§ PER UN NUOVO MERIDIONALISMO

Riparliamo del Sud




Giorgio Ruffolo



Dopo anni di brillanti variazioni sul tema del rinascimento economico e della vitalità sommersa, l'Italia riscopre, nientemeno, la questione meridionale. Il Mezzogiorno è cambiato: e come! Ma la questione meridionale è sempre là. E costituisce, oggi più che mai, il nodo dello sviluppo economico e civile di tutto il Paese. Diciamo la verità. Forse, l'aspetto più drammatico di questo problema non sta tanto nel fatto che il famoso divario tra Sud e Nord, misurato dai rispettivi redditi procapite, abbia ripreso a crescere. li vero problema del Sud non è di "raggiungere" il Nord (il confronto in termini di contabilità nazionale, tra l'altro, non è certo omogeneo), ma di conseguire un suo equilibrio soddisfacente, in termini di autosufficienza economica e di occupazione. Ora, proprio su questi due punti si registrano i più gravi insuccessi.
Primo. Le risorse prodotte nel Sud sono rimaste costantemente inferiori, negli ultimi dieci anni, a quelle consumate all'interno dell'area. Le importazioni nette si sono infatti aggirate, negli ultimi dieci anni, tra il 15 e il 20% del prodotto interno lordo del Mezzogiorno. Il Mezzogiorno ha, insomma, una bilancia dei pagamenti in disavanzo strutturale. Se fosse una Repubblica partenopea, sarebbe costretta, alternativamente, a svalutare la sua moneta, imbarcando inflazione, oppure a comprimere drasticamente la sua domanda interna, peggiorando il suo tenore di vita.
Secondo. Le prospettive di crescita economica del Mezzogiorno sono ben lontane dal garantire l'assorbimento di una offerta di lavoro che, a differenza del Nord, continua e continuerà almeno per un decennio, per ragioni demografiche, a crescere: fino a superare un quinto della forza di lavoro.
Queste constatazioni sono fatte non certo per ridestare il "pianto antico" del Sud. In quasi quarant'anni di "intervento straordinario" e di sviluppo della sua vita civile e democratica si sono realizzati nel Mezzogiorno progressi e successi che sarebbe stupido contestare: soprattutto nello sviluppo delle sue infrastrutture, nell'aumento del suo tenore di vita, nella crescita delle sue forze produttive. Tuttavia, i due fondamentali obiettivi sopra richiamati - un livello soddisfacente di autosufficienza economica e di occupazione - sono stati mancati clamorosamente.
Per capire le ragioni profonde di questo fallimento, credo si debbano valutare le strategie dell'intervento, non solo dal punto di vista dei loro effetti strettamente economici, ma anche - e soprattutto - per quel che riguarda le loro implicazioni sociali e, perché no?, morali.
L'intervento si è realizzato fondamentalmente attraverso due strumenti: opere pubbliche e incentivi finanziari all'industria.
Il complesso di grandi opere pubbliche realizzate nel Mezzogiorno in questi ultimi decenni è imponente. Esso ha cambiato radicalmente il volto e la vita del Sud, nel senso della modernizzazione e della mobilità. E tuttavia, man mano che dalle grandi opere destinate a colmare le lacune fondamentali dell'infrastruttura meridionale si passava ad interventi minori e diffusi, è emerso il tremendo costo dell'assenza di una pianificazione territoriale, che consentisse di organizzarli in un ambito coerente. Da una parte, il flusso della spesa pubblica si è ramificato - sulla base di una logica spartitoria - nella vasta zona paludosa degli appalti, sulla quale fiorisce una ricca vegetazione parassitaria di rendite, di favori, di intermediazioni "tangenziali", partitiche e private. Dall'altra, i formidabili movimenti di uomini e di capitali che hanno trasformato il Mezzogiorno da società contadina a società urbanizzata, si sono svolti nel caos, provocando la degradazione dell'ambiente naturale e la congestione di città prive di servizi adeguati, di centri direzionali, di decenza urbana, di vitalità civile. Quanto agli incentivi finanziari, non c'è bisogno di insistere, anche qui, sulle degenerazioni di un intervento che ha consentito, sì, di fondare nel Mezzogiorno grandi, e anche validi centri di forza industriale, ma che - nell'assenza di una vera politica industriale e imprenditoriale, diretta a valorizzare risorse e capacità endogene - si è poi dispersa in parte troppo ampia nella pobre semilla, nel pulviscolo malsano di iniziative "opportunistiche", economicamente prive di serio fondamento.
