§ CONTRIBUTI

Quale capitalismo




Carlo De Benedetti



Gli anni '70 hanno messo a nudo l'incapacità di risposta dei modelli di sviluppo basati sul liberalismo classico, come sul socialismo marxista. In alcuni Paesi industrializzati si sono da tempo cercate nuove risposte al problema della crisi e del rilancio dello sviluppo, attraverso una rifondazione, non teorica ma molto pragmatica, del modello capitalista. Il nostro Paese si trova, invece, sospeso tra crisi e speranze di ripresa e non si è posto seriamente il problema di quale capitalismo vada bene oggi per l'Italia. Vi sono tuttavia fatti nuovi che, a mio parere, devono essere evidenziati e valorizzati: si sta infatti avviando su questi temi anche da noi un dibattito che ha nuovi protagonisti e soprattutto sta coinvolgendo strati sempre più ampi della nostra società.
Un elemento nuovo è che questo dibattito non si tiene nella penombra di qualche salotto, ma nasce da esigenze concrete di cambiamento e si sviluppa con l'apporto di una coscienza diffusa che intuisce come solo attraverso il mutamento dei vecchi schemi sia possibile rigenerare una situazione di sviluppo, di nuova occupazione, di nuova ricchezza e benessere per il Paese. Sbaglia clamorosamente chi cerca di ricondurre questo dibattito (che, beninteso, non è affatto un dibattito teorico: è piuttosto uno scontro per affermare un modo o un altro di essere nella società) ad una contrapposizione tra capitalismo e marxismo, tra destra e sinistra. è piuttosto un dibattito che trova contrapposti all'interno degli schieramenti tradizionali coloro che sostengono l'esigenza del cambiamento e coloro che, invece, difendono la conservazione dei vecchi modelli, nell'illusione di prolungare la propria sopravvivenza, o per miopia culturale.
Sia ben chiaro che oggi, accanto ad un capitalismo conservatore che tende a difendere ad oltranza posizioni di pura rendita, vi è anche, di fatto sulle stesse posizioni, una parte della sinistra che non percepisce il cambiamento e continua a mitizzare l'operaismo proletario, senza accorgersi che il lavoratore oggi non è solo un percettore di retribuzione, ma sempre più e anche un consumatore e un risparmiatore da tutelare. Il dibattito sul cambiamento sociale ed economico è molto complesso e soprattutto si presenta in termini nuovi: un approccio di tipo manicheo va bene per chi ritiene che nel mondo ci siano solamente il bianco e il nero e non sa guardare a fondo nella realtà delle cose.
C'è, dunque, nel Paese, una domanda crescente di cambiamento, che preme per rinnovare l'economia e la società, per uscire da un guscio che sta stretto. Sono assolutamente convinto che per affrontare i problemi e le questioni complesse che ci stanno di fronte, e che sono contemporaneamente questioni economiche, culturali e sociali, occorra partire dall'economia.
Chi ha posizioni di responsabilità in economia deve muoversi per primo. Come imprenditore, sento con particolare forza questa sfida del rinnovamento del capitalismo, della creazione di una nuova cultura industriale e della ricerca di un rapporto diverso tra i cittadini e l'economia. In questo campo l'Italia deve affrontare un grande cambiamento di rotta, che a mio avviso va accelerato e guidato per evitare che il permanere di vecchi schemi ideologici e di posizioni di conservazione ritardi, con grave danno per tutti, il processo di rinnovamento.
Questa esigenza di nuovi modelli di crescita dell'economia e della cultura, che sta salendo da tutto il Paese, ricorda in qualche aspetto gli anni che a Milano precedettero l'ultimo periodo del secolo scorso, cioè il periodo in cui si costruirono le basi del sistema industriale italiano.
E' in quel periodo che si manifestano più liberamente gli "animal spirits" dell'imprenditore schumpeteriano, dando vita all'industria moderna del nostro Paese, un periodo di crescita di vero "mercato", di un pluralismo imprenditoriale, dello sviluppo accelerato del mercato azionario; di efficaci sinergie tra imprese e banche (valga per tutti l'esempio del ruolo particolarmente attivo che ebbe la Banca Commerciale nella promozione delle nuove imprese e nel sostegno attiva della fase di industrializzazione).
