Ad
oltre trent'anni dall'avvio di misure di politica economica, anche di
carattere straordinario, a sostegno dello sviluppo delle regioni meridionali,
risulta ancora ampio il divario tra il Mezzogiorno ed il resto d'Italia.
Approfondirne le ragioni rappresenta per gli economisti un esercizio
ricorrente. Differenze di fondo tra Nord e Sud emergono inequivocabili
dai dati statistici nelle strutture e nei risultati economici (Sambati
1986). Ne discende l'interrogativo: in che misura contesti strutturali
e livelli di crescita sono tra loro correlati?
Il legame tra caratteristiche della struttura produttiva e performance
economica è approfondito in letteratura negli ormai numerosi
studi sulle disparità regionali (Camagni-Cappellin, 1984; Cappellin,
1986), rivolti a dare ragione, tra l'altro, dei diversi profili di crescita
della produttività DEL lavoro.
La dinamica della produttività, misurata dall'andamento del prodotto
che il singolo lavoratore ha in media contribuito a formare', costituisce
un indicatore sintetico sulla base del quale comparare gli andamenti
di Puglia, Mezzogiorno e Italia sia in termini aggregati (parte prima)
che ripartiti per principali settori di attività economica (parte
seconda). L'interpretazione dei risultati richiede particolare cautela:
i processi di sostituzione tra fattori della produzione tendono infatti
a spostare le tecniche utilizzate verso l'impiego dei fattori più
convenienti e comportano fenomeni di aggiustamento nelle combinazioni
di tutti i fattori della produzione i cui effetti possono essere valutati
in modo impreciso con il calcolo della sola produttività del
lavoro.
Questo testo
riproduce con opportune modifiche ed integrazioni l'intervento svolto
dal'A. alla VI Conferenza Italiana di Scienze Regionali (Genova, 23-25
ottobre 1985) nella sessione sulle "Trasformazioni produttive
nelle regioni italiane".
Chi scrive ringrazia Raffaele Brancati, Paolo Costa, Fabio Del Prete,
Vittore Fiore e Adriano Giannola per aver discusso il tema, assumendosi,
com'è ovvio, ogni responsabilità per le opinioni espresse.
PARTE PRIMA
Con questa avvertenza,
si esaminano le differenti dinamiche di una regione periferica, pur
se in crescita, quale la Puglia, dell'area geografica più ampia,
il Mezzogiorno, nella quale si colloca, e della media nazionale, provando
a ricondurle in alcuni schemi teorici.
Lo schema di
riferimento
In letteratura sono state individuate sette possibili modalità
di sviluppo (Camagni-Cappellin, 1984):
1) circolo virtuoso, con sviluppo della produttività e del
prodotto regionale superiore alla media nazionale e sviluppo dell'occupazione
positivo;
2) riconversione, con sviluppo della produttività e del prodotto
superiore alla media nazionale, andamento dell'occupazione negativo,
ma superiore alla media;
3) ristrutturazione, con sviluppo della produttività e del
prodotto superiore alla media, sviluppo dell'occupazione inferiore;
4) abbandono, con sviluppo della produttività superiore alla
media, sviluppo dell'occupazione e del prodotto inferiori alla media;
5) ritardo nel processo di sviluppo, con andamento di produttività,
occupazione e prodotto inferiori alla media;
6) conservatorismo, con sviluppo della produttività e del prodotto
inferiore alla media, sviluppo dell'occupazione superiore alla media;
7) sviluppo labour intensive, con sviluppo della produttività
inferiore alla media, sviluppo dell'occupazione e del prodotto superiore.
I risultati
di sistema
In Puglia, dove il prodotto è cresciuto nel periodo 1970-1983
ad un saggio annuo del 3,7% e la produttività del 2,6%, l'occupazione
è aumentato poco più dell'1%, con una elasticità
pari a 0,26.
Con incrementi di prodotto e produttività rispettivamente del
3,3% e del 2,5%, nel Mezzogiorno i posti di lavoro aggiuntivi sono
risultati inferiori all'1% l'anno e solo dello 0,6% nel complesso
del Paese, che ha sperimentato ritmi più decelerati di prodotto,
+ 2,8%, e produttività, + 2,2%.
Nel periodo considerato, la Puglia realizza dunque aumenti di produttività
coerenti con una crescita dell'occupazione superiore a quella meridionale
e ancor più a quella nazionale, per cui risulta appropriato
ricondurre lo sviluppo dell'economia regionale nel suo complesso nello
schema "labour intensive".
