Dal
Sud al futuro
Il primo segnale si ebbe circa vent'anni fa, quando fu scritto che la
caduta d'interesse per i problemi impliciti nella questione meridionale
sembrava avere assunto un significato più profondo. Il filone
d'impegno e di verifica culturale che il meridionalismo era stato per
molti sembrava essersi tramutato in un discorso quasi del tutto chiuso,
in un elemento della storia politica italiana valido assai più
come memoria del passato che come prospettiva per l'avvenire. Erano
i giorni delle polemiche sulla proroga degli strumenti di intervento
straordinario nel Mezzogiorno e sull'adozione di un programma nazionale.
Dal 1950 ad oggi ha preso corpo l'esigenza di sbloccare la questione
meridionale dai suoi involucri tradizionali. Va rilevato che il meridionalismo
aveva avuto le sue origini e anche le sue interpretazioni più
rilevanti nelle affermazioni di coloro che vedevano, in una certa evoluzione
storica che andava sempre più distanziando le regioni italiane,
la conferma ad impostazioni volte a mettere in causa le strutture politiche:
dalla visione rivoluzionaria di Gramsci, alle strategie riformiste di
Salvemini e Dorso. Oggi, pertanto - affermavano i critici più
attenti - può senz'altro accadere che anche il Mezzogiorno in
sé abbia perduto in buona parte il suo potere di contestazione,
e che la maggiore articolazione dei vari elementi che fanno parte del
sistema consenta di identificare in fatti e fenomeni più precisi
i presupposti di una strategia di revisione e di rinnovamento delle
strutture. In questo senso, e in questa misura, le tesi di Gramsci,
di Salvemini e di Dorso non avevano più - o sembravano non avere
più - il valore di fatti su cui fosse possibile basare concreti
disegni operativi, ma solo di un insegnamento storicamente valido come
lezione di comportamento, cioè di pensiero politico.
La questione, così come Gramsci l'aveva interpretata, e cioè
come ponte che garantiva una sostanziale unità politica al paese
nei suoi effettivi contenuti (blocco industriali-agrari) e sulle prospettive
rivoluzionarie (alleanza operai del Nord-contadini del Sud), non poteva
più trovare un confronto puntuale con la realtà. Un eventuale
tentativo di reimpostare una strategia rivoluzionaria, facendo riferimento
alla questione meridionale, richiedeva innanzitutto che la questione
stessa venisse rielaborata nei suoi termini essenziali. E questo non
era che un esempio del diverso ruolo che il Sud doveva assumere all'interno
di un sistema che aveva provveduto a sollecitare la nascita di meccanismi
di integrazione, anche se incompleti, e a mutare quindi il significato
connesso al sussistere di situazioni conflittuali. D'altra parte, se
il Sud non poteva più rivestire lo stesso ruolo politico che
gli era stato riservato nel passato, esso non realizzava più
neppure a livello economico e sociale le condizioni che consentivano
di mantenere quelle interpretazioni, propugnate nel decennio 1950-60
che avevano costituito le basi degli interventi successivi.
Ciò confermava che la "decadenza" della questione meridionale
proponeva soprattutto un problema di ripensamento. Ripensare al Mezzogiorno
voleva dire ritrovare all'arretratezza meridionale e alle sue manifestazioni
a tutti i livelli un ruolo e un significato precisi; rivedere le linee
dello sviluppo economico e sociale del Sud, e riproporle in termini
più efficaci, in modo che potessero costituire un perno, un punto
di riferimento organico e chiaro per l'azione politica e di politica
economica. Oppure, chiudere definitivamente un discorso che non presentava
prospettive legittime. In questo caso, l'"era meridionalista"
poteva considerarsi conclusa. Per inerzia, per abbandono dell'impegno
intellettuale, culturale e politico. Per una spirale di nebbia, che
aveva offuscato le voci di un revival che pure aveva affondato le radici
nella più fertile tradizione del problema del Sud.