Tale felice periodo si affievolì negli anni che precedettero e seguirono la prima guerra mondiale, in conseguenza delle grandi crisi economiche internazionali, ma soprattutto a causa della ristrettezza della base economica del Paese che portò ad una progressiva sclerotizzazione di quel pluralismo imprenditoriale-finanziario che aveva consentito il "miracolo" degli anni della prima industrializzazione. Si sviluppa in Italia durante il periodo fascista quell'asfittico modello di capitalismo misto pubblico-privato basato non sulla legge del controllo da parte del mercato, ma sulla legge del controllo da parte di sempre più ristretti gruppi privati, oppure della grande industria e finanza pubblica che nasce in quegli anni e le cui scelte vengono condizionate da obiettivi politici del gruppo governante. Questo modello di capitalismo, poco aperto al nuovo ed al mercato internazionale radicatosi in quegli anni nel sistema economica, ha condizionato in passato ed è tuttora un elemento frenante del processo di crescita, così come della cultura industriale del nostro Paese.
La spinta della ricostruzione del secondo dopoguerra apre una nuova fase di sviluppo industriale; la scelta dell'apertura internazionale, il rilancio di nuova imprenditorialità sembra poter consentire all'Italia il riavvicinamento a direttrici di marcia più simili a quelle di altri Paesi industriali, in cui diverse vicende storiche avevano consentito l'evoluzione di modelli basati sul mercato e su un capitalismo pluralistico. Ma la carenza di un reale mercato dei capitali ha rappresentato un collo di bottiglia che ha dapprima frenato e poi, con la crisi degli anni '70, definitivamente bloccato questo processo evolutivo.
Ne è conseguita un'anomala dilatazione dell'assistenzialismo industriale direttamente o indirettamente a carico dello Stato, che si è accompagnata ad una contrazione degli spazi del capitalismo privato. Quando è sopravvissuto, il capitalismo privato è rimasto allo stadio di capitalismo di famiglia e non ha trovato la strada per trasformarsi in capitalismo "pubblico"; nel senso anglosassone di capitalismo realmente collettivo, come si è venuto sviluppando negli altri Paesi industriali, dove le azioni dell'Ibm o della Philips o dell'At&t sono nelle mani di milioni di azionisti e dove le famiglie dei fondatori non sono più il fattore condizionante per la gestione e lo sviluppo delle aziende.
Il processo di accumulazione del capitale nel nostro Paese è in lenta ripresa, ma deve essere rilanciato e ampliato. Ampliato non solo nella dimensione, ma nel numero dei partecipanti. Occorrono più posti di lavoro in attività produttive vere, quelle che creano ricchezza e occupazione; ci vogliono più imprenditori e meno rentiers; più investitori orientati agli investimenti reali e meno risparmiatori che fanno un uso economicamente sterile del loro risparmio. Occorre creare le condizioni perché si possa realizzare una reale partecipazione di tutti al processo di crescita. Se non si riuscirò ad ottenere questo allargamento del numero dei partecipanti, tutti gli sforzi per rilanciare il nostro sistema produttivo saranno inutili.
Oggi è indispensabile costruire le condizioni per una reale democrazia economica. Ciò significa riscoprire il vero significato di mercato in cui la più ampia pluralità di operatori produttivi (siano essi imprenditori, lavoratori o risparmiatori/investitori) possano trovarsi di fronte ad un altrettanto ampia pluralità di alternative e di opportunità.
Questa esigenza è particolarmente pressante per il mercato dei capitali che oggi rappresenta forse il maggiore ostacolo allo sviluppo di una democrazia economica. Noi imprenditori dobbiamo renderci conto che è questo il prima nodo da affrontare. Sono troppo poche le imprese che riescono a crescere. Il vincolo finanziaria rappresenta un pesante freno che ha condotto tante imprese verso gli unici sbocchi possibili: il sommerso e il brambilismo; l'ibernazione nel sistema dell'assistenzialismo di Stato; il take aver da parte del capitale estero.
Un sistema produttivo basato su un limitato mercato azionario e finanziario diventa inevitabilmente un sistema di monopolio, all'interno del quale il potere economica viene gestito da ristretti circoli che mirano all'autoconservazione, assai più che allo sviluppo del Paese. Un sistema basato sulla democrazia economica, invece, è per definizione un sistema orientato allo sviluppo. E in questo sistema il profitto giuoca un ruolo critico.
