Linee dell'evoluzione della dottrina economica contemporanea




Gennaro Pistolese



La scienza economica, in questi ultimi decenni, si è distinta oltre che con l'ampiezza dei progressi conseguiti sul piano non solo teorico ma anche metodologico (e perciò con nuovi originali approfondimenti in tema di ripartizione del reddito, di commercio internazionale, di demografia) pure con la prospezione e la sua puntualizzazione sui fenomeni immediatamente offerti dalla realtà economica e sociale del momento. E lo sforzo è stato così rivolto a fornire diagnosi, spiegazioni, terapie, come è nella vocazione di ogni scienza che è naturalmente portata ad esulare dalle astrazioni.
Un primo campo d'indagine ha riguardato la grande depressione degli anni Trenta, che costituisce lo spartiacque fra i due momenti della scienza economica moderna: la fase della prima guerra mondiale e del periodo immediatamente successivo, la fase della seconda guerra mondiale con le sue conseguenti implicazioni, che non si sono esaurite, anche per la serie di contrasti di indirizzi e di valutazioni che ne sono derivati e ne derivano fra interpreti ed operatori.
Quando si è affrontato questo specifico aspetto del quadro economico, dei suoi fattori determinanti come delle sue conseguenze, gli interrogativi che si sono levati sono stati molteplici. Ci si è domandato se nelle economie capitalistiche vi erano latenti o palesi fattori che più o meno necessariamente bloccavano lo sviluppo. Ci si è domandato inoltre se la minaccia di ristagno era da porsi ineluttabilmente nel conto, come segno di crisi del sistema prima ancora ed oltre una crisi nel sistema. In queste correnti del pensiero molto spesso però sono affiorate più che altro pregiudiziali pure ideologiche, che hanno dato per dimostrato ed inconfutabile ciò che tale invece non era e se mai più che dar luogo a condanne inappellabili richiedeva e richiede aggiustamenti interpretativi ed applicativi. A questa luce vanno intese le elaborazioni, che hanno costituito il secondo aspetto del pensiero economico di quest'ultimo trentennio, e cioè quelle riferentisi alla contrapposizione capitalismo-comunismo, nella ricerca del pro e del contro esistenti nei due sistemi e rilevabili in una realtà che certamente, ormai, non offre punti oscuri, dimostrando fra l'altro chiaramente i diversi gradi di verità, di elasticità, di adeguamento. Ma di ciò parleremo più oltre.
Terzo importante impatto della scienza economica è stato ed è tuttora quello che investe la ricerca dei metodi migliori di ricostruzione e di espansione delle economie, all'indomani della seconda guerra mondiale, delle fasi di congiuntura favorevoli o sfavorevoli che si sono succedute e che pur nei momenti propizi non hanno eliminato alcuni fattori negativi a carattere più o meno cronico e strutturale (sottosviluppo, distacchi fra Nord e Sud e così via).
Quarta ed ultima angolazione dalla quale derivano molte espressioni del pensiero economico è quella appunto della prospezione delle economie sottosviluppate e delle strade dirette a stabilire equilibrio e condizioni di espansione. l'alternativa fra sviluppo e ristagno, e cioè fra la predisposizione del prima, ed il superamento del secondo senza il miracolismo ed il messianesimo derivanti da alcune ideologie, ma sulla base di un disegno validamente mirato e fondato anche sull'esperienza di studi e di prassi, costituisce pertanto la grande sintesi sulla quale si è cimentato e si cimenta tuttora il pensiero economico, nelle convalide e nelle smentite che le diverse correnti di detto pensiero vengono determinando con il travaglio dottrinario in corso.
Secondo Emile James, sei sono le linee di possibili analisi dell'evoluzione dottrinaria di quest'ultimo periodo, ed egli così le traccia nella sua pregevole "Storia del pensiero economico".
a) determinazione delle molteplici, ma univoche, espressioni del pensiero keynesiano.
b) destino del capitalismo e del comunismo, con le convergenze e divergenze di pensiero che ne sono derivate nel tempo e che certamente hanno modificato le manifestazioni del primo, mentre per il secondo hanno comportato deviazioni dottrinarie e politiche dai principi originari, molti dei quali - e certamente i principali -hanno registrato secche ed inconfutabili smentite, provocando anche autocritiche e distacchi che sono sotto i nostri occhi.
c) la ricerca e l'adozione di nuovi metodi d'analisi, che sono certamente il frutto dell'ampliamento progressivo e comunicativo delle sedi di studio e del loro soggetti a livello di scuole e di laboratori di ricerca con il moltiplicarsi anche delle aree e delle occasioni di indagine fornite dal mondo politico e produttivo.
d) lo sforzo di determinazione di una dinamica a breve termine, che è quanto dire la ricerca delle strade più valide che una politica economica diretta all'equilibrio ed allo sviluppo deve percorrere.