E' però fuorviante valutare la dinamica della produttività
in sé, prescindendo dal livello di partenza della variabile
considerata, in Puglia inferiore non solo ai valori medi nazionali,
ma anche a quelli meridionali (Tab. 1).
Il basso valore di partenza del 1970 fa quindi apparire l'indice del
1983 relativamente più elevato, mentre sostanzialmente non
mutano le differenze di produttività tra la regione e la media
italiana, che anzi risultano solo lievemente attenuate nei confronti
del contesto meridionale e addirittura ampliate rispetto al dato nazionale.
Nell'assaporare le variazioni non si devono perdere di vista le grandezze
di riferimento espresse dalle consistenze. Sul totale nazionale l'incidenza
del prodotto e dell'occupazione pugliese continua ad oscillare nell'ultimo
decennio intorno al 4,5% ed al 6,2%; l'intero Mezzogiorno assorbe
rispettivamente il 24% ed il 30% e, di conseguenza, il 76% del prodotto
ed il 60% dell'occupazione si concentrano nel Centro-Nord.
La minore dinamica della produttività nelle regioni meridionali
è attribuibile essenzialmente al concorso di due fattori:
1) arresto del processo di accumulazione avvenuto dopo la prima crisi
petrolifera;
2) politiche di difesa dell'occupazione orientate al Mezzogiorno.
Al contrario, nel resto del Paese la crescita della produttività
del lavoro avviene proprio attraverso processi di ristrutturazione
labour saving in otto dalla fine degli anni Settanta, che portano
all'installazione di nuovi macchinari più flessibili e adattabili
alle accresciute fiuttuazioni del mercati: maggiore automazione dunque
e riduzione della manodopera impiegata.
Non di meno, per effetto di fattori demografici - sostanziale arresto
dei flussi migratori netti sia verso l'estero sia verso le altre regioni
italiane e contrazione del saldo naturale relativamente minore che
nel resto del Paese - e della maggiore partecipazione soprattutto
femminile al mercato del lavoro, aumenta nel Sud lo squilibrio tra
offerta di lavoro e incremento del l'occupazione: nel 1985 il tasso
di disoccupazione si attesta in Puglia (13,7%) su valori ancora inferiori
a quelli del Mezzogiorno (14,7%), ma sensibilmente più alti
del dato nazionale(10,6%). Particolarmente preoccupante è infatti
al riguardo la differenza tra Centro-Nord e Mezzogiorno, che riflette
le insufficienze della dinamica produttiva e le rigidità del
mercato del lavoro. Se si punta l'attenzione sui sotto-periodi 1970-1974,
1974-1978 e 1979-1983, si mettono a fuoco modalità di sviluppo
che rispondono a sequenze logiche differenti. Così la Puglia
passa da uno schema "labour intensive" dei primi anni Settanta,
nei quali produzione e occupazione, ma non produttività, mostrano
valori superiori alla media nazionale, al "conservatorismo"
del periodo che segue la crisi petrolifera dei 1974, con crescita
di prodotto e produttività inferiore alla media, alla "ristrutturazione"
sul finire degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, con incrementi
di prodotto e produttività superiori alla media e andamento
dell'occupazione non solo inferiore, ma anche leggermente negativo
(Tab. 2). Il Mezzogiorno, invece, che pure aveva vissuto una fase
di conservatorismo a minore elasticità occupazionale, realizza
già nei primi anni Ottanta posti di lavoro aggiuntivi, anche
se con contenuti tassi di sviluppo di prodotto e produttività.
Cosa fare per elevare l'elasticita dell'occupazione alle variazioni
del prodotto? Per accrescere cioè il ritmo di crescita dell'occupazione
senza compromettere i livelli di efficienza? Per un approfondimento
in tale direzione, si è ritenuto di articolare l'analisi in
chiave settoriale, mettendo in luce, oltre ai risultati economici
conseguiti, i caratteri e i cambiamenti strutturali.
PARTE SECONDA
L'analisi settoriale
La
struttura dell'economia pugliese è caratterizzata dall'incidenza
assai accentuata del settore primario (pari nel 1983 al 15 per cento
ed al 30 per cento del totale regionale rispettivamente di valore
aggiunto e occupati) e di quello terziario (rispettivamente 55 per
cento e 42 per cento). Nonostante che la Puglia sia stata, anche nei
primi anni Settanta, regione meridionale tra le più favorite
dal processo di industrializzazione indotto dall'intervento esterno,
il peso dell'industria resta sostanzialmente stazionario (intorno
al 30 per cento ed al 28 per cento, sempre in termini di valore aggiunto
e occupati).
