§ GLI ANNI '70

Un decennio mancato




Gino Giugni



Penso che la riflessione sugli anni Settanta (anni davvero ruggenti) e sulla loro eredità è destinata a non compiere molti passi avanti se non si distingue tra chi ha attivato il processo di cambiamento, e chi se ne è avvantaggiato. Al che fa seguito, naturalmente, la necessità di interrogarsi sulle ragioni di tale sdoppiamento, d'altronde ben frequente nella storia delle rivoluzioni, ed ancor più in quella delle rivoluzioni mancate (rammento che tempo fa apparve su una rivista la definizione del '70 come "Il decennio mancato": mi parve un'immagine efficace, perché dava il senso di una vicenda che si avvita su se stessa, tornando al punto di partenza).
I protagonisti. In principio, come è noto, furono gli studenti e gli operai "uniti nella lotta". E sarebbe improprio accoglierli sotto l'identità piccolo-borghese. Le analisi sui movimenti che animarono le lotte del periodo (e su di essi c'è ormai una letteratura copiosissima), salvo qualche sbavatura ideologica o polemica, non fanno mai uso della chiave d'interpretazione classista. Gli operai dell'autunno caldo non si mossero per obiettivi consumisti o di sicurezza, o, quanto meno, non solo per essi. E degli studenti, che piccolo-borghesi erano quasi tutti, si potrà dire che non sapevano quel che volevano: ma non che volevano il posto sicuro o la sicurezza parassita. La contestazione mise in discussione il principio di autorità, così come era storicamente colato nei rapporti sociali e in quelli normativi: e doveva trattarsi di strutture ben arcaiche, se essa riuscì ad aver eco.
I beneficiari. A tale proposito, potrei invece condividere gran parte dell'analisi compiuta da Piero Ostellino. Le strutture di autorità, colpite dalla contestazione, si ricomposero in una trasformazione gattopardesca, creandosi una rete di sicurezza attraverso l'offerto a particolari sezioni della società di una tranquilla sopravvivenza nel l'appiattimento dei meriti.
Il fuoco delle lotte operaie si spense nelle ceneri di un sindacalismo di conservazione che, anche se probabilmente oggi ha trovato la forza per affrontare il mutamento, deve pagare ora le conseguenze della lunga stasi nella difesa di rigidità in un'epoca di grandi trasformazioni. Le libertà dello statuto dei lavoratori divennero (anche) tollerate libertà di assenteismo e di doppio lavoro, o inamovibilità per gli eccedentari ed esuberanti, o varchi per forme corporative di sindacalismo, od anche, perché no?, alibi per coprire vuoti di cultura produttiva e manageriale nel mondo delle imprese, specie di quelle pubbliche. le università accolsero a braccia aperte l'immensa popolazione dei precari, si chiusero alle classi giovani, si avviarono verso un oscuro destino di autoriproduzione senescente; ed analogo destino si scelse la scuola.
Alla partenza fu perciò un generoso progetto di società nuova, guidato da soggetti produttivi. Al traguardo, ne risultò una rivoluzione per gli improduttivi, che senza dubbio pesa e peserà sulla nostra storia.
I fattori. Qui l'analisi si complica, perché i fattori di tale sdoppiamento furono senza dubbio molti. Il più determinante mi sembra comunque consistere nella mancata simmetria tra sinistra sociale e sinistra politica. Il decennio Settanta fu dominato dall'egemonia di una sinistra culturale sindacale (aiutato anche da un sensibile disarmo della classe industriale: Lucchini ci ricorda che lui il coraggio l'ha avuto, ma, poiché è ancora nel mondo dei vivi, ciò vuole anche dire che a qualcun altro il coraggio è mancato, e in fondo poteva averlo). Anche le riforme, che non furono poche, ebbero luogo sotto l'impulso di lotte e movimenti sociali. E' la fase che Alberoni definisce laborista. Ma non ebbe luogo alcun mutamento dell'equilibrio politico: nulla di sorprendente, pertanto, se tali riforme presentarono vistosi difetti d'impianto o, quando esse erano buone, si rivelarono carenti gli strumenti per la sperata attuazione. Come può aversi un miglior esito, quando riforma e governo delle riforme sono di fatto delegati alla società civile, ed è invece carente il governo politico? E non è infine la prassi di governo, in questo contesto, che appare impregnata di spirito piccolo-borghese, perché si autoalimenta di forniture elettorali, facendo mercato di promesse di sicurezza?
Le prospettive. Imprese emerse e sommerse (così ritiene De Rita), e sindacati (così riconosce Ostellino) sembra stiano riuscendo a togliersi di dosso il peso delle eredità negative. Ma l'inquinamento dell'apparato pubblico è forse irreparabile, se non a lungo periodo. La rivoluzione (o la trasformazione) sociale non ha generato la rivoluzione (o la trasformazione) politica, ma l'una è condizione di vita dell'altra. De Rita di questo sembra non preoccuparsi, e la sua risposta è perciò ottimista, anzi beatifica. A me sembra invece abbastanza vicina alla verità la definizione degli anni Settanta come del decennio mancato.

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