Le scelte di queste strade sono molto ardue, e vanno da quelle rigorose a quelle più possibilistiche e dinamiche, investendo ormai nelle economie occidentali più il tema della programmazione e progettualità che non quello della pianificazione più o meno rigida. Mentre a questa continua ad essere ancorato il sistema del socialismo reale (pur con gli insuccessi che registra e qualche spiraglio che si apre e si tenta di aprire qua e là), nell'Occidente la politica economica e la scienza economica più affermate puntano sull'operatività di economie di mercato condizionate da specifici interventi di riequilibrio e di progettualità mirata.
e) l'analisi delle teorie dello sviluppo, sotto la spinta dei fattori politici, sociali, economici e tecnologici che lo secondario.
f) la prospezione dello sviluppo nell'ottica della cosiddetta posizione dominante.
Ed eccoci alla disamina di questo lungo ed attraente itinerario, che è poi quello che gli addetti ai lavori a livello politico, sindacale, produttivo e di studi economici quotidianamente percorrono.
Per quanto riguarda il pensiero di John Maynard Keynes (1883-1946), il punto maggiore di riferimento che egli ci ha lasciato riguarda la sua "General Theory of Employment, Interest and Money" (Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta), che è stato pubblicato nel 1936. Prima di allora egli aveva pubblicato un saggio sulle "Conseguenze economiche della pace" succeduta alla prima guerra mondiale, un saggio cioè nel quale fra l'altro prendeva posizione contro la politica interalleato delle riparazioni, rilevando che la Germania non avrebbe potuto pagare molto senza influire sul commercio estero dei suoi creditori, divenuti suoi concorrenti. Se guardiamo alla politica statunitense all'indomani della seconda guerra mondiale nei confronti dei Paesi ex nemici, vediamo che molte opzioni keynesiane sono state tenute presenti soprattutto con il Piano Marshall.
Nel preambolo della sua Teoria Generale c'è fra l'altro una grande professione di fede, il che è essenziale soprattutto per un uomo di scienza che deve poter credere nell'incisività reale del proprio pensiero come pilastro anche di successive costruzioni.
Scrive, infatti, Keynes: "le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto si ritenga comunemente. In realtà il mondo è governato da poche cose all'infuori di quelle". Ed aggiungeva: "Sono sicuro che il potere degli interessi costituito è assai esagerato in confronto con la progressiva estensione delle idee". E concludeva: "presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male". Quanto sia attuale questa asserzione non ha bisogno di essere sottolineato, anche dalla nostra specifica angolazione nazionale, alla luce pure di questa seconda asserzione sempre di Keynes, secondo cui "nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent'anni di età, cosicché le idee che funzionari di stato ed uomini politici e perfino gli aviatori applicano agli avvenimenti correnti non è probabile che siano le più recenti".
La conseguenza è poi quella di voler far prevalere la demagogia sulla scienza, con tutti i periodi oscuri che ne derivano per le economie e per la scienza stessa, quando questa rinuncia alla sua doverosa ispirazione per divenire succube delle ideologie.
Le motivazioni che Keynes ha seguite nel tracciare la sua "Teoria" sono da ricercare nella specifica situazione britannica con riguardo alla disoccupazione in atto fra le due guerre mondiali. Siffatta disoccupazione contrastava con le teorie classiche o neoclassiche e particolarmente con la "Theory of unemployment" di Pigou, secondo cui non poteva esservi una disoccupazione involontaria prolungata, dovendo la disoccupazione trovare rimedio in un abbassamento dei salari reali, abbassamento che aumentando la domanda di lavoro avrebbe potuto accrescere il livello di occupazione. A tale tesi si oppone invece Keynes, partendo dalla possibilità di una disoccupazione permanente, nell'ottica di una prospezione nuova delle forze regolatrici dell'attività economica, con riguardo ai fattori che determinano il livello del reddito, alle condizioni d'equilibrio, per il quale il pieno impiego è fattore determinante.