Agricoltura
La struttura
La Puglia presenta al suo interno realtà agricole profondamente
diverse, nelle quali il grado di efficienza varia in funzione della
situazione morfologica e della disponibilità di risorse idriche;
si passa così dalle zone più ricche della fascia costiera
a quelle via via più povere della zona situata tra la costa
e le prime alture per finire alle zone più interne. Tra i due
ultimi censimenti agricoli del 1970 e del 1982, sono diminuiti nel
complesso la superficie agricola utilizzata e così pure il
numero di aziende agricole, con una sostanziale invarianza nell'ampiezza
media del terreni aziendali. Permane quindi, nonostante l'esigenza
di elevare la dimensione media delle aziende, un elevato grado di
polverizzazione fondiaria (oltre l'80 per cento delle aziende agricole
è compreso nella classe di superfici sino a 5 ettari). Già
preponderante nel 1970, risulta ulteriormente rafforzata la conduzione
diretta da parte del coltivatore, mentre flettono le aziende condotte
in economia con l'impiego di salariati e sono quasi scomparse le forme
coloniche.
La trasformazione irrigua inizia ad incidere in modo significativo
su estensioni a vecchio oliveto e vigneto, che vengono trasformate
in nuove colture a frutteto e ortaggi. Sempre notevole e anzi crescente
è l'importanza relativa dei cereali, rappresentati essenzialmente
dal frumento.
I risultati
economici
In Puglia il prodotto del settore primario registra in termini reali
nel periodo 1970-1983 uno sviluppo (+32 per cento) più marcato
di quello della sola agricoltura (+29,7) per effetto della maggiore
importanza che i contributi alla produzione sono andati assumendo
sul totale della produzione vendibile agricola (dal 12,5 per cento
del 1970 al 18,8 per cento del 1983, con un massima del 21 per cento
nel 1980). Sull'andamento del prodotto ha inciso in modo determinante
l'evoluzione del settore agricolo in senso stretto (coltivazioni erbacee
e foraggere, arboree e allevamento), mentre modesto è stato
l'apporto di silvicoltura e pesca. Secondo solo a quello dell'Emilia-Romagna
nella graduatoria delle regioni italiane, il livello del prodotto
agricolo pugliese rimane comunque intorno al 10 per cento del totale
nazionale (10,1 per cento nel 1970; 11,3 per cento nel 1983), in virtù
di uno stesso andamento tendenziale. Si realizza però ad un
grado più basso di efficienza, in quanto a formarlo concorre
un numero relativamente più elevato di occupati. Osservando
la dinamica della produttività, si nota infatti come in Puglia,
alla pari del Mezzogiorno, essa sia cresciuta ad un tasso inferiore
a quello registrato in Italia, passando da un valore pari all'87 per
cento di quello medio nazionale all'inizio degli anni Settanta al
79 per cento circa nei primi anni Ottanta. In sostanza, per quanto
si possa desumere dagli indici adottati, il più lento sviluppo
della produttività in Puglia (da 1,3 milioni di lire 1970 per
addetto nella media triennale 1970-1972 a 1,9 milioni nella media
1981-1983) a confronto del resto del Paese (da 1,5 a 2,4 milioni)
èprincipalmente riconducibile al diverso andamento del l'occupazione,
negativo ma in misura inferiore alla media italiana, e che pertanto
ha abbassato nella regione l'entità del rapporto prodotto/lavoro
rispetto al valore nazionale. Una espansione del prodotto primario
analoga a quella italiana si realizza quindi in Puglia a più
bassi livelli di efficienza produttiva.
Sulla minore produttività del lavoro influiscono fattori quali
il ritardo nella meccanizzazione, la capacità di recepire le
innovazioni tecniche, la preparazione imprenditoriale e, non ultima,
la rilevata dimensione aziendale, troppo modesta per realizzare una
gestione economicamente positiva.
Anche la quantità di terra per occupato è minore che
nel resto del Paese (4 ettari contro 6 ettari circa), mentre più
elevata è la produttività della terra: il valore aggiunto
al costo del fattori per ettaro di superficie agricola utilizzata
è salito da 333.000 lire annue nel periodo 1970-1972 alle 391.000
lire nel triennio 1981-1983, sempre a prezzi 1970, mentre in Italia
è su valori inferiori di circa 30.000 lire e di 70.000 lire
nel Mezzogiorno.
