Quelli che vanno all'ultimo confine, passano sempre il limite




Giuliana Giuliani



Se supponiamo che un lettore alquanto sprovvisto di conoscenze cronologiche circa le ideologie anarchiche dell'800 e piuttosto privo di approfondite cognizioni storico-letterarie, si trovasse a leggere l'opera di Bakunin, di Stirner e i "Demoni" dostoevskiani, potremmo sentirgli affermare che i tre pensatori attingono a qualcosa di profondamente comune che fa sentire una sostanziale identità di problemi. Questa semplice, "ingenua" considerazione ci porta subito al nocciolo della questione, vale a dire all'indagine dei motivi profondi che, al di là delle diverse cronologie, dei differenti ambiti d'azione, delle divergenti angolazioni dalle quali il tutto è considerato, poterono generare tre opere che ci pongono davanti allo stesso drammatico dilemma: individuo o società?
Ho cercato di chiarire subito la motivazione che ha indotto il tentativo di avvicinare tre tematiche storicamente e culturalmente diverse ma che, pure, emotivamente, si avvertono simili e nate, quasi, da un antico travaglio. Siccome questa sarà la conclusione a cui questo breve lavoro vuole giungere, sarà opportuno soffermarci sulle differenze che distinguono i tre pensatori.
Non molto distanti cronologicamente vissero, In modo diverso, le ansie e i problemi connessi al nascente socialismo, passando attraverso esperienze di vario genere a contatto con la polemica ideologica e politica del tempo. Il maggiore per età è Stirner ma non tanto da essere considerato di una generazione precedente, poiché nato nel 1806, supera di soli 8 anni Bakunin e di 14 Dostoevskij, ma la dato di morte, 1856, lo distanzia dagli altri due che gli sopravvissero di parecchio, essendo Bakunin morto nel 1876 e Dostoevskij nel 1887.
Questi ultimi, provenienti dal mondo della piccola aristocrazia russa venuta a contatto con la cultura francese e tedesca, differivano per molti versi da Stirner che aveva radici culturali soprattutto nella sinistra hegeliana.
Tutti e tre, però, hanno in comune esperienze di contatti con eminenti personalità del mondo hegeliono di sinistra e del movimento socialista e comunista. Sono gli anni in cui, in Russia, comincia a fiorire una letteratura sociale di cui Gogol è l'esponente più prestigioso. Cade proprio in questo arco di tempo la prima attività letteraria di Dostoevskij che, uscito dal collegio militare nel 1843, è arrestato nel 1849 per aver partecipato ai convegni dell'associazione fourierista, affascinato da Owen e da Proudhon e dai primi contatti col pensiero comunista. "Povera gente" del 1846 diviene, a giudizio del critico Belinskij, il primo tentativo, in Russia, di romanzo sociale anche se il critico Majkov, sempre nel '46, dimostra di intuire la natura diversa del genio dostoevskiano tanto che sembra opportuno riportarlo per intero: "Dostoevskij, meno di ogni altro, può essere chiamato imitatore di Gogol perché questi è un poeta essenzialmente sociale, Dostoevskij è essenzialmente psicologico. Per l'uno l'individuo è importante come rappresentante di una certa società o di un certo ambiente, per l'altro la stessa società è interessante per il suo influsso sulla personalità dell'individuo". E' già chiaro, dunque, il valore che l'individuo assume nell'opera di Dostoveskij nel quadro di quella formazione che si era alimentata alle fonti del socialismo e del cristianesimo di cui il personaggio di Satov sarò la più geniale fusione, punto d'incontro e di superamento del fanatismo politico-sociale che trova la sua intima contraddizione in un egoismo che ha le tinte patologiche del sado-narcisismo e del cristianesimo scaduto e irrigidito in superstiziosa rassegnazione e fariseismo: così Verchovenskij. Dopo il '49, le esperienze del penitenziario, il confino in Siberia avevano approfondito il contatto con la vita popolare e Dostoevskij aveva sentito tutta la distanza tra contadini e nobiltà da cui uscivano minoranze rivoluzionarie. Lentamente si delinea in lui il sogno di una unità di cultura e di popolo per un socialismo cristiano.