Scrive Laurence R. Klein, Premio Nobel per l'economia, che nella teoria economica keynesiana, si distinguono due branche. La prima è quella teorica che offre un'esposizione analitica del funzionamento dell'economia nella sua interezza. E si tratta di una branco che è presa d'assolto all'interno del dibattito accademico sulla forma ed il contenuto della macroeconomia. E si deve aggiungere che questo dibattito è stato accelerato sia dall'attualità della problematico presa ad oggetto delle proprie teorie da Keynes - e ci riferiamo all'occupazione ed allo sviluppo, temi dominanti quanto non mai oggi nella dialettica e nella realtà economiche - sia dal centenario della nascita di questo pensatore che è caduto nel 1983 e suscita ancora studi ed approfondimenti, con un'intensità insolita nei confronti di altri studiosi e capi scuola. Si è dovuto, infatti, rilevare che gli studi tuttora pubblicati possono essere uguagliati quanto a numero solo a quelli concernenti Carlo Marx ed il suo "Capitale".
La seconda branca è quella di politica economica della teoria economica keynesiano che ha a che fare con l'utilizzo congiunto delle politiche monetarie e fiscali per la stabilizzazione dell'economia ad alti livelli di attività.
Un distacco sostanziale dal pensiero classico, pur ammirato da Keynes in tante sue espressioni, si verifica sulla constatazione di questo studioso secondo la quale dette espressioni non erano abbastanza generali ed erano per lo più ancorate alla valutazione di una situazione particolare e cioè a quella che tende alla piena occupazione ed a tale risultato non perviene. Keynes ritiene invece che sono possibili anche diverse situazioni che un quadro veramente generale non può, né deve ignorare. Compito della scienza, secondo Keynes, non è quello di considerare come dati il livello del l'occupazione, quelli dell'attività e del reddito , ma quello della ricerca a quale livello possono fissarsi, in ciascun momento, dette variabili. Dal che discende che non sono valutabili solo situazioni di pieno impiego, ma anche quelle di sottoccupazione, per le une e per le altre dovendo essere formulata una teoria complessivamente valida. In funzione di queste premesse Keynes pensa che una sott'occupazione può essere compatibile con una situazione di equilibrio, rispetto al quale tuttavia si deve osservare che il pensiero keynesiano non è strettamente definito ed adeguatamente chiaro, limitandosi esso all'affermazione che l'equilibrio stesso si realizza tutte le volte che l'offerta e la domanda globale delle merci si uguagliano.
In una situazione concreto, in base alla quale la domanda sia debole e l'offerta tenda ad adattarsi ad essa, restando ad un livello inferiore alle potenzialità produttive con la conseguenza di forze di lavoro disponibili ma non impiegate, ne discenderebbero condizioni qualificabili e riassumibili in quelle di un equilibrio di sottoccupazione.
Secondo i teorici delle scuole classiche un equilibrio di sottoccupazione è tutt'altro che ammissibile, ma secondo Keynes bisogna tenere conto del fatto che in qualsiasi economia, anche in equilibrio, vi sono sempre delle risorse inutilizzate, fra le quali vanno comprese quelle inerenti al potenziale lavoro, al pari di campi incolti, di miniere non sfruttate e così via.
Ed ecco alcuni principali cardini del pensiero keynesiano, che schematicamente formuliamo, per rendere più immediata la logica delle relative sequenze:
- il livello del reddito nazionale dipende da due categorie di spese, e cioè di quelle per consumi e di quelle per investimenti.
Le prime dipendono dalla tendenza psicologica a spendere una porzione più o meno alta del reddito di cui si dispone; le seconde continuano finché esiste uno scarto fra l'efficienza marginale del capitale ed il tasso d'interesse;
- detto interesse non è il prezzo del risparmio ed il risparmio stesso non può essere stimolato direttamente con un innalzamento del tasso di interesse, ma può esserlo indirettamente, mediante una diminuzione del tasso d'interesse, per mezzo di un aumento del l'investimento e del reddito. In sostanza l'aumento dell'interesse non sarebbe uno stimolo al risparmio, dato che il risparmio avverrebbe non a cagione del reddito sperabile come suo frutto con la conseguenza che non saremmo disposti a risparmiare di più se il tasso d'interesse si innalza. Sempre secondo Keynes, l'interesse, non essendo il prezzo del risparmio, non è che la somma che l'imprenditore paga ai detentori di risparmio per farli rinunciare alla liquidità, cioè alla forma monetaria di questo risparmio. Si ritorna così alla remunerazione del risparmio, di cui molti aspetti cacciati dalla porta rientrano nello stesso pensiero keynesiano dalla finestra;
- il livello dell'occupazione è collegato a questi antefatti ed ai fattori condizionanti che ne derivano, e non già al livello dei salari. Se in una data industria la diminuzione delle retribuzioni può essere stimolante, nel quadro generale essa si traduce in una diminuzione dei redditi disponibili per la spesa, con la conseguenza di deprimere il livello dell'attività e della stessa occupazione. Il livello dell'occupazione anziché dipendere dai salari ne determina l'ammontare.