Il prodotto agricolo regionale è inoltre sorretto in modo significativo,
come si è visto, dai consistenti trasferimenti correnti effettuati
da Amministrazioni pubbliche ed Organismi comunitari, i c.d. contributi
alla produzione.
Agli apprezzabili segnali di riconversione verso colture a più
elevato valore aggiunto e con domanda in tendenziale espansione -
si pensi alla floricoltura, garofani e gladioli, ed alla frutticoltura,
agrumi, ciliege e mandorle - si contrappongono gli aspetti negativi
di ampie fasce periferiche di sottoutilizzo delle risorse agricole
regionali, dove un circolo vizioso di bassa innovatività, decrescente
competitività, bassa crescita del prodotto, crescente disoccupazione
conduce al progressivo abbandono delle campagne.
L'industria
La struttura
Il grado di industrializzazione della Puglia è nel complesso
modesto: circa 50 addetti per mille abitanti, la metà della
media italiana e meno della metà di regioni come l'Umbria e
le Marche (Tab. 4). Realtà complessa, caratterizzata da profondi
squilibri settoriali e territoriali e polarizzato sotto l'aspetto
dimensionale (Dei Prete, 1979; Sambati, 1986), l'industria operante
in Puglia non si presta ad essere imbrigliata in un giudizio sintetico
per la difficoltà di riportare ad unità dinamiche quanto
mai differenti.
Prima di concentrare l'attenzione sull'industria manifatturiera, che
spiega i due terzi circa dell'occupazione industriale nel suo complesso,
non si può prescindere da un cenno, sia pur breve, sull'industria
delle costruzioni, che da lavoro grosso modo al restante terzo. Qui
una crescita degli impianti, superiore a quella degli addetti, ed
il conseguente calo della dimensione media sembrano riconducibili
al concorso di due fattori: il primo, obiettivo, legato al venir meno
dei grandi lavori di infrastrutture e di costruzione dei nuovi impianti
industriali nel Mezzogiorno, cui era collegata l'espansione dei cantieri;
il secondo, alla scelta aziendale di una dimensione minore, anche
se più diffusa, più adatta al carattere ciclico dell'attività
edilizia. Nell'ambito dell'industria manifatturiera, i settori leggeri
(intendendo per leggeri quei settori a minore intensità di
capitale fisso, quali alimentare, abbigliamento, calzature, v. nota
2) aumentano tra i due ultimi Censimenti il numero medio di addetti
per impianto, a seguito di una contrazione del denominatore e di una
crescita del numeratore. Nonostante l'avvenuto processo di consolidamento
evidenzi la tendenza a convergere verso i valori medi nazionali, non
trascurabile risulta ancora il divario nei loro confronti.
Crescono i settori intermedi (meccanica e mezzi di trasporto), sia
in termini di occupati che di unità locali; per la meccanica,
in particolare, la Puglia possa dal terzo al secondo posto nel Mezzogiorno,
scavalcando la Sicilia.
Nei settori pesanti (quelli a più alta intensità di
capitale, come siderurgia, chimica, minerali non metalliferi) si ha
invece un incremento degli impianti che supera quello degli addetti,
dimostrando una volontà di ristrutturazione più che
di sviluppo quantitativo (Tab. 5).
La Puglia degli
anni 80 appare ancora fortemente specializzata nei settori pesanti
e despecializzata in quelli intermedi, mentre le quote dei settori
leggeri tendono a convergere verso i valori medi meridionali e nazionali.
La discontinuità può essere osservata, oltre che nella
specializzazione, nel profilo dimensionale e nella stessa distribuzione
territoriale delle unità produttive (Sambati, 1986).
Se si considerano gli indici di localizzazione, riferiti agli occupati,
vi sono in regione tre addetti e mezzo nella siderurgia e due nell'alimentare
contro uno in Italia; anche calzature ed abbigliamento hanno nella
regione coefficienti maggiori di uno (Tab. 6). Relativamente inferiore
alla media nazionale è invece l'apporto occupazionale dei settori
intermedi: la meccanica mostra i coefficienti più bassi nella
costruzione di macchine per ufficio, apparecchi di precisione ed installazione
impianti; i mezzi di trasporto nella costruzione di autoveicoli.
Come dimostra l'indice di Beaud (Sambati, 1986), vi sono, in termini
percentuali, 22 punti di differenza tra il tasso di crescita dell'occupazione
dell'industria manifatturiera in Puglia (+34%) ed in Italia (+12%)
nel periodo 1971-1981 (Tab.7). Mentre decisamente basso è l'effetto
di mix sui settori (-4%), conseguenza del mancato potenziamento delle
attività già esistenti nella regione, particolarmente
significativo (+26%) è l'effetto differenziale, inferiore solo
a regioni come Umbria e Marche o Abruzzi e Molise, ad indicare che
anche la Puglia è cresciuta proprio nei settori nei quali era
strutturalmente in ritardo.