Negli ultimi tempi si è scritto molto sulla "riscoperta" del profitto, ma si sono anche scritte molte cose sbagliate. Il profitto non è un valore in sé; né la riscoperta del profitto significa l'avvio di un processo di restaurazione e riflusso che debba necessariamente andare a scapito dei lavoratori. Questo forse è vero in un capitalismo di tipo oligopolistico, dove non esiste controllo sull'uso del profitto. Ma in una democrazia economica il profitto è semplicemente uno strumento dello sviluppo ed una misura del successo o meno di un'impresa. E'' uno strumento dello sviluppo perché consente l'indipendenza dell'impresa e la capacitò di investire (e di rischiare) per il nuovo e per la crescita. E' un indicatore per il mercato e per i risparmiatori, per una valutazione obiettiva sulla convenienza delle diverse alternative di collocazione delle risorse finanziarie.
In una democrazia economica, il risparmiatore investe i suoi soldi in aziende che si sviluppano, perché sono condotte con imprenditorialità. Un sistema di capitalismo oligopolistico o monopolistico tende a confondere le carte: il profitto, quando c'è, non è più una misura affidabile in un sistema in cui imprese decotte possono sopravvivere mediante l'utilizzo perverso delle risorse collettive. Credo, quindi, che il ritorno al mercato sia lo strumento-chiave per creare un sistema di democrazia economica, dove la presenza di un sempre più ampio numero di operatori impedisce quelle storture e prevaricazioni che sono tipiche, invece, di quei sistemi in cui manca il mercato e quindi ogni forma e capacitò interna di autocontrollo.
Il rinnovamento del capitalismo italiano non può prescindere dal considerare quelle tendenze sulle quali l'Italia non ha possibilità di controllo. Oggi, nel quadro internazionale, è in atto un profondo mutamento dei sistemi industriali. Il mutamento che appare visibile nei due Paesi leader, gli Stati Uniti e il Giappone, non può essere più definito limitativamente come un semplice processo di ripresa congiunturale, ma è piuttosto l'avvio di un nuovo ciclo di sviluppo basato su una radicale trasformazione delle imprese, delle istituzioni, dei prodotti e dei processi produttivi.
Questo quadro di mutamento si presenta con due aspetti determinanti:
- un processo di innovazione globale che è spinto dalla innovazione indotta dalle nuove tecnologie, ma che coinvolge tutti i settori e tutte le attività fino a comprendere l'intero sistema-Paese;
- nuovi modelli di internazionalizzazione che determinano fortissime spinte alla creazione di nuove, complesse interdipendenze tra le imprese e tra i sistemi economici oltre i confini, moltiplicando straordinariamente le opportunità, ma anche la competizione su scala mondiale.
Entrano in crisi le teorie economiche tradizionali, il modello classico dell'impresa multinazionale lascia il posto al manifestarsi di nuovi, positivi intrecci tra imprese secondo ottiche transnazionali di mercato aperto. Si riducono gli spazi per nicchie nazionali protette. Per tutti, la conquista del mercato nazionale ed internazionale diviene una battaglia continua contro un numero crescente di competitori.
Di fronte a queste due sfide che stanno cambiando il quadro internazionale, il modello del capitalismo italiano reagisce in maniera inadeguata, perde colpi. Nei confronti dei processi innovativi la risposta è parziale e limitata. La domanda mondiale richiede e richiederà sempre più beni che l'Italia produce in maniera limitata, e mi riferisco non solo ai beni che incorporano le nuove tecnologie, ma anche ai prodotti tradizionali che però subiscono un positivo e radicale contagio da parte dell'innovazione nei prodotti stessi e nei processi produttivi.
L'atteggiamento scarsamente attivo di molte imprese di fronte alla sfida dell'innovazione è conseguenza del mancato legame nel nostro paese tra risparmio e investimenti per l'innovazione. Non vi è dubbio che larga parte della capacità innovativo delle imprese americane è frutto dei nuovi canali finanziari che consentono di avviare il risparmio verso la creazione di nuove imprese e verso le attività di ricerca più innovative.
Di fronte alla seconda linea di tendenza, quella del nuovo processo di internazionalizzazione, il sistema italiano reagisce in due modi, entrambi penalizzanti:
- la superficiale enfatizzazione della bandiera del "made in Italy", quando invece per creare e rafforzare una presenza non effimera sui mercati esteri occorrono oggi ben diverse modalità di internazionalizzazione, realizzabili attraverso complesse reti di integrazioni ed alleanze nei diversi mercati;
- la cessione passiva di imprese italiane a gruppi esteri. Mi pare che non si possano chiamare processi di internazionalizzazione operazioni di take aver a prezzi scontati di imprese italiane cui è stato tolta l'ossigeno per crescere o qualche furtivo scambio di pacchetti parcheggiati all'estero, deciso nel chiuso di due o tre salotti in cui è stato ridotto il controllo del capitale privato in Italia.
