L'immagine
del Mezzogiorno "a pelle di leopardo", partorita negli anni
'50, era quella di un Sud fatto di contraddizioni, in cui aree sviluppate
(quelle della fascia adriatica) convivevano, in uno strano connubio,
con aree interne depresse. l'immagine, che avrebbe dovuto aprire la
porta a politiche di intervento differenziate, fu invece sfruttata da
correnti antimeridionaliste per negare l'intervento straordinario alle
zone più avanzate e per alimentare comode teorie dello sviluppo
autopropulsivo o autocentrato.
Si negò, allora, la tipicità storico-politica dei problema
meridionale, assimilandolo a quello delle aree depresse nel mondo. Da
quel momento e per quell'errore, molti altri errori furono commessi,
ignorando il persistere di un modello dualistico a cui spontaneismi
e localismi non avrebbero potuto porre. riparo.
Stretto nella morsa di mascherati interessi antimeridionalisti, il Sud
assisté pieno di speranza alla costruzione di enormi impianti
petrolchimici e siderurgici, che avrebbero dovuto dare - così
dicevano - la svolta decisiva all'economia meridionale. E, nel frattempo,
il Nord si ancorava sempre più al mercato; investiva in imprese
dinamiche, pronte ad essere ristrutturate in caso di inversioni di tendenza.
Abbiamo abboccato, illudendoci di poter usufruire di continui approvvigionamenti
di materie prime (petrolio, minerali metallici) e fonti di energia a
basso prezzo. Ma le cose sono andate molto diversamente: dal 1973 l'Opec
ha fatto salire vertiginosamente i prezzi del petrolio greggio, ponendo
fine ai decenni di sfruttamento da parte delle compagnie petrolifere
internazionali. E, da allora, solo quest'anno si è avuta un'inversione
di tendenza. Non solo: ma i paesi dell'Opec hanno deciso di sfruttare
le enormi ricchezze accumulate dalla vendita del greggio per costruire
impianti petroliferi in loco.
Anche i paesi che possiedono i minerali di ferro (di cui siamo grandi
importatori) hanno deciso di produrre acciaio nel loro stesso territorio
o, comunque, di esportare materiale pre-ridotto, con maggiore valore
aggiunto. Tendenza questa che sposta i centri di produzione dell'acciaio
dai paesi industriali ai paesi in via di sviluppo, con produzioni effettuate
in acciaierie di dimensioni limitate rispetto ai nostri grandi centri
siderurgici.
Così oggi, mentre il resto del paese si avvia verso l'era post-industriale,
il Sud deve rivolgersi al terziario per parare lo scotto di una politica
di comodo per le regioni centro-settentrionali. Intanto, puntuali come
sempre, i nostri nuovi "ascari" hanno coniato un altro slogan:
quello del "via con il turismo alternativo per risollevare le sorti
del Sud". Ma alternativo a cosa? Alla ripresa del processo di industrializzazione,
visto che il Nord ha già quello che gli serve? Oppure alla ripresa
del l'agricoltura, visto che potrebbe avvenire solo tramite introduzione
di nuove conoscenze e tecnologie, e quindi con una inevitabile presa
di coscienza, da parte del produttore meridionale, dello stato di inferiorità
in cui è da sempre tenuto? E forse abboccheremo anche questa
volta, abbagliati dal miraggio di un Sud ristrutturato a paradiso terrestre.
E abboccheremo fino a quando non comprenderemo che qualsiasi palliativo
ai gravi problemi del Sud non può prescindere da una logica di
intervento più ampia, che vede il contemporaneo potenziamento
dei settori primari, come uniche vere sorgenti di sviluppo.
Così, al "turismo alternativo" va sostituito il "turismo
complementare". Complementare sia al processo di ristrutturazione
industriale, della cui urgenza tanto si è già parlato
in questa sede; e sia al potenziamento del settore agricolo, che costituisce
un campo ancora tutto da esplorare.
Agricoltura:
settore trainante
Esaminando le prospettive che fornisce il settore agricolo, appare
lampante il suo ruolo strategico nel contesto della ripresa meridionale.
Un ruolo che, di certo, non è circoscritto al Sud, ma che al
Sud trova un terreno ancora vergine su cui operare. A livello nazionale
c'è da dire che la favorevole congiuntura economica non potrà
essere pienamente sfruttata da un paese come il nostro, in cui il
fabbisogno alimentare viene ad essere soddisfatto a mezzo di una eccessiva
dipendenza dall'estero. Infatti, con un'incidenza delle importazioni
agro-alimentari sul complesso dei nostri acquisti pari al 17,6%, l'Italia
si trova a dover spendere all'estero più per approvvigionarsi
di agro-alimentari che non per rifornirsi di prodotti energetici.
La nazione sconta, cioè, l'errore di aver troppo spesso sacrificato
produzioni tipicamente interne in favore di ibridi prodotti all'estero.
Inoltre, il finanziamento degli interventi in campo agricolo, attuato
in gran parte con trasferimenti vincolati dallo Stato alle regioni,
si è tradotto in una politica di mero contenimento della finanza
regionale, che ha penalizzato gli investimenti produttivi soprattutto
delle regioni a statuto ordinario.
L'esigenza di una riqualificazione dell'intervento pubblico in agricoltura
si scontra, poi, con il persistere di una politica regionale miope
e mai strutturata. Compito della politica agraria regionale dovrebbe
essere quello di ricondurre i provvedimenti legislativi nazionali
alle singole realtà regionali, diversificate fra loro per produzione
e domanda. Ma difficilmente questo accade. Prendiamo la legge 153/75:
con questa legge sono state recepite a livello nazionale le direttive
sociostrutturali della Cee relative al 1972. Vari provvedimenti dovevano
essere applicati, in seguito, a livello regionale. Ma sono passati
dieci anni e ancora nessuna delle direttive strutturali previste dalla
legge (e riguardanti il prepensionamento, l'ammodernamento delle imprese,
la creazione di servizi di consulenza socio-economica) è stata
attuata nel meridione. Anche l'applicazione della legge nazionale
sulle terre incolte e malcoltivate si è tradotta in un fallimento.