All'interno dei settori, l'indice di Beaud mette in evidenza che la
meccanica spiega il 40% e la siderurgia il 27% della componente differenziale,
mentre tra i leggeri sono alimentare, abbigliamento e calzature a
presentare la maggiore dinamica relativa. Nella componente strutturale,
il valore assoluto dell'effetto mix sui settori conferma l'importanza
relativa di siderurgia e minerali non metalliferi tra i pesanti; costruzione
di prodotti in metallo tra gli intermedi; alimentare e tessile tra
i leggeri (Tab. 8).
I risultati
economici
Anche per i risultati economici conseguiti dall'industria, il tentativo
di una lettura unitaria, da "onda lunga", potrebbe portare
ad interpretazioni da "circolo virtuoso", distorte però
dal sovrapporsi di fenomeni dei tutto diversi. E' preferibile, pertanto,
isolare i "cicli", suddividendo l'intervallo in esame nei
sotto-periodi 1970-1974, 1974-1978, 1979-1983 (Tab. 9).
Il primo è caratterizzato dai colpi di coda dei programmi tutti
esogeni di espansione della grande industria pubblica e privata nella
regione, a seguito della mutata situazione internazionale (aumento
del prezzo del petrolio e delle materie prime, rallentamento generalizzato
della domanda, emergere di nuovi paesi industriali produttori a minor
costo del lavoro); il secondo ed il terzo dalle diverse modalità
di risposta dell'economia locale.
Sull'andamento economico dei tre periodi ha inciso profondamente l'evoluzione
del l'occupazione: nei primi anni Settanta l'occupazione aumenta in
Puglia, mentre rimane sostanzialmente stazionaria nel Mezzogiorno
ed in Italia, e realizza incrementi di prodotto e di produttività
leggermente superiori a quelli nazionali; negli anni che seguono la
crisi del 1974 l'occupazione in Puglia permane sostanzialmente stazionaria
e, data la più generale situazione di crisi, mostra una produttività
costante, a differenza di quella italiana, in aumento per effetto
della contrazione di mano d'opera; negli anni più recenti,
anche l'industria pugliese subisce una flessione nei livelli occupazionali,
peraltro minore rispetto a quella media nazionale, ma per tale via
riesce a recuperare produttività.
Una tale impostazione, se ha il pregio della sintesi, è però
eccessivamente aggregata per permettere di valutare possibili linee
di intervento in un tessuto industriale fortemente diversificato.
Si è perciò pensato di calcolare i valori assunti dalla
produttività, nonché i tassi di variazione di prodotto,
occupazione e produttività per l'industria manifatturiera e
per i due sottocomparti "metalmeccanico" e "altri prodotti"
per Puglia, Mezzogiorno ed Italia. L'esercizio svolto offre, pur con
le cautele richieste da ogni semplificazione della realtà economica,
interessanti spunti di riflessione.
L'aggregato manifatturiero pugliese presenta uno sviluppo del prodotto
e ancor più dell'occupazione superiore alla media nazionale
ed una inferiore dinamica della produttività. Rispetto al Mezzogiorno
la regione registra una minore crescita di prodotto e produttività
a fronte di un maggiore aumento dell'occupazione (Tab. 10).
Secondo la classificazione adottata, la Puglia avrebbe seguito nell'industria
manifatturiera una tipologia di sviluppo "labour intensive",
che privilegia i livelli occupazionali alle possibilità di
sviluppo di medio periodo. Ciò l'ha portata ad una posizione
di minor competitività rispetto allo stesso Mezzogiorno, che
invece mantiene una variazione della produttività media pressoché
in linea con quella nazionale.
Nel comparto metalmeccanico si osservano in Puglia tassi di crescita
di prodotto ed occupazione superiori sia al Mezzogiorno che all'Italia,
mentre notevolmente più contenuto è l'andamento della
produttività, che, partendo da valori relativamente più
elevati, perde terreno convergendo verso il dato medio nazionale.
Gli altri prodotti industriali sperimentano nella regione incrementi
di occupazione maggiori che nel Mezzogiorno ed in Italia, ma dinamiche
inferiori di produttività e prodotto.