Quando, di recente, De Rita parlò di "sviluppo a pelle di
leopardo", riferito alle regioni meridionali, diede una bella immagine,
non proprio fedele, della realtà del Mezzogiorno. Il quale, di
fatto, era andato avanti, tra go and stop, nel suo complesso, cioè
visto dall'alto, o dall'esterno, ma aveva anche visto formarsi fossati
e solchi al proprio interno. E' il Sud che si è proiettato fino
ai nostri giorni. Niente pois, ma aree che, più che confinare,
sembrano fronteggiarsi, prese come sono dalla dicotomia "essere
dover essere": così, il crollo dell'unità meridionale
ha dato luogo a un mosaico di situazioni, anche conflittuali, che rendono
sfuggente l'analisi generale e complicano la geografia italiana almeno
per due buoni motivi: l'esistenza ancora tangibile di un dualismo Nord-Sud,
e l'esistenza di un dualismo Sud-Sud. Del primo problema si è
detto e scritto da almeno un secolo a questa parte. Il secondo, in pratica,
ha visto abbattute in gran parte le ragioni dei vecchi schemi, al punto
che oggi è possibile parlare di un Mezzogiorno abbastanza inserito
nel contesto nazionale, ma ha rivelato anche il doppio binario di marcia
delle regioni al di qua della linea Gotica. In altre parole, c'è
un Sud che è decollato, e c'è un altro Sud che è
ancora in pista di rullaggio. La nuova geografia meridionale, pertanto,
vede un Sud-Est sviluppato, che coinvolge parte della Basilicata, la
Puglia, l'Abruzzo, il Molise, con alcune propaggini occidentali; e un
Sud-Ovest che ha ancora irrisolti problemi di base, con larghe sacche
di arretratezza economica.
Si dice che questa situazione sia determinata dalla presenza attiva
e condizionante della grande criminalità organizzata, che domina
in Campania, in Calabria e in Sicilia. E certamente mafia, camorra e
'ndrangheta incidono nei comportamenti economici, più che nel
l'antropologia culturale, delle aree nelle quali più diffusamente
si manifestano.
Ma la loro presenza non basta a spiegare, da sola, le ragioni del mancato
sviluppo. Non a caso è stato dimostrato che l'economia non ha
raggiunto un livello accettabile solo là dove non ci sono state
"cattedrali", o ci sono stati solo aborti di cattedrali. Nel
senso che quelle cattedrali nascevano forse nel deserto delle ciminiere,
ma non in quello dell'intelligenza creativa. Il loro stimolo nel giro
di pochi decenni ha determinato il decollo delle aree comprese nel loro
cono d'ombra. Così, questo Sud, o questi Sud in quota hanno percorso
nel breve giro di una o due generazioni il cammino che il resto del
paese, con alle spalle l'esperienza europea, con ai confini paesi sviluppati
e ricchi, ha potuto percorrere solo in un secolo e mezzo, cioè
in sei generazioni.
Forse tutto questo era necessario, e forse era anche prevedibile. Ma
un dato è certo: non si può capire il problema del Mezzogiorno
se non si tiene conto delle situazioni nuove, e persino originali, che
vi si sono create, e che, al di fuori dei confini "storici"
del Sud, sono poco note, o sconosciute, o colpevolmente ignorate. L'abbattimento
dei vecchi schemi ideologici e operativi, che vedevano il Mezzogiorno
come un gigantesco ghetto da trasformare, ha legato Sud a Italia e Sud
ad Europa. Appena trent'anni fa, tutto questo era, al più, un
progetto onirico.
In questo contesto, qual è il comportamento dei mass media? E
in particolare, quale interpretazione, quale lettura si da del Sud da
parte della Rai-Tv, da parte delle radio e televisioni private; e, infine,
da parte della carta stampata? L'immagine che emerge è aderente
alla realtà e alle sue varie sfaccettature, oppure è vincolata
ai vecchi schemi e agli stereotipi tradizionali? Viene colta, oppure
no, l'evoluzione culturale, sociale, economica, delle regioni meridionali?
E, in ultima analisi, l'informazione contribuisce all'ulteriore sviluppo
del Mezzogiorno, oppure in qualche modo e in qualche misura finisce
per ostacolarlo?
Il primo dato che vien fuori riguarda la "strategia dell'attenzione":
da almeno un decennio a questa parte, il Sud trova sempre meno spazio,
sia sulla carta stampata sia in radiotelevisione. Diventata parte integrante
della "questione ncizionale", la questione meridionale ha
perduto la capacità di presa e di contestazione politica e intellettuale:
il problema-Sud è entrato nella coscienza dei cittadini, nel
loro quotidiano, riecheggiato dagli avvenimenti di cronaca che hanno
come referenti le criminalità organizzate, lasciando cadere,
dunque, lentamente ma inesorabilmente, le grandi tensioni che avevano
arricchito il dibattito politico-economico e socio-culturale italiano.
Venivano, quelle tensioni ideali, dal cosiddetto "secondo meridionalismo
quello emerso dalle rovine ancora fumanti del secondo conflitto mondiale,
che aveva mobilitato tutte le forze vive del paese. Certamente, dagli
anni '50, con le grandi politiche d'intervento, il Sud si andava trasformando,
diventando un fronte a mano a mano meno emergente, col passaggio dagli
"interventi a pioggia" a quelli per le grandi infrastrutture
e poi ai progetti speciali. Di fronte a tutto questo, i mass media non
erano stati renitenti, anche se fatti e analisi erano colti (non sempre,
ma spesso) con gusto provinciale, folcloristico, e in non pochi casi
anche conformistico: arretratezza e colore, colpevolismo, macchiettismo,
meridionalismo accattone, persino insofferenza razziale hanno finito
per dare un'immagine del Sud, nel suo complesso, negativa, di palla
al piede del paese. La caduta di tensione ideale, quindi, ha coinciso
con un radicale mutamento dell'idea stesso del Sud: come se tutto quel
che era da fare fosse stato fatto, come se il Mezzogiorno che poteva
salvarsi ed essere salvato fosse ormai salvo, e per il resto non ci
fossero più speranze. Così, per reazione, alla vecchia
analisi secondo la quale il "dualismo italiano" in realtà
serviva agli interessi esclusivi del Nord ed era funzionale ad un tipo
di economia protetta nel dopoguerra, si è venuto contrapponendo
l'altro tipo di analisi, secondo il quale oggi non di questione meridionale
si deve più parlare, ma di "questione settentrionale":
nel momento in cui il Nord non ha più nel Mezzogiorno un suo
mercato di espansione commerciale, nel momento in cui il Sud trova al
suo interno i beni e i servizi che sono necessari al suo decollo, entra
in crisi gran parte dell'apparato produttivo settentrionale. Di qui,
ristrutturazioni, licenziamenti, concentrazioni di attività e
di imprese, rigetto delle tute blu e passaggio ai colletti bianchi,
esaurimento dei flussi migratori, disoccupazione a livelli d'alto rischio
oltre la linea Gotica. Tutto questo, secondo gli osservatori, a partire
dal 1963. E nel 1963 infatti, in termini storici, si esaurisce il grande
dibattito sul problema meridionale. Tutto quel che di buono e di sano
si fa nel Sud possa pressoché inosservato. Trionfa l'immagine
di un Sud assistito, dunque parassitario. L'economista Francesco Forte
scriverà un saggio sulla redistribuzione assistenziale nel quale
sosterrà la necessità dell'intervento pubblico assistenziale
nel Paese per riequilibrare i vuoti dell'economia. Sembra di essere
tornati ai giorni del dibattito per il varo della riforma agraria, quando
si ritenne che la distribuzione di terre era la panacea per far calare
la febbre della "terra che tremava", in attesa che il varo
della Cassa per il Mezzogiorno consentisse la nascita delle prime ciminiere
nelle aree dei Borboni. E nessuno avvertiva che l'assistenzialismo era
giunto ormai alle soglie di Torino, di Genova, di Milano, nelle cinture
urbane delle metropoli del Nord, in misura uguale, se non maggiore,
rispetto a quello praticato per le aree arretrate del Sud, ponendo problemi
di sviluppo diversi, non legati alla sussistenza agricola, ma alla scuola,
alla specializzazione, agli sbocchi commerciali, all'ancoraggio europeo.
La società, intanto, cambiava, sotto la spinta dell'economia
spontanea e di un sommerso che ben presto sarebbe emerso, sarebbe diventato
specialistico, diffuso, creatore ed esportatore. Dal "grande e
bello" si passava al "piccolo è meglio". Nascevano
le prime società di servizi, molti Sud andavano riscattandosi
dall'ipoteca di teorizzazioni sfornate in convegni, incontri, dibattiti
e simposi. Ma nulla, o quasi nulla, traspariva dai mass media: nel Mezzogiorno
salivano al cielo non cattedrali, ma piccole, solide officine, ciascuna
delle quali gettava un altro arpione al resto del paese, consolidando
la saldatura; ma l'immagine emergente era quella del l'antimeridionalismo
piemontese, lombardo, ligure, veneto, e delle grandi retate antimafia
e anticamorra nel Mezzogiorno occidentale, con alcune cospicue propaggini
nel casinò del Nord, a Milano, nei centri settentrionali dai
quali si irradiano i traffici di droga e di armi, e nei quali si praticano
evasioni fiscali con cifre da vertigine.
Un'immagine amplificata, in questi ultimi tempi, dalla "marcia
dei sindaci del Sud" contro il condono edilizio. L'altra Italia,
scriveva Giorgio Bocca, non vuole saperne di questo Sud. E Sabino Acquaviva
rincarava la dose: chi ha detto che esiste la figura del cittadino medio
italiano? Ci sono cittadini del Nord e cittadini del Sud: allora facciamo
leggi che vadano bene agli onesti cittadini del Nord e leggi che tentino
di far diventare onesti quelli del Sud!
Le polemiche sono sempre sterili, ma diventano pericolose quando predicano
il livore. E' un problema di cultura politica, non di bassa sociologia,
quello di ripensare, oggi, questione meridionale e settentrionale: cioè,
questione del paese, in termini di unità morale prima ancora
che economica, di unità politica (nel significato etimologico,
signori Bocca e Acquaviva, di "vita della città", e
dunque del cittadino: e cittadino italiano, piaccia oppure no) prima
ancora che razziale. Questa unità è un'utopia possibile,
perché la viviamo da centovent'anni. Vale o no la pena di continuare
a lavorarci, ora che il Sud non è più un altro continente,
e non "affonda più nell'Africa"?
Testimonianze
Maria Corti
scrittrice e docente universitaria
Vedo poco le tv private, perché mi disturbano i continui interventi
pubblicitari. Reti pubbliche: in generale, il problema-Sud rientra
nel problema nazionale, ma è scarsamente trattato ed esposto,
in particolare in ambito televisivo. Radio e televisione: questi due
mass media dovrebbero avere una funzione formativa di natura politica
e sociale più forte di quella che hanno; e una funzione didattica.
Noi assistiamo ad una serie di trasmissioni specialistiche, di dibattiti,
di inchieste; ma la gente comune non i segue perché non li
capisce. Bisognerebbe avere più umiltà, e fare un'operazione
di acculturazione creativa. Il problema del Mezzogiorno, che è
importantissimo e vitale per il paese, non è oggetto di acculturazione.
La gente non conosce il problema del Sud, e, quando ne parla, lo fa
ignorandone le coordinate. Dunque, si deve informare di più
la gente: meno spettacoli leggeri, piú spettacoli culturali,
in modo - però - che tutti comprendano quel che si dice. Così
come accade, ad esempio, per la trasmissione francese sui libri, che
è uno "spettacolo" seguitissimo, fruito in pieno
da un gran numero di telespettatori.
A questo punto, il problema-Sud dev'essere affrontato in modo che
anche le regioni che non rientrano nel continente meridionale, siano
didascalicamente e culturalmente informate sul Mezzogiorno. Ad esempio:
il terzo canale televisivo è ottimo, ma la gente lo ritiene
utile per gli intellettuali. La massa vera non la stiamo educando
neanche sul problema del Mezzogiorno. Non riusciamo ad ascoltare un
linguaggio non tecnico, non specialistico, umile, accessibile.
Gesualdo Bufalino
scrittore
Danno un'immagine assolutamente falsa del Mezzogiorno: un'immagine
sonora, canora, rumorosa, con l'aggravante, per le radio e le televisioni
private, di un buon novantanove per cento dello spazio-tempo affidato
agli spots pubblicitari. Non sembra esistere alcuna volontà
di inserire nel contesto delle immagini del Mezzogiorno un commento
serio, fedele, delle nostre radici e della nostra realtà, quale
si è venuta evolvendo attraverso gli anni e attraverso gli
uomini. Per quel che riguarda le radiotelevisioni private, a mio giudizio,
ci troviamo di fronte a una specie di vergogna nazionale, con sequele
di suoni selvaggi che non riempiono né il cuore né il
cervello. Obiettivamente, radio e tv nazionali a livello regionale
fanno molte cose buone. Qui in Sicilia ci sono commenti puntuali sul
farsi quotidiano. Ma i problemi del Sud, i problemi complessi, articolati,
e persino diversi delle regioni meridionali, non trovano alcuno spazio
incisivo sui canali nazionali.
Domenico Rea
scrittore
Rai-Tv e radiotelevisioni private danno un'immagine abbastanza forzato,
mentre occorre spingere il pedale della verità molto più
a fondo. Un esempio per tutti: secondo me, la delinquenza è
persino sul punto di accoppare le libere facoltà della magistratura,
cioè si danno casi in cui un magistrato sa di dover arrestare
da un momento all'altro lo stesso personaggio che gli sta offrendo
il caffè. Radio e tv raramente affrontano temi reali come questo.
Così, arretrano nel futuro, com'è stato scritto. Questione
meridionale? Questioni del Mezzogiorno? Neanche per idea. Chi ci descrive
come a Napoli non si può più passeggiare per via Caracciolo,
il rettifilo più lungo del mondo, tre chilometri di straordinaria
architettura, perché lungo quei tre chilometri, più
in qua o piú in là, ci si imbatte immancabilmente con
uno scippatore armato di pistola e spalleggiato da un complice armato
di coltello? Chi ci narra dei milioni spesi per mettere i cancelli
di ferro alla porte e alle finestre, con le case trasformate in fortezze
private e con i propri beni (pochi o molti che siano) non garantiti,
non protetti? La radio o le radio? Le televisioni? Gli stessi giornali?
Ma se affoghiamo nel colore! La grande piovra? D'accordo. Ma le piccole,
piccolissime e microscopiche piovre, le seppie voraci, che ci spolpano
ogni giorno: chi ne parla? Radio e tv cosiddette libere, quelle private,
nate per differenziare i discorsi e i temi e i problemi: peggio che
mai. Si sono adeguate. Si continuano ad adeguare. Qualche eccezione
non fa primavera. Punto e basta.
Luigi Compagnone
scrittore
Radio e televisioni, sia in campo pubblico sia in campo privato, danno
l'immagine che possono dare, nel senso che offrire una immagine del
Sud è molto problematico, soprattutto per noi meridionali.
Molto spesso, l'immagine più evidente, dolorosa, vera e irreale,
di un Su a e prese con la sua amara scienza, di un Mezzogiorno forse
irrecuperabile, interpretato con un certo distacco e con un certo
scetticismo. C'è, nelle diverse e infinite isole meridionali,
questa antinomia: si fronteggiano terre sviluppate e terre arretrate,
aree in decollo e aree in caduta a vite, fasce operaie e fasce contadine,
zone attive e zone passive. In mezzo a tutto questo dobbiamo vivere,
e spesso di noi vien fuori l'immagine meno positiva, meno creativa,
meno originale, anche perché i mass media, giornali, radio
e televisione, specie quelle private, non hanno mai affrontato con
un progetto organico e fuori dagli schemi tradizionali i problemi
reali e attuali del Sud. Quanto poi alle cosiddette "tv lazzarone",
quelle della mia terra, l'immagine che riescono a offrire è
quella eterna di Napoli, -falsa, ridanciana, di cartