora da solo, poi li passa ad una macchina
che provvederà, successivamente, a trasmetterli ad un'altra
persona: ma il rapporto è già invisibile. E questo succede
già. Negli Stati Uniti, i professori universitari, tramite
il terminai di un computer, trasmettono un articolo, una relazione,
al collega di un'altra università, ancorché non lontana.
Nello stesso modo riceverò indietro il suo articolo, la sua
relazione, con le eventuali osservazioni del suo interlocutore.
Non c'è più il rapporto fisico, sparito il rapporto
epistolare. La comunicazione esiste sempre, ma il rapporto è"invisibile".
Il rapporto ha luogo solo attraverso la macchina, e si crea una sorta
di solitudine umana. Questo potrà portare a delle gravi conseguenze
in futuro, se non si rimedia. Bisognerà forse - come èstato
da più parti rilevato - cercare nuove forme di incontro, di
'meeting'. Trovare, cioè, un altro modo di colloquio o, se
vuole, di contatto tra le persone. Il che significa ricreare non solo
il concetto di socialità ma anche quello del rapporto con la
natura. Ho avuto, sempre in America, un'esperienza a dir poco curiosa;
in ogni caso, indicativa. Nell'università dove insegnavo, c'era
un professore di botanica, specializzato in fisiologia vegetale. Gli
dissi, ingenuamente: Con tutti quei boschi disseminati qui intorno,
lei potrò condurre tutti gli esperimenti che desidera. 'Ma
io non ho bisogno - rispose - di andare nel bosco. Anzi, non ci vado
mai perché con il computer ho tutta la documentazione che mi
serve, e il verde è stato riprodotto in laboratorio. In pratica,
era stato ricreato un ambiente naturale con l'ausilio di un computer
e delle videocassette. Una figura ben lontana dal botanico del passato
che, studiando dal vero, aveva un rapporto di socialità con
l'ambiente naturale, quel rapporto "umano" del quale parla
Leopardi.
Intendiamoci: non dico che la macchina sia, in questo caso, inutile.
Pensiamo all'importanza di raccogliere tutti i dati relativi alle
piante e di metterli a disposizione del botanici. Dico solo che questa
possibilità deve essere accompagnata dalla coscienza che bisogna
restare uomini.
il dramma dello scrittore, in uno scenario di questo tipo, sta in
una particolare attenzione proprio a quei valori che sono anti-macchina:
la natura, il rapporto spontaneo, psicologico, con gli individui,
la sua stesso realtà di "animale terrestre". E la
funzione dello scrittore, di' fronte alla tecnologia, non è
tanto di avere "fiuto" quanto di opporre resistenza: ma
non una resistenza - rifiuto; ma una resistenza di riequilibrio, di
riappropriazione".
ALFREDO VINCIGUERRA
Al rischio, per tutti noi, è di diventare oggetti dello sviluppo
invece di esserne i soggetti e i protagonisti: e ciò, paradossalmente,
proprio nel momento in cui, nella società industriale avanzata,
più ampi e aperti sono i confini della democrazia e della libertà,
a seguito del grande e diffuso affermarsi della terza rivoluzione
industriale.
Il rischio è cioè, di svegliarsi una mattina e trovarsi
in una società che, avendo riscritto nel corso di una lunga
notte i suoi codici di comportamento sul parametro di un consumismo
vorace, imperniato su un meccanicismo senza freni, sul benessere materiale
come unica pagella della vita, come destino e non come condizione,
si trovi ad essere, a tutti gli effetti, una società post-umanista.
Dunque, il primo compito della politica e della cultura non può
non essere quello di avvicinare il più possibile e il meglio
possibile la civiltà dell'industria e la civiltà e le
ragioni dell'uomo, accennando con chiara razionalità, il dato
di fatto che oggi i destini dell'uomo e della industria - e dopo Chernobyl
è ancora più ovvio e facile constatarlo - sono sempre
più fusi in un'unica condizione e in un'unica sorte. A me sembra
di poter sintetizzare - nonostante antiche e nuove delusioni - i modi
di raggiungere questo obiettivo in un concetto che ancora oggi sta
al centro di ogni possibile cultura umanistica della politica. Il
concetto è quello che io chiamerei di partecipazione riformatrice,
nutrita di spirito critico.
La partecipazione vive oggi sul crinale di due scivolosi versanti:
da un lato c'è l'occasione prossima ventura della cosiddetta
"democrazia elettronica", che nell'imminente futuro consentirò
probabilmente a milioni di cittadini di esprimere ogni giorno e di
comunicare in tempo reale la loro opinione sui più diversi
problemi. Senza sconfinare nell'utopia, possiamo ritenere che in quel
momento la democrazia potrebbe raggiungere la sua forma più
perfetta.
Ma come sottovalutare il rischio che chi detiene il potere di informare,
proprio avvalendosi degli strumenti della democrazia elettronica,
possa orientare preventivamente le coscienze e le intelligenze, fino
al punto di rendere completamente vana la capacità di espressione
e di giudizio del cittadini, resa teoricamente formidabile dalle nuove
tecnologie? La democrazia elettronica, in questa ipotesi, invece di
coincidere con il massimo della democrazia, potrebbe tradursi nel
massimo dell'oscurantismo.