In sostanza, l'andamento del settore metalmeccanico evidenzia in Puglia,
in confronto a quello di Mezzogiorno ed Italia, una tendenza a convergere
da attività a più alto valore aggiunto per addetto verso
produzioni a minore produttività; negli altri prodotti industriali
permane forte il ritardo rispetto ai valori nazionali (Tab. 11). Nonostante
una crescita meno sostenuta, il metalmeccanico resta però anche
in regione il comparto manifatturiero a produttività più
elevata, mantenendosi su livelli medi analoghi a quelli meridionali
e nazionali (Tab. 12).
In termini di rapporto di composizione, le diverse risposte settoriali
hanno comportato l'aumento del peso relativo dei prodotti metalmeccanici,
peraltro in Puglia e nel Mezzogiorno ancora in ritardo rispetto ai
valori medi nazionali (Tab. 13).
L'analisi finora svolta ha fornito una risposta sintetica, ma ancora
eccessivamente aggregata, sul "dove" intervenire per accrescere
l'efficienza del sistema. E' perciò opportuno avvalersi del
maggior dettaglio settoriale consentito dall'Indagine Istat sul prodotto
lordo delle imprese con oltre venti addetti, che appunto coglie lo
sviluppo delle imprese più significative. Il basso profilo
del settore metalmeccanico pugliese trova così spiegazione
nel calo di produttività del settore metallurgico, che, a prezzi
1970, declina da 4,3 milioni per addetto nel 1971 a 2,9 milioni nel
1981. Ciò perché proprio negli anni della crisi si è
avuto il raddoppio dello stabilimento Italsider di Taranto con un
aumento degli addetti cinque volte superiore a quello del prodotto
(+ 63% contro il 12%).
Data la rarefazione degli sbocchi del prodotto, una gestione profittevole
avrebbe reso necessaria una ristrutturazione (capital deepening) degli
impianti esistenti piuttosto che un loro ampliamento (capital widening).
Considerazioni analoghe valgono più avanti per la chimica a
Brindisi, che sperimenta anzi risultati ancor più contraddittori
(+ 18% in termini di addetti, + 1 % di prodotto). Al contrario, sia
nel settore meccanico che nei mezzi di trasporto la produttività
aumenta notevolmente a fronte di una crescita degli occupati inferiore
a quella del prodotto (Tab. 14).
Sono pertanto i settori meccanico e dei mezzi di trasporto a proporre
i tratti tipici del "circolo virtuoso", a differenza del
metallurgico, che nel periodo considerato si sviluppa secondo uno
schema di "conservatorismo industriale", caratterizzato
dal tentativo di mantenere comunque obiettivi occupazionali per motivi
di consenso sociale, prescindendo dall'efficienza dell'impresa. Anche
per gli altri prodotti industriali i dati relativi alle imprese con
oltre 20 addetti contribuiscono a meglio qualificare la tipologia
dello sviluppo.
Come si ricorderò, già nel 1971 il livello medio di
produttività degli altri prodotti era più basso del
corrispondente dato nazionale. la minore dinamica relativa del prodotto,
unitamente alla mancata contrazione della forza-lavoro, porta all'inizio
degli anni Ottanta ad un allargamento nel divario di efficienza tra
la regione ed il resto del Paese. Scendendo nel dettaglio settoriale,
le differenze tra la Puglia e la media nazionale nei valori assunti
dai vari comparti (Tab. 14) sono la riprova di come le diverse dinamiche
strutturali si riflettano in una pluralità di moduli di comportamento
e quindi di sviluppo:
- nonostante il consolidamento avvenuto nel corso degli anni Settanta,
perdura un certo ritardo nel processo di industrializzazione di alimentare,
tessile, abbigliamento e calzature, tutti settori tradizionalmente
presenti nella economia regionale;
- l'elevata produttività dei minerali non metalliferi rispecchia
processi di riconversione produttiva;
- in espansione occupazionale, la chimica configura peraltro, al pari
della siderurgia, i tratti del conservatorismo industriale, a scapito
degli aumenti di produttività e quindi delle possibilità
di sviluppo di medio periodo.
E' ora agevole ricondurre le caratteristiche dei principali settori
manifatturieri pugliesi nella tripartizione leggeri - intermedi -pesanti:
- i rami intermedi e pesanti, al netto del dato spurio della chimica,
presentano nel complesso livelli di produttività e quindi di
efficienza superiori alla media nazionale;
- i leggeri accusano un certo ritardo nel processo di industrializzazione.