Esito positivo ha avuto, peraltro, l'attuazione del regolamento Cee
270/79, relativo alla divulgazione agricola in Italia. Si trattava
di un provvedimento volto alla creazione di cinque centri interregionali
di formazione di divulgatori agricoli (tre dei quali nel Sud), mediante
costituzione di altrettanti consorzi interregionali. Successivamente
si sarebbe proceduto alla formazione di 2 mila nuovi divulgatori.
Scopo del provvedimento era quello di immettere nuovo e qualificato
terziario agricolo nel campo della divulgazione. In linea con le previsioni
del regolamento, le regioni meridionali hanno dato vita ai tre consorzi
interregionali per la formazione dei divulgatori agricoli e, successivamente,
hanno istituito numerosi centri di formazione.
In generale, però, l'operatività delle leggi nelle regioni
meridionali è ritardata da un'enorme carenza organizzativa
e programmatoria, carenza che la legge n. 64 non colma, ma mortifica
ancora di più. la diversa importanza che l'agricoltura riveste
nel Sud rispetto al resto del Paese si manifesta anche attraverso
una serie di differenziazioni riguardanti sia la composizione delle
spese regionali sia il peso del sostegno pubblico nel settore. Guardando
al 1983, infatti, si osserva che Vi i% della spesa complessiva sostenuta
dalle regioni meridionali era destinato all'agricoltura; nel Centro-Nord
la quota non superava il 3%.
Peraltro, mentre nel Centro-Nord il divario tra spesa regionale e
valore aggiunto era del 9,6%, nel Mezzogiorno arrivava al 25%. La
diversificazione dell'intervento pubblico riguarda in particolar modo
la destinazione della spesa. Nel Centro-Nord circa l'80% delle spese
sostenute in agricoltura vanno ad alimentare incentivi in favore delle
aziende. Nei Sud, la percentuale è del 68%; il 22% delle spese
è destinato all'attuazione di grandi interventi infrastrutturali.
La voce "ricerca" risulta, invece, penalizzata in tutto
il Paese. Solo che nel Mezzogiorno è mancato anche il collegamento
fra ricerca e sistema produttivo. Come logico corollario abbiamo avuto
una notevole lentezza dell'innovazione tecnologica nel Sud. Lentezza
questa aggravata dalla polverizzazione della proprietà agraria,
che rende superfluo l'uso di macchine avanzate, la cui efficienza
si misura in relazione alla vastità delle superfici.
La necessità di qualificare e razionalizzare la produzione
agricola nel Sud, coerentemente alle richieste del mercato, è
oggi molto sentita. Ma essa richiede una completa revisione del ruolo
assunto dal produttore meridionale nell'ambito della commercializzazione
del prodotti agricoli. E' noto, infatti, lo stato di emarginazione
in cui esso è tenuto quando si tratta di gestire e immettere
i prodotti agricoli sui mercati nazionali e internazionali. Garanzia
della collocazione e premio indiretto, tipiche espressioni della politica
assistenzialistica, continuano a favorire una produzione basata sulla
consistenza quantitativa, a scapito del miglioramento qualitativo
dei beni prodotti e del contenimento dei costi di produzione. l'inversione
di tendenza va intesa, quindi, nel senso di una diverso assegnazione
delle priorità: ai problemi di mercato devono seguire quelli
della commercializzazione, e a questi quelli della produzione.
La nuova legge
per il Mezzogiorno
Dopo cinque anni di assoluto silenzio parlamentare, durante i quali
il Nord ha completato il suo processo di ristrutturazione, è
stata finalmente approvata la nuova disciplina organica sull'intervento
straordinario nel Sud. Si tratta della legge 10 dicembre 1983, n.
651; della legge 17 novembre 1984, n. 775; del Programma triennale
approvato dal Cipe il 10 luglio 1985; e, infine, della legge 10 marzo
1986, n. 64. Con la nuova disciplina la logica dello stato portatore
di un disegno operativo unitario è sostituita da quella che
prevede un decentramento delle funzioni fra una molteplicità
di soggetti (Amministrazioni centrali, regioni, enti collegati, soggetti
privati).
Tre sono i principali organismi previsti dalla legge: Agenzia, regioni,
ex enti collegati. L'Agenzia è un soggetto a capacità
limitata, avente il solo compito di garantire il finanziamento degli
interventi decisi in altre sedi. Agli altri due soggetti, invece,
è stata conferita un'ampia sfera d'azione.
La nuova legge, che segna la fine del "grande protettorato",
fa sorgere nuovi interrogativi e apre molti vuoti. Infatti, chi si
occuperà della realizzazione dei grandi interventi infrastrutturali
di natura intersettoriale, dal momento che non sono di competenza
delle amministrazioni ordinarie? E a chi spetterà di avviare
le procedure speciali, visto che alle amministrazioni ordinarie spettano
solo procedure ordinarie?
Ma il fatto che più lascia perplessi è che il trasferimento
delle competenze della Cassa alle regioni e alle autonomie locali
avviene senza che questi soggetti abbiano maturato quella capacità
di programmazione, di progettazione e di spesa, la cui carenza è
stata fra i motivi che hanno indotto a istituire la Cassa stessa.
|