Sull'altro versante, sono proprio i connotati edonistici e neocorporativi
dell'attuale modello di vita che inducono a rifugiarsi nel privato
e a perdere il gusto e il desiderio di animare ciò che è
pubblico; e ne abbiamo pesanti conferme nella caduta di consenso e
di presenza intorno alla vita politica e alla vita delle grandi agenzie
formative e sociali, come la scuola e gli altri organi rappresentativi
a livello territoriale e locale.
Ora, il rilancio di una cultura della partecipazione critica, creativa,
è l'unico antidoto possibile ed efficace contro questi due
rischi, in quanto solo tale cultura promuove il riappropriarsi, da
parte della comunità civile, degli spazi in cui si decide il
destino di ciascuno e di tutti; solo tale cultura sollecita le istituzioni
ad ascoltare la voce di ciò che emerge o si muove confusamente,
alla ricerca di una identità, sotto la superficie della vita
collettiva; solo tale cultura riempie giornalmente la politica di
nuovi contenuti e la legittima animandola costantemente con le volontà
dei soggetti della democrazia, cioè le persone ".
EMANUELE SEVERINO
Prof. Severino, dicendo che la letteratura deve protestare contro
il mondo economico, lei ha sostanzialmente fatto coincidere la distruzione
con la creatività. Gli spazi sono, dunque, così minimi?
"Sì. Noi siamo abituati ad esaltare il concetto di creatività,
senza tener conto che la creatività è sempre costitutivamente
una distruzione. Quando si produce una casa, si distrugge un prato
o un bosco. Allora, si tratta di vedere se il concetto di produzione,
che apporti qualcosa di positivo, sia isolabile dalla negatività,
o dalla distruzione che è connessa con il concetto di produzione.
Si tratta di scendere al pensiero di fondo della nostra civiltà,
che i Greci hanno portato alla luce, cioè la fede che le cose
del mondo siano dominabili, manipolabili, producibili, distruggibili,
organizzabili. Non si riflette mai che sola se c'è questa fede
nella dominabílità delle cose - fede nell'esistenza
del divenire delle cose -può sorgere ogni forma di volontà
di dominio. Perché se io fossi convinto che tutte le cose sono
radicate nel terreno con rodici che non possono essere assolutamente
divelte, non mi sognerei di aggredirle, per trasformarle secondo i
miei progetti. Così come, per ora (ma ancora per poco), non
ci sogniamo di aggredire il sole: lo consideriamo qualcosa di fisso,
immutabile, nella sua natura. Ma può anche darsi - un domani
- che la scienza (che ormai procede a incrementi geometrici) arrivi
a un controllo dell'energia solare ben diverso do quello attuale;
arrivi, cioè, ad un'aggressione, a un controllo della fonte
solare. Questo cosa vuole dire?
Che un grande modo di pensare sta alla radice di ogni forma di dominio.
Però, nella cultura contemporanea, c'è anche quel settore
che, quando si parla di volontà di dominio, subito si strappa
le vesti, perché identifica la volontà di dominio con
qualcosa di cattivo. Invece, data la situazione in cui si trova la
nostra cultura, in base a che cosa si può parlare di aspetto
negativo, erroneo, malvagio, della volontà di dominio, quando
le categorie in base alle quali potremmo operare queste condanne sono
incriminate da quella stessa cultura che opera queste condanne? Abbiamo
questo aspetto patetico della nostra cultura. Per cui da un lato dice:
"lo non voglio avere a che fare con la verità definitiva,
che oltre ad essere un errore è anche immorale, però
voglio salvare l'uomo, la dignità umana, le cose nobili, i
valori". Questa volontà di salvezza della dignità,
della nobiltà, della libertà dell'uomo, da parte di
questa cultura che ha lasciato da parte ogni forma di verità
definitiva, è d'accapo una forma di volontà di potenza,
perché la volontà di salvare l'uomo è ciò
che di più raro c'è stato nella storia dell'uomo.
Gli uomini hanno sempre tentato di eliminare quella massa umana che
impediva la realizzazione dei progetti dei gruppi umani emergenti
e vincenti. Il grosso problema è qui: noi ci troviamo in una
strettoia culturale, per cui ogni indignazione morale ha lo stesso
vizio del male. che essa vuole condannare".
C'è posto, per lo scrittore, in una morale che si indigna?
In altre parole, qual è il compito dello scrittore, oggi?
"Lo scrittore, così come lo vediamo nella storia, è
proprio uno dei responsabili dell'abolizione di quella volontà
di verità della tradizione occidentale, che potrebbe arginare
la violenza. Quindi, lo scrittore è figlio legittimo della
volontà di verità della tradizione. Ma bisogna aggiungere
anche questo: non è che si debba ritornare alla volontà
di verità della tradizione, perché quella volontà
di verità è la madre legittima della volontà
di distruggere ogni valore definitivo.
E' madre legittima perché è stata proprio la tradizione
- la tradizione filosofica - a inventare quel senso delle cose distruggibili,
cioè divenienti. Allora, la tradizione, la "veneranda"
tradizione dell'Occidente, inventa la belva - cioè il divenire
- che poi vuole in qualche modo controllare. Poi questa belva, inventata
dalla tradizione, infrange le sbarre e, nella civiltà contemporanea,
esibisce i propri diritti. La libertà, come diritto avanzato
dall'uomo, è proprio diretta contro quelle gabbie, quelle strutture
immutabili, che la tradizione dell'Occidente ha edificato per controllare
la belva".
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