I servizi
La struttura
L'importanza dei servizi nell'ambito dell'economia pugliese è
messa in evidenza dal rilevato, consistente apporto al prodotto ed
ancor più alla occupazione regionale. Le attività destinabili
alla vendita (commercio e pubblici esercizi, trasporti e comunicazioni,
credito e assicurazioni) assorbono i due terzi circa della occupazione
terziaria, mentre il restante terzo fa sostanzialmente capo alla pubblica
amministrazione.
I dati dell'ultimo censimento mostrano un sistema commerciale ancora
polverizzato in un numero eccessivo di unità locali: cresciuto
di un ulteriore 22% (+ 16% in Italia), da 80.391 a 98.735, conserva
una dimensione media prossima ai due addetti (in Italia di poco superiore).
L'incremento sia di occupati che di esercizi si concentra prevalentemente
nel commercio al minuto di prodotti non alimentari, mentre un certo
processo di razionalizzazione con riduzione dell'apparato distributivo
si è avuto nel comparto dei generi alimentari.
Nei trasporti e nelle comunicazioni, i tassi di accrescimento dell'occupazione
sono risultati più sostenuti della media nazionale. L'ampliamento
dell'attività di intermediazione delle aziende di credito,
anche in termini di servizi alla clientela, e l'apertura di nuovi
sportelli ha contribuito all'incremento dell'occupazione nel settore,
particolarmente elevato fino al 1981 (+107 in Puglia e +79% in Italia,
rispetto al 1971) e successivamente più contenuto.
Il censimento pone inoltre in evidenza la rapida crescita degli addetti
nel cosiddetto terziario avanzato, soprattutto in agenzie di pubblicità,
consulenza organizzativa e informatica (tra il 1971 ed il 1981, i
relativi addetti si sono triplicati in Puglia e quadruplicati in Italia).
Al di là delle nuove opportunità di occupazione, che
vengono spesso enfatizzate da chi sostiene che il terziario più
avanzato dovrebbe assorbire la manodopera liberata dall'agricoltura
e dall'industria in seguito alla crescente automazione dei processi
produttivi, lo sviluppo delle attività di servizio appare di
rilievo proprio per il supporto a riorganizzazioni produttive di imprese
del primario o del secondario ed alla diffusione di innovazioni tecnologiche
e gestionali.
I risultati
economici
Alla crescita del l'occupazione, in Puglia (+4% l'anno) e nel Mezzogiorno
(+ 3,6%) più elevata che nel complesso del Paese (+2,6%), non
ha fatto però riscontro un'adeguata espansione del prodotto:
ne è scaturita una minore dinamica della produttività,
pari annualmente allo 0,3% sia in Puglia che nel Mezzogiorno contro
l'1% della media nazionale. Anche nei servizi non destinabili alla
vendita l'incremento del numero dei dipendenti delle amministrazioni
pubbliche non si è riflesso in Puglia e nel Mezzogiorno, al
contrario di quanto avvenuto in Italia, in un incremento della produttività,
che è anzi regredita rispetto ai valori del 1970 (Tab. 15).
Gli aumenti di occupazione, registrati sia nelle branche dei servizi
destinati al mercato che in quelle dei servizi non vendibili della
regione e dell'area meridionale in misura superiore a quelli del Paese
nel suo insieme, sono dunque avvenuti più sotto la spinta dell'eccesso
di offerta di lavoro che per effettive esigenze della domanda di servizi.
Si spiega così perché nell'intervallo 1970-1983, la
crescita del prodotto terziario nel suo complesso si rivela soprattutto
in Puglia e nel Mezzogiorno di poco superiore a quella del l'occupazione,
portando ad una più bassa efficienza relativa (l'indice di
produttività, pari in Italia a 115,5 nel 1983 rispetto al 1970,
assume in Puglia valore 107,3 e nel Mezzogiorno 108,8).
Conclusioni
Le modifiche qualitative
riscontrate nella struttura e nei risultati economici costituiscono
le "risposte" alla sfida di efficienza che si è posta
anche alla nostra economia: dal "labour intensive" dei primi
anni Settanta al "conservatorismo" del periodo che segue
la prima crisi petrolifera, alla "ristrutturazione" della
fase recessiva d'inizio anni Ottanta.