Tutte le esperienze di critica al capitalismo dell'Occidente non servono a fargli rinnegare la cultura europea ma, anzi, alimentano il sogno universalistico di una sintesi democratico-religioso russa dei ceti colti e delle masse popolari. Il rapporto con Herzen sembra accentuare l'interesse di Dostoevskij per l'uomo al limite, alla frontiera tra il valore supremo e il nulla totale. "Quelli che vanno all'ultimo confine, passano sempre il limite" dirà nei "Demoni", e l'atmosfera emotiva di un giudizio che ha quasi la terribilità di una sentenza divina, di un enigma oracolare, richiamo come sfondo la fondazione stirneriano della propria causa sul nulla. Si è toccata, a questo punto, la nota sotterranea e dolente dell'ateismo che ha come riscontro speculare la ininterrotta e spasmodica tensione verso una fede che rimane l'unica possibilità capace di consentire all'uomo di varcare il fiume della vita su una trave e non su una scheggia, come dirò Stavroghin, nella lucida e tragica confessione finale. E' il prezzo che l'individuo paga quando, senza il conforto della fede, dei valori tradizionali, dell'ambiente, alla ricerca di una propria autonomia spirituale che lo mette in rivolta contro Dio e la società, varca il confine per approdare inevitabilmente al suicidio, vissuto o alla maniera di Kirillov, come allucinata autoaffermazione o alla maniera di Stavroghin, come estrema coscienza: non si può non pensare a Stirner, quasi suicida, per inedia.
Se Bakunin aveva previsto l'estrema difficoltà dell'individuo in rivolta a varcare il confine, Dostoevskij ne dà l'esito tragico che ha i toni della misteriosa terribilità del destino incombente sui mitici eroi della tragedia greco, rei di atti di

contro l'armonico avvicendarsi degli eventi e, perciò, artefici della propria espiazione.
"Guai ai duri di cuore, perché il peccato contro lo spirito non può essere perdonato: esso ha già in sé la sua condanna". E' questa la consapevolezza psicologica che porta Dostoevskij ad approfondire, in termini diversi, in un affiato di universale ed eterno, i temi bakuniniani e stirneriani della rivolta individuale che egli non rinnega, come una certa critica ha sostenuto, facendo di lui un rivoluzionario pentito o un reazionario conservatore, ma anzi approfondisce in una sintesi etico-filosofica. E' pur vero che dopo il 1863, con "Osservazioni invernali su impressioni estive", Dostoevskij aveva accentuato la critica alla civiltà capitalistica con una valutazione che diveniva, dopo il suo lungo peregrinare in Europa, sempre più etico-storica. E' pur vero che, dopo il 1872, l'amicizia con ambienti conservatori crea ripensamenti espressi con il gusto dell'autodenigrazione che gli era conforme, ma è vero anche che gli ideali di libertà dello spirito, identificati, prima, con quelli della ribellione politica, avevano assunto ormai altra veste ed altro significato alla luce della consapevolezza dei meccanismi che muovono l'agire umano. Gli eroi del nichilismo sono, ad un esame più profondo, mossi da motivazioni personali: su questa strada la valutazione di Dostoevskij tende a divenire etico-filosofica e a trascendere la polemica politica.
Il fatto di cronaca che ha ispirato il romanzo (lo studente Ivanov viene ucciso da ex compagni, perché ha tradito la causa) mette in moto, nell'analisi dostoevskiana, la ricerca di quei motivi profondi, individuali, inespressi, dei meccanismi nevrotici che si instaurano per la pressione esercitata dalla società. E' qui che l'analisi lucida e minuziosa sembra accomunarsi a quella di Stirner e preannunciare le altrettante lucide analisi nietzscheane, risuonando di temi kierkegaardiani. Ma dove le pagine di Stirner brillano di una luce metallica, nell'affermazione ferrea e quasi isterica della lotta ideologica, dell'antidogmatismo, del diritto della coscienza individuale, i temi di Dostoevskij si dilatano in una problematicità assai più vasta, in una prefigurazione dei futura, in un trascendimento della coscienza singola. Sicché molte pagine di Mann, Gide, Camus, Lawrence e Faulkner, sembrano risentire di tale sconvolgente umanità, colta nella sua contraddizione tra meschinità e titanismo, spiritualità e nevrosi, nell'oscillazione tragica tra la coscienza di un uomo e dell'uomo. Da questo, forse, nasce in Dostoevskij la satira contro gli ipocriti progressisti alla maniera di Turgenev, deriso nei panni del letterato Karmazinov, contro gli intellettuali che si trastullano con le idee del liberalismo al modo di Verchovenski.
