§ L'INCHIESTA: PIANETA PUGLIA (2)
Un'indagine promossa dalla Svimez

Ma l'agricoltura è ancora squilibrata




M. C. Milo, A. Foresi



Col 14,4%, il settore primario ha ancora nella regione una grossa voce in capitolo. E' vero che le trasformazioni sono state di gran rilievo, nel giro di un quarto di secolo. Incominciarono con le migrazioni seguite al fallimento della riforma agraria, o meglio ancora, al ritardo con cui venne attuata e ai ritardi che determinò, nei giorni in cui Rossi Doria indicava nell'abbandono dell'ideologia "la terra ai contadini" come momento indispensabile per l'avanzamento della Puglia e del Sud, e nello sviluppo dell'industria, dei trasporti, dei servizi, della scolarità professionale le linee programmatiche per lo sganciamento del Mezzogiorno dalla sua secolare questione. I contadini, placata la rabbia col possesso della terra (antico dato, e permanente, della storia contadino meridionale), si trovarono soli con se stessi, su campi aridi, improduttivi, con tecniche di lavoro antiquate, senza energia motrice, senza collegamenti, senza precisi sbocchi di mercato. Senza alcun punto di riferimento. Allora lasciarono in massa le terre dell'Ente Riforma e presero le vie del Nord e quelle dell'Europa. Il peso demografico, che da sempre gravava sulle campagne, si alleggerì sensibilmente, ma l'agricoltura restò ancora una fonte di reddito e di occupazione fino alla seconda ondata migratoria, quella più razionale degli anni '70, molto diversa dall'altra, degli anni '50 e soprattutto '60, quando lasciò il Sud, in media, un uomo ogni tre minuti.
Giunsero le bonifiche (persino indiscriminate), le sistemazioni del suolo (ma montagna e alta collina ancora oggi smottano a volle), le irrigazioni. La compagna pugliese in buona parte si razionalizzò: la Murgia perdette i suoi profili di morte, le desolazioni a perdita d'occhio, ma si trattò, in grandissima parte, di investimenti privati, fatti con l'aiuto delle banche, in assenza di finanziamenti pubblici, compresi quelli della Cassa per il Mezzogiorno. li vecchio granaio italiano della Capitanato si trasformò con le colture intensive: ancora grano, ma anche girasoli e colture irrigue primaticce, destinate all'esportazione. E si razionalizzò la campagna barese, con le immense produzioni di uve da tavolo, di ortaggi, di olivi e di olio, di vini, di frutta conservato, di marmellate. Taranto si era già vista distrutta la terra della zona di rispetto dell'italsider: solo nella profondità orientale della provincia, collegata con le aree di Brindisi, l'agricoltura ha preso piede, con vigneti di splendida stoffa e con uve destinate all'esportazione. Viti e ortaggi anche a Brindisi. Infine, Lecce, con la terra come un sudario di mille brandelli, con i minifundi accanitamente recintati, con la cooperazione che non è stata mai una tendenza diffusa, e, in una parola, con un'agricoltura che un giorno fu di sussistenza familiare, e che oggi incide in parte minima, ma proprio minima, su redditi e lavoro.
E comunque, di fronte all'11-9% di forze di lavoro impiegate nel settore primario nei paesi più industrializzati del mondo, ma con produzioni che non solo alimentano al cento per cento il mercato interno, ma sono in grado anche di registrare ampissimi ventagli di esportazione, la percentuale pugliese rimane ancora rilevante. Certo, nella media regionale è presente, con influenze negative, il coacervo proprietario salentino, con generazioni superstiti legate più ai contributi unificati che alla specializzazione delle colture, e alla prospettiva assistenziale più che a quella modernamente produttiva. Di fatto, due regioni convivono entro i confini di una stessa regione, con economie diversificate, con produzioni dimensionalmente differenti, con problemi di trasporto, di collocamento, di commercializzazione tutt'altro che risolti.
Allo stato attuale, l'emigrazione non è più dalla regione al Nord o all'Europa comunitaria: è in otto una seconda silenziosa rivoluzione, col passaggio dall'attività primaria e persino secondaria (molte imprese cosiddette artigianali, per motivi fiscali, non si dichiarano quel che sono, vere e proprie piccole Industrie) a quella terziaria, ai servizi, turismo compreso, industria senza ciminiere che va prendendo sempre più radici nella penisola salentina. E'' un futuro che può avere un nome, solo che dispieghi progettualmente: in questo senso, Bari dà lezione. E proprio in questo senso e in questa direzione è palpabile il fallimento, Svimez esclusa, delle altre emanazioni "intellettuali" della Cassa per il Mezzogiorno, Formez (che sembra agire quasi esclusivamente nell'area occidentale del Sud, tra Campania e alcune aree calabrolucane) e, soprattutto, Iasm. Quale attività di orientamento e di guida, quale aggressione pacifica dei problemi moderni del Sud ci siano, e da tempo, è sotto gli occhi di tutti. L'azione del pensare si è sovrapposta a quella del fare (e del che fare), facendo di questi due organismi, nati con ben altri obiettivi, due centri di burocrazie veglianti su un meridionalismo obsoleto e fuori tempo.
Ben altri problemi si pongono oggi. Problemi come emergenze, dallo sviluppo delle attività turistiche e ricreative a quello dei beni e servizi, dalla disoccupazione giovanile all'orientamento professionale, dal problema dei trasporti a quello degli sbocchi di mercato. Intere aree del Sud, invece, sembrano abbandonate a se stesse, con la realtà di uno, o di molti profondi Sud all'interno del vecchio Sud, non più continente ma arcipelago, con fossati tra Sud e Sud che stanno per diventare incolmabili. Se c'era un modo di perpetuare l'inferiorità socio-economica del Mezzogiorno, il gioco è fatto. E non basta l'ottimismo della volontà a sconfiggere il pessimismo della ragione. Almeno fino a quando non finiranno in soffitta, sostituiti da giovani forze al passo con i tempi, i decrepiti numi tutelari di un meridionalismo ormai valido solo come lezione storica.

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