Se la Puglia di oggi presenta una ritrovata efficienza, molto complesso
e delicato appare il compito di ridurre in modo significativo il numero
dei disoccupati. L'analisi settoriale ha portato ad individuare i
comporti nei quali recuperi di competitività sono riusciti
a coniugarsi con la difesa dei posti di lavoro: da alcuni rami della
trasformazione industriale, segnatamente meccanica e mezzi di trasporto,
a talune fasce dell'agricoltura e dei servizi. Nel dilemma tra espansione
occupazionale e crescita della produttività, la Puglia e le
regioni meridionali in genere, sospinte dal nuovo intervento straordinario,
devono imboccare decisamente il "circolo virtuoso":
1) accentuando processi di innovazione che ne accrescano la flessibilità
e la competitività sui mercati;
2) valorizzando le opportunità offerte dall'agricoltura e dal
turismo;
3) rilanciando l'attività edilizia;
4) stimolando il terziario di effettivo supporto alle imprese.
Tutto questo, che attiene al progetto, va fatto, però, dopo
un'attenta analisi di mercato, per ridurre il rischio di trovarsi
ancora una volta con capacità produttiva oziosa per carenza
di domanda.
NOTE
Questo testo riproduce con opportune modifiche ed integrazioni l'intervento
svolto dall'A. alla VI Conferenza Italiana di Scienze Regionali (Genova,
23-25 ottobre 1985) nella sessione sulle "Trasformazioni produttive
nelle regioni italiane".
Chi scrive ringrazia Raffaele Brancati, Paolo Costa, Fabio Del Prete,
Vittore Fiore e Adriano Giannola per aver discusso il tema, assumendosi,
com'è ovvio, ogni responsabilità per le opinioni espresse.
1) Con il termine produttività (P) si definisce il rapporto
tra prodotto (Y) ed occupazione (E): P = Y/E
Ci si riferisce pertanto ad un risultato pro-capite, che si differenzia
dalla nozione, egualmente usata, di produttività quale rapporto
tra valore del prodotto e costo del lavoro.
Dalla definizione di produttività deriva la relazione che la
lega alla occupazione:
P - E = Y
Moltiplicando infatti la produttività per il numero degli addetti
si ottiene il prodotto.
In termini dinamici, il tasso di crescita della produttività
è dato dalla differenza dei tassi di sviluppo di produzione
ed occupazione; esso rappresenta l'inverso dell'elasticità
occupazione/prodotto, laddove questa è il risultato del rapporto
tra le variazioni percentuali dei posti di lavoro e della produzione.
Le variabili considerate permettono di individuare le elasticità
occupazionali parziali (settoriali) e generali (di sistema), che,
dati i differenti sentieri di crescita di produzione e occupazione,
portano a "traguardi" di maggiore produttività o
minore disoccupazione.
2) Nel seguito si farà spesso riferimento alla ripartizione
"settori leggeri, intermedi, pesanti" per indicare le classi
4,3 e 2 di attività economica Istat. Pur se non tutti i. comporti
compresi nelle tre classi sono rigorosamente riconducibili alla tripartizione
prescelta (così ad esempio i mezzi di trasporto ed i minerali
non metalliferi), quelli coerenti con la terminologia adottata sono
di gran lunga prevalenti:
LEGGERO (4)
41 Alimentare di base
42 Zucchero, bevande, tabacco
43 Tessile
44 Pelli e cuoio
45 Calzature, abbigli. biancheria
46 legno e mobili in legno
47 Carta stampa edit.
48 Gomma e mat. plast.
49 Manifatt. diverse
INTERMEDIO (3)
31 Costr. prod. in metallo
32 Costr. e installaz. macchine
33 Costr. macchine per ufficio
34 Costr. e installaz. impianti
35 Costr. autov. e carroz.
36 Costr. altri mezzi di trasporto
37 Costr. apparecchi di precisione
PESANTE (2)
22 Prod. e prima trasform. metalli
24 Lavorazi. minerali non metalliferi
25 Industrie chimiche
26 Prod. fibre artif. e sintetiche
BIBLIOGRAFIA
CAMAGNI R., CAPPELLIN R. (1984), Cambiamenti strutturali e dinamica
della produttività nelle regioni europee, pp. 131-273, in "Cambiamento
tecnologico e diffusione territoriale", R. Camagni, R. Cappellin,
G. Garofoli (a cura di), Milano, Franco Angeli.
CAPPELLIN R. 1986, L'evoluzione delle strutture economiche regionali,
Milano, Franco Angeli.
DEL PRETE F. (1979) Puglia, in "Le regioni del Mezzogiorno",
a cura di V. Cao-Pinna, Bologna, il Mulino.
SAMBATI P. (1985), Le trasformazioni produttive in Puglia, Atti della
VI Conferenza italiana di Scienze regionali, Genova.
SAMBATI P. (1986) Puglia: tra continuità e cambiamento, Delta,
n. 22.