Si accentua inoltre la condanna verso i presuntuosi e cinici demoni: essi sono distruttori di valori, dell'autonomia dell'arte, somigliano ai suoi nemici di venti anni prima cui erano più familiari Fourier e il socialismo prequarantottesco, che Marx e Bakunin. I toni della satira si attenuano in quelli della parodia in "una figura luminosa" che, dai rivoluzionari dei "Demoni", è attribuita a Herzen. Si può parlare, quindi, di una involuzione reazionaria nel pensiero di Dostoevskij? O la sua non è, piuttosto, sofferenza, per il prevalere delle tendenze positivistiche note in Russia sotto il nome di nichilismo che egli avverte come sdoppiamento dell'essere e dei valori, come instabilità della ragione, allucinazione della coscienza morale, smarrimento e vuoto nel passaggio dal vecchio al nuovo, come arido intellettualismo, nel condurre un'attività rivoluzionaria che egli, alla maniera di Satov, vorrebbe che fosse messaggio profetico di pacifismo, di universalismo, di autonomia spirituale? E'a questo punto che risulta difficile cogliere le tinte emotive assai diverse che colorano gli identici temi stirneriani e bakuniani. Anche Stirner appartiene al filone antiautoritario delle strutture esistenti del potere, comune ad entrambi fu l'esperienza della sinistra hegeliana e l'ammirazione per Proudhon; anche l'analisi del "Unico" presento complessità d'interpretazione etico-filosofica, ispiratore, forse, dello stesso Bakunin che lo conobbe a Berlino intorno al 1840. Anche per lui vale l'ambiguità circa la possibilità di interpretarlo in maniera reazionaria: infatti uno studio di Hans Helms del 1966 ha ampiamente provato che a lui si ispirarono Mussolini e Hitler. Ettore Zoccoli, nel 1901, ebbe a dire di lui che fu creatore di un vangelo criminale, di un decalogo sovversivo ispiratore di forze demoniache. E' stato inoltre stabilito un punto di contatto tra l'egoismo stirneriano e il superuomo nietzscheano, a lui si rifece ampiamente la contestazione giovanile del 1968. Ribellione-egoismo-affermazione dell'individuo ispirarono le direttive anarchiche dei liberatori individualisti americani di fine secolo, l'armonismo di Kropotkin, la passione religiosa pacifista di Tolstoj ma anche il fascismo e il nazismo. E' dunque così difficile parlare del valore e dei valori dell'individuo? E' così facile smarrire se stessi e far smarrire, ogni qual volta la libera volontà rivendica se stessa in un'ansia di autonomia e di riscatto? Tale dubbio non sembra sfiorare le pagine stirneriane dell'"Unico" a volte prolisse, dense di ripetizioni e di filosofemi ma sempre lucide, penetranti, incisive, sostenute da una spietata analisi razionale che non teme di giungere alle conseguenze più estreme, mentre il dubbio sembra attanagliare i demoni e soprattutto Stavroghin di cui Dostoevskij non fa un super-uomo di fine '800 perché è assai lontano dalla sensibilità dei decadenti. Egli, anzi, sente la sua tragica colpa e la fatalità della malattia. E' il dubbio che si traduce in appassionato slancio di fede in Satov in cui confluiscono le immagini dello studente Ivanov e di se stesso, tanto da fargli dire quello che nel 1854 aveva scritto dalla galera ad un'amica: "se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori dalla verità e fosse realmente così, che la verità fosse fuori di Cristo, io preferirei rimanere con Cristo piuttosto che con la verita".