Ma come si articola la politica keynesiana e quali sono le suggestioni che ne derivano in sede teorica ed applicativa?
Secondo Keynes, depressione e ristagno - i grandi mali di cui ciclicamente soffre l'economia - si combattono con quattro mezzi principali, e precisamente: l'adozione di una politica monetaria idonea all'espansione economica, con la messa in circolazione di una quantità abbondante di moneta, nonché con il mantenimento di un tasso d'interesse al livello più basso possibile. Secondo lui l'aumento dei prezzi non è inevitabile in caso di aumento della circolazione monetaria, e ciò perché in un sistema rigido in conseguenza della rigidità della produzione ciò potrebbe avvenire, mentre non altrettanto si verificherebbe in un'economia di sottoccupazione dato che in essa il livello è relativamente elastico. In tal caso l'aumento della circolazione provoca un aumento della occupazione. In linea di principio, secondo Keynes "finché vi sarà disoccupazione, l'accrescimento della quantità di moneta non produrrà alcun effetto sui prezzi: ogni aumento della domanda effettiva che ne risulterà si tradurrà in un aumento proporzionale dell'occupazione. Tuttavia appena sarà raggiunta la piena occupazione, l'unità di salario ed i prezzi si innalzeranno in misura esattamente proporzionale all'aumento della domando effettiva. L'offerta delle merci rimane perfettamente elastica finché esista una certa disoccupazione, e d'altro canto diventa rigida non appena è raggiunta la piena occupazione".
Una chiosa riassuntiva al riguardo è offerta fra gli altri dal ricordato Nobel Lawrence Klein, secondo il quale la teoria economica keynesiana attribuisce grande importanza al ruolo della moneta nell'economia, ma con una differenza dalle teorie monetarie correnti riassumibile nel concetto secondo il quale la moneta è importante (Keynesiani), ma la moneta non è tutto (monetaristi);
- l'attuazione di larghe quote di investimenti pubblici, come correttivo dell'influenza deprimente della diminuzione di investimenti privati e quindi degli effetti negativi che ne derivano sul reddito globale.
I grandi lavori pubblici, egli pensava, sboccano in nuove distribuzioni di reddito, movimentando l'economia e provocando nuova domanda. Va osservato tuttavia che queste specifiche terapie largamente praticate dalle politiche economiche, soprattutto da quelle dirigiste, più che essere discutibili nella loro adozione in linea di principio, vanno valutate soprattutto in relazione al dosaggio che se ne fa. E difatti sovvengono a questo riguardo le esperienze che sono state compiute al riguardo anche in Italia e che non tutte si sono concluse positivamente;
- una politica di redditi a profitto delle classi a più alta vocazione di spesa. Egli auspicava in sostanza l'eutanasia dei redditi, privilegiando salariati ed imprenditori che procedevano ad ampi investimenti. Egli tuttavia non auspicava né la scala mobile dei salari, né una stabilizzazione dei salari reali estesa ad un lungo periodo, dovendosi anteporre a tutto il problema della sottoccupazione. Come conseguenza Egli accettava che i salariati pagassero la piena occupazione con una diminuzione dei salari reali. Su questi grandi temi che dominano oggi il quadro economico, sociale e sindacale in tutto l'Occidente industrializzato, con la minaccia per esso di 31 milioni di disoccupati e che nell'angolazione italiana sono particolarmente pesanti anche in prospettiva - secondo alcune valutazioni fra dieci anni il nostro tasso di disoccupazione sarà del 6,6% al Nord (attualmente è pari all'8,6%) e del 25% al Sud (contro l'attuale 14%); - si proietta con la sua autorità anche la figura di Keynes, che va valutata anche nella congruità di questi specifici pensieri;
- il ricorso anche ad interventi di politica protezionistica, limitato tuttavia a certi casi perché nel suo pensiero esso coesisteva con principii favorevoli ai mercantilisti; interventi considerati come mezzo per aumentare i livelli occupazionali. In conseguenza le scelte libero - scambiste sarebbero valide solo nell'ipotesi della piena occupazione. Anche qui si tratta di accorti dosaggi, perché è noto che il protezionismo accentuato provocando reazioni a catena determina l'indebolimento dell'export e quindi anche contrazioni di attività e di occupazione.