Questi fallimenti economici di una "strategia senza programma", di una "crescita senza intelligenza", sono all'origine di due fenomeni macroscopici di sottosviluppo sociale. Il primo è la crescita di una classe dirigente meridionale che è anomala, perché non "dirige", ma "intermedia" i flussi della spesa pubblica, da cui traggono origine i suoi redditi e il suo potere. Il secondo è la progressiva emarginazione che la disoccupazione, il disordine urbano e la degradazione ambientale determinano per una parte troppo ampia della popolazione meridionale; e la proliferazione di comportamenti asociali che ne deriva.
Un intreccio tra sottosviluppo economico (dipendenza esterna e disoccupazione) e sottosviluppo sociale ("borghesia" di Stato intermediatrice e "proletariato" emarginato): ecco il nodo che stringe oggi il Mezzogiorno in una inquieta e pericolosa condizione di stallo.
Come affrontare questo nodo? Se questa sommaria analisi, nelle sue linee generalissime, fosse corretta, dovremmo sollecitare una svolta davvero radicale nelle politiche di intervento nel Mezzogiorno. Primo: nel senso di riorientare gli investimenti infrastrutturali dalla disseminazione casuale di opere "pubbliche" ad una politica programmata di riordinamento del territorio, rivolta ad arrestare la degradazione vergognosa dell'ambiente naturale; e a ricostruire il tessuto civile di una società urbana, nelle città disordinate e congestionate del Sud.
Secondo: nel senso di riorientare la politica di industrializzazione, dalla disseminazione di incentivi alla fornitura di servizi produttivi reali (formazione, assistenza, tecnologie, aree attrezzate, eccetera) alle imprese meridionali: non solo alle attività industriali, ma anche a quelle artigianali, agricole, turistiche. Incentivando l'intelligenza, e non solo il capitale. l'innovazione. la ricerca. la cooperazione.
Non c'è davvero - mi pare - un problema di scelte prioritarie tra infrastrutture e industrializzazione. Questo è un modo un po' desueto di porre il problema! Nell'ambito di politiche territoriali e industriali mirate e programmate, i due tipi di interventi si sostengono e si rafforzano vicendevolmente.
Infatti, una vasta azione di risanamento ambientale consentirebbe simultaneamente: un grande progresso civile, un massiccio aumento del l'occupazione, nella fase di costruzione e di gestione delle infrastrutture e dei serivizi attraverso investimenti ad alta intensità di lavoro, e un vigoroso impulso promozionale delle attività produttive, attraverso l'incentivo della domanda e il miglioramento delle economie esterne all'impresa.
Un'azione che favorisse la crescita diffusa di imprese meridionali, orientate in larga misura alla valorizzazione delle risorse locali, oltre a dare un contributo importante all'aumento dell'occupazione e del reddito, favorirebbe la crescita civile del Mezzogiorno attraverso io sviluppo di una robusta classe imprenditoriale, che tragga vantaggio molto più dalle occasioni di mercato aperte con grandi programmi regionali di risanamento ambientale e urbano, e dall'offerta di servizi produttivi, che dal sostegno di sussidi finanziari.
Una nuova strategia di sviluppo del Mezzogiorno, ambientalistica e produttivistica, consentirebbe insomma di affrontare alla radice i mali che caratterizzano il sottosviluppo economico e sociale del Mezzogiorno: la subalternità economica (attraverso la valorizzazione delle risorse interne), la disoccupazione (attraverso investimenti ad alta intensità di lavoro), la degradazione ambientale (attraverso investimenti diretti alla difesa e valorizzazione delle risorse naturali e allo sviluppo della civiltà urbana): la passività della classe dirigente meridionale (attraverso lo stimolo alla capacità progettuale delle Regioni e alla capacità manageriale degli imprenditori meridionali). Una tale strategia potrebbe essere il fulcro di quel "New Deal" che giustamente Emilio Colombo auspica, per un Mezzogiorno ricco di intelligenza e di forza di lavoro, oggi malamente sprecate.
Si tratta di una strategia che si fonda su una convinzione profonda: che i mali del Sud non nascono tanto dall'esiguità delle risorse di cui dispone, quanto dal modo in cui esse sono utilizzate. E' che il problema del Sud sta non tanto nel divario tra il suo prodotto pro-capite e quello del Nord, quanto nella "disattenzione" della classe dirigente nazionale e nella inadeguatezza della classe "non dirigente" locale.

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