La stessa ricerca, dunque, ma con esiti e stati d'animo differenti poiché la dove Stirner e Bakunin avvertono con esultanza ed adolescenziale tracotanza la rivolta della coscienza individuale, senza soffermarsi mai un attimo sulle sofferenze, le devianze che essa comporta, sugli esiti sociali e sul prezzo che l'individuo in rivolta paga e fa pagare, Dostoevskij indugia ed indaga sulle profondità della coscienza, sulle lacerazioni nel tessuto dell'Io che la ragione allucinata provoca, sull'inanità di scoprire in sé energie smisurate che poi l'Io non so a pro di che cosa o di chi usare, sulla disintegrazione di quell'Io che, in fondo, è somma di valori illuminati dalla chiara luce di una fede che trascende sempre l'evento, il transeunte, il particolare e chiarisce i vasti orizzonti di un futuro in cui l'umanità si ritrovi libera in quanto somma di individui autocoscienti e consapevoli, in una sorto di situazione edenica dove l'io non si smarrisce disintegrato e dissolto ma si dilata nell'infinito universo dell'uomo, consonante con l'armonia del tutto, riconciliato con la contraddizione del molteplice, in una superiore consapevolezza del destino umano che, mentre trascende la volontà del singoli le conferisce quella regale autonomia che è il sigillo della libertà spirituale. Per Stirner, la realizzazione del'Io è solitudine e silenzio della storia, per Dostoevskij è solidarietà e comunione di intenti e di fini. Conservatorismo e reazione, dunque, o solo mancanza di fede in Stirner e dolorosa consapevolezza del meschino e del transeunte in Dostoevskij? La luce del messaggio del Cristo fece trovare al secondo accenti di accorato profetismo, di coraggioso difesa di quell'anarchismo cristiano che dava ai martiri il coraggio di ribellarsi alla istituzione dell'Impero, al servizio militare, alle guerre, che faceva enigmaticamente dire al Cristo di fronte a Pilato: "io sono la verità".
Ma la serena sicurezza delle parole del Cristo non è attingibile se non è radicata nella consapevolezza profonda della fede nell'uomo e nell'armonia d'amore che governa gli eventi, se non è alimentata dalla sorgente di valori eterni ed immutabili, se non è idealisticamente proiettata nella circolarità dell'Essere. L'Io stirneriano e la rivolta bakuniniana sono tutt'altra cosa: sentono del pari che la dignità dell'uomo coincide con la sua libertà, avvertono parimenti il diritto, saremmo tentati di dire, naturale, all'autoaffermazione ed all'autofondazione dei propri valori, ma si avvertono come fenomeni isolati e transitori, racchiudono il tutto nel sé, non dilatano il sé nel tutto. E' proprio spinto da questa mistica intuizione che al tempo stesso èindagine di tipo psicoanalitico ante tempus, che Dostoevskij crea quel tono denigratorio e doloroso che fa da elemento unitario in tutto il romanzo. Ma la denigrazione è solo rammarico per la cecità di chi non vede o forse non vuole vedere, l'esito religioso non è defezione, scoramento o fuga ma consapevolezza, si vorrebbe dire storica, dei destini umani. In Stirner, al contrario, la denigrazione è solo per chi non possiede forza e lucidità tali che gli consentano di varcare il confine, il tono asciutto e tagliente, sicuro ed ottimistico, non lascia trapelare i tormenti del dubbio, gli smarrimenti del cuore, i mostri dell'inconscio che come forza cieca sembrano dominare l'azione e il pensiero dei demoni dostoevschiani.
Nei "Demoni" - scrive Leone Ginzburg - la poesia s'innesta sul tronco originario del libello politico, che ne viene profondamente modificato ma non certo trasformato per intero: a Dostoevskij premeva soprattutto di potersi sfogare contro gli inconcludenti liberali della sua generazione e contro i rivoluzionari senza scrupoli che, di venti o trenta anni più giovani, intorno al 1870, stavano sostituendo i suoi coetanei sulla scena politica russa; e in quell'epoca gli sembrava di non trovare mai parole abbastanza forti per svalutare o rimpicciolire, con la foga di autodenigrazione di certi suoi personaggi, le opinioni che aveva professato un tempo e gli uomini che gliele avevano ispirate".
Tuttavia l'aver provato per queste idee e questi uomini quella rabbia dolorosa che sempre ci ispira ciò che abbiamo assai amato, quando ci delude e ci inganna, non impedì a Dostoevskij di ritornare lentamente sulle sue posizioni, dopo aver esaurito nei "Demoni" quella sorta di doloroso sfogo della fiducia delusa e tradita. Rende quasi giustizia alle sue idee giovanili che ora egli può accettare in maniera assai diversa perché ha sperimentato, nella comprensione della solitudine e della sofferenza del Cristo, la solitudine e la sofferenza di tutti gli uomini, perché quando, un anno prima di morire, commemorando Puskin, parlerà di universalismo e di missione di cui prefigurazione è lo spirito russo, saprà di parlare di un regno che non ha potere in questo mondo, ma di un regno dove una umanità libera, riscattata e pacificata crederò in Dio, appagata in quell'ansia di fede che aveva fatto dire a Satov: "Io... io crederò in Dio". Non rifiuto, quindi, dei valori libertari e rivoluzionari ma nuova e solenne interpretazione dei temi che lo avevano accomunato a Stirner e a Bakunin. Entrambi avevano parlato di un ideale come negazione riflessa e progressiva dell'animalità umana, di evoluzione che nasce dal pensiero e dalla rivolta in quanto uno approdo alla scienza e l'altra alla libertà, ma non erano arrivati ad una sintesi in cui il bene potesse rendere ragione del male, in cui il divenire mostrasse l'ambiguità dell'enigma eracliteo e della sapienza greca. Bakunin e Stirner sembrano ignorare il male perché, in fondo, conservano una visione manichea dell'essere nel mondo e credono di esaltare il bene solo perché disconoscono il male e lo separano da esso. Vogliono fare quel che avrebbero voluto i servi stolti della parabola evangelica del grano e della zizzania, ma Dostoevskij so che questa è tracotanza giovanile o ostinata immaturità o forse ignoranza delle profondità del sottosuolo.
Egli sa che il bene e il male sono solo le proiezioni della nostra coscienza, i tratti di un medesimo volto, illuminati dalla fede o distorti da foschi giochi di luce. Sono i tratti del volto di Stavroghin, eroe per certi versi stirneriano con in più la dolente consapevolezza del suo limite umano, dell'inutilità della suo prova, degli sconosciuti meandri del suo doppio.
Pëtr Verchovenskij sembra assumere, via via, quasi magicamente, in una sorta di prodigio alla Dorian Gray, un'altra faccia, mentre manifesta quella che crede la sua, convinto di agire per purezza di ideali, ma disumano per fanatismo politico, adulatore e pronto a servirsi di tutto per i suoi fini, quanto più vorrebbe mostrarsi eroe politico tanto più si manifesta uomo meschino, vittima di se stesso. Coinvolge, chi lo avvicina nella tempesta della sua distruttività che sembra ideale di verità e di giustizia. Stirner e Bakunin non seppero, non poterono o non vollero vedere tutto questo e perciò la loro rivolta ha connotati della durezza, dell'unilateralità, del fanatismo e del solipsismo. Sta in questa mancanza quello strano esito che ebbe il loro messaggio il quale si apprestò ad aberranti interpretazioni di tipo nazi-fascista. Fu l'estrema beffa per un messaggio che, volendo essere inno di incondizionata autonomia, divenne verbo autoritario ed oppressivo della tirannide. E' la beffa del male che, ignorato, si vendica, paralizzando o distorcendo il bene. E' possibile così spiegarsi l'apparente assurdità del fenomeno cui si è accennato e darsi conto di quel senso di incompiuto, di utopistico, di astratto ed intellettualistico che la lettura dell'"Unico" o di "Dio e Stato" lasciano nel lettore.
Manca in essi l'afflato umano, la contraddizione che alimenta il divenire, l'ambiguità che è il modo di rivelarsi del divino nel mondo, la speranza in una segreta e superiore sapienza che, celata ai sapienti, si manifesta ai puri di cuore.
Forse in queste realtà emotive, mutuate dal Vangelo, concettualizzate dopo lungo travaglio di vita, si nasconde la sovrumana forza di penetrazione di Dostoevskij, tanto da conferire alle sue pagine la sacralità del profetismo. Egli non si era limitato a pensare ai poveri, ai reietti, a coloro che soffrono per l'oppressione, l'ingiustizia, che si disprezzano quando accade loro di toccare il fondo della debolezza e della miseria, non li aveva solo pensati questi uomini ma li aveva tutti vissuti in sé, nella sua varia e contraddittoria umanità che aveva recepito e custodito con una prodigiosa memoria emotiva, lo sguardo infantile degli occhi azzurri del forzato morente, la disperazione celata nel vuoto degli sguardi, della povera gente, la dignità della prostituta innocente, la tragica disperazione di una bimbo violentato. Tutti i sentimenti, le emozioni, i vizi e le virtù hanno un volto, uno sguardo, una singolarità irripetibile.
In questo il poeta supera il teorico: perché l'uno pensa ciò che ha sentito, l'altro cerca di sentire ciò che ha solo pensato.


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