In sostanza, il pensiero keynesiano se è certamente di ribaltamento della dottrina classica, nondimeno pur nella critica e negli aggiustamenti conserva la parte essenziale del capitalismo liberale.
Infatti, vengono riconosciuti il ruolo della proprietà privata e del risparmio, non prevedendosi per la prima sostanziale riforma di struttura e denunciandosi per il secondo l'insufficienza del l'investimento, con la proposta perciò di correttivi atti a realizzarne l'espansione. Dirigismo e pianificazione non entrano in questa concezione, se non in funzione di indirizzi di condotta economica e non già di stretti vincoli progettuali ed operativi.
E' dunque tutto una serie di fermenti che ha agitato e tuttora agita il pensiero economico in questo secolo, determinando progetti di strategia economica ad ampissimo raggio sia nel Continente Europeo che in America, sia nei contenuti sia nelle metodologie.
E' vero che la "Teoria generale" fu concepita in risposta ai grossi e drammatici problemi economici e sociali scaturiti dalla grande depressione degli anni '30, ma certamente le sue impostazioni, la sua filosofia, le sue affermazioni di principii e di valenze sono tuttora determinanti per l'economia di oggi, come - secondo taluni studiosi - per l'economia industriale del futuro. Per cui si può concludere che l'era di Keynes è tutt'altro che tramontata, soprattutto per quanto attiene alla spinta novativa insita nel suo pensiero, che gli faceva dire che le difficoltà non derivano dalle idee nuove ma dalla necessità di svincolarsi da quelle vecchie.
Ma come si è venuto concretizzando il pensiero economico, in forza di queste analisi e di quelle che in armonia od in contrasto con esse si sono venute succedendo?
Sempre secondo James, quattro sono le implicazioni di metodo che si possono registrare nella dottrina economica dei nostri tempi, e cioè l'uso congiunto dei due metodi prima opposti della osservazione diretta dei fatti e della deduzione concettuale, la netta opzione per la precisa misurazione dei fenomeni economici, l'impiego della macroanalisi, lo studio diretto della formazione e della ripartizione del reddito nazionale.
Si può dire che è la metodologia seguita da ogni tipo di scienza quella che viene introdotta od auspicato anche per l'economia, la quale in sostanza vive della misurazione, precisa, dei fenomeni e possibilmente anche della previsione della loro evoluzione. Si arriva, infatti, alla terapia dopo aver affrontato l'ardua fatica della diagnosi, costituendo la scienza economica la fonte della salute delle economie.
Ma c'è un altro punto che va sottolineato nel divenire del pensiero economico nelle forme che esso è venuto assumendo in questi ultimi tempi. Esso riguarda il sempre maggiore spessore acquistato dagli studi concernenti la formazione e la ripartizione del reddito nazionale, che costituiscono il punto culminante della realtà economica in tutti gli aspetti positivi e negativi che possono derivarne per lo stesso sviluppo e per l'equilibrio sociale, oltre che economico.
Tutte le politiche economiche si stanno infatti misurando su questo terreno, nel quale si puntualizzano anche quelle scelte che pur non sono dichiarate con quella etichetta.
Ed eccoci a considerare appunto gli studi sulla formazione del reddito nazionale, che sono ispirati e guidati dal metodo del l'approfondimento delle condizioni in base alle quali può stabilirsi il livello del reddito nazionale nella realtà di specifica prospezione. Si tratta, cioè, di analisi estremamente mirate e non vaghe nei punti di riferimento. Così che ne derivano valutazioni quantitativamente determinate, sulla cui base poi si costruiscono le stime inerenti alle fonti reddituali, alla distribuzione del reddito nei vari settori, all'utilizzazione delle disponibilità che si formano.
E' questa la tecnica che ha condotto e conduce alle cosiddette contabilità nazionali, che costituiscono il punto culminante nel realizzato e nel conseguibile di tutte le politiche economiche e di tutte le strategie operative. Ecco così i bilanci nazionali, le relazioni generali, ecc. che costellano la realtà politica ed economica, misurandone i successi, come le insufficienze e gli aspetti negativi, e così fornendo indicazioni ed orientamenti anche per l'avvenire.
Vari sono gli studiosi che si sono misurati con questa tematica. Fra questi si distingue Paul Samuelson, che si è caratterizzato nei suoi studi di macroeconomia con ispirazioni tratte pure da Keynes. Le varie ricerche teoriche che si sono susseguite in questa materia sono state e sono compiute anche presso appositi istituti ed organismi a carattere statale - come fra l'altro è avvenuto ed avviene nei Paesi maggiormente industrializzati, fra cui l'Italia - ed hanno impegnata anche una vasta schiera di economisti statistici, fra i quali va menzionato pure Wassili Leontieff, l'economista americano di origine russa che ha approfondito l'analisi delle interdipendenze settoriali, come si dice in termine inglese, l'imput-output analysis, con l'intento di risolvere quei problemi di programmazione che implicano la necessità di determinare in che modo un aumento di produzione in certi settori abbia ripercussioni sui livelli produttivi di tutti gli altri settori dell'economia.
Scrive Claudio Napoleoni nel suo "Pensiero economico del '900" che "il problema che il modello di Leontieff consente di risolvere può essere definito come segue: posto che si vogliano conseguire certi incrementi nelle voci del reddito nazionale e supponendo che questi incrementi siano specificati in ogni loro componente, trovare i livelli produttivi e le importazioni relativi ai vari settori, che permettono di conseguire quei desiderato sviluppo del reddito, tenendo conto di tutte le specie di domande che ogni settore deve soddisfare". Lo sbocco di questi studi è l'elaborazione di una dinamica a breve termine ed a lungo termine, sulle quali si sono impegnati nel corso di questi ultimi decenni numerosi studiosi di ogni nazionalità, proprio in funzione dei supporti che dovevano essere assicurati alle condotte economiche, alla validità delle loro scelte, alla loro capacità correttiva o propulsiva, a seconda delle fasi e delle situazioni.
Sono nati in quest'ottica gli studi sulla dinamica economica, fra i quali da rilevare quelli dovuti a J.B. Clark, secondo il quale la dinamica è un metodo e la vita economica naturalmente implica il movimento e non la stabilità; sui nuovi strumenti di analisi (fra i cui studiosi si fanno notare i discepoli svedesi di Wicksell, che è stato uno dei maggiori economisti della fine del secolo scorso, impegnati nella formulazione della cosiddetta teoria dell'equilibrio), sui principii del l'accelerazione e del moltiplicatore, sulla nozione di strozzatura, sulle fluttuazioni economiche, ecc.
In particolare, per quanto riguarda il principio del l'accelerazione, vari sono gli autori che si sono cimentati e che vanno da A. Aftalion a J. Maurice Clark, da Gottfried von Haberler a Simon Kuznets, ecc. Il primo studioso in ordine di tempo di questa problematico è stato l'Aftalion, secondo il quale ogni aumento della domanda di beni di consumo comincia col provocare un aumento più che proporzionale della produzione dei beni strumentali; la produzione supplementare dei beni di consumo domandata non viene effettuata che in seguito, spesso in eccesso. Ne concludeva che la legge dell'economia è lo squilibrio, l'alternarsi cioè di periodi di deficit e di periodi si sovraproduzione.
Quanto, poi, al cosiddetto principio del moltiplicatore, da rilevare in particolare il pensiero di R. F. Kahn, espresso fra l'altro in uno studio comparso nel 1931 dal titolo "The relation of home investment to unemployment". In sostanza si afferma che ogni unità di spesa nazionale provoca un ammontare di reddito pari al valore del moltiplicatore. In particolare ogni spesa in lavori pubblici comporterebbe un aumento più che proporzionale del l'occupazione, causato dal fatto che i salariati e gli imprenditori che effettuano questi lavori spendono a loro volta i redditi ricevuti, provocando pertanto un aumento dell'offerta effettiva.
Per completare l'itinerario di pensiero che fin qui abbiamo compiuto occorre compiere altre soste che rimandiamo a successive trattazioni. Si può tentare una conclusione, che è questa. Negli ultimi decenni la scienza economica non solo ha allargato la sua spazialità, come conseguenza delle grandi dimensioni dei fenomeni e delle interrelazioni che fra essi corrono avvicinando aree e realtà lontane, ma anche ha migliorato il suo grado di aderenza alla concretezza accortamente e profondamente esplorata.
E' la fase della grande circolazione dei dati e delle idee.

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