Innovazione e internazionalizzazione sono due fattori alla base del processo di trasformazione di quei sistemi industriali che crescono e che rafforzano la propria capacità competitiva. Ma innovazione e internazionalizzazione si possono sviluppare pienamente solo in un contesto dinamico di mercato pluralistico e non in un clima di conservazione e di monopolio. Anche per questi motivi, la creazione di un vero mercato si presenta come la sola strada offerta al sistema italiano per unirsi al gruppo dei Paesi industrializzati che crescono e che creano posti di lavoro.
La prima e più importante trasformazione necessaria per costruire un mercato pluralistico consiste, come ho detto, nella creazione di un più ampio mercato dei capitali. Occorre rafforzare alcune delle tendenze che stanno giù operando positivamente in questa direzione e che riguardano sia gli operatori sia gli strumenti finanziari.
Per quei che riguarda gli operatori, una prima linea di cambiamento proviene dai risparmiatori. Le famiglie stanno prendendo coscienza che il loro risparmio, affidato ai titoli pubblici, non trova destinazione in investimenti effettivi e che quindi l'elevata remunerazione ottenuta oggi in termini reali rischia di essere pagato assai cara domani attraverso il rinvio di un debito che non potrò mai essere pagato se non con una nuova inflazione.
Dopo il periodo degli anni'70, in cui il risparmio delle famiglie è stato di fatto rapinato da parte dello Stato e dopo l'ubriacatura di tassi assurdi, le famiglie sono ora alla ricerca di investimenti seri, che abbiano corrispettivi solidi e con prospettive di futuro. Quindi pretendono un mercato dei capitali allargato, al livello degli altri Paesi civili, dove sia possibile investire e toccare con mano i frutti del proprio risparmio.
Una seconda linea di cambiamento proviene dagli investitori esteri. Questi si sono avvicinati alla Borsa italiana dapprima timidamente, poi con crescente fiducia, quale conseguenza diretta della credibilità che alcune realtà industriali italiane hanno saputo acquisire all'estero. Vi èun afflusso di investitori istituzionali, attratti non tanto dal rapporto di cambio, quanto dalla forte sottocapitalizzazione e dalle prospettive di sviluppo delle imprese italiane. Questo flusso sta spingendo in maniera rilevante per allargare il campo degli investimenti e per far diventare adulto il nostro mercato azionario.
Anche sul piano degli strumenti finanziari qualcosa si è mossa. li fatto più appariscente è dato dai fondi di investimento, che hanno prodotto uno scossone violento al mercato dei capitali. il successo dei fondi èlegato chiaramente al cambiamento in atto nel comportamento dei risparmiatori che hanno trovato nei fondi una intermediazione professionale e affidabile. L'introduzione dei fondi di investimento ha offerto una via di sbocco al risparmio in alternativa ai titoli pubblici e la rapidità della loro crescita dimostra chiaramente che esiste una grande domanda latente per lo sviluppo di un vero mercato dei capitali.
L'insieme di queste tendenze, ancorché positive, non è sufficiente però a garantire il passaggio ad un mercato pluralistico. Il nuovo atteggiamento dei risparmiatori, italiani e stranieri, così come la disponibilità di un nuovo strumento finanziario quale sono i fondi di investimento, rischiano di essere soffocati nel loro ruolo innovativo da altri comportamenti e strumenti del capitalismo italiano che restano legati a vecchie mentalità e a situazioni di tipo monopolistico.
Esiste quindi il rischio che anche i fondi di investimento siano "canalizzati" - e dunque sterilizzati nella loro funzione di promozione del mercato - attraverso controlli e vincoli sul loro modo di operare. Si avrebbe così un sistema chiuso, denso di norme e di rapporti personali: un sistema vecchio e fin troppo noto.
La nascita di una democrazia economica può avvenire solo nella moltiplicazione delle iniziative, nella pluralità delle alternative. Il banco di prova dei nuovi strumenti d'intermediazione finanziaria (comprese le merchant banks) sarà la reale capacita di sviluppare una pluralità di attori e di consentire un reale ampliamento del mercato. Altrimenti, si continuerò nella consueta ginnastica dei fittizi e improduttivi giri interni di denaro che arricchiscono alcuni, ma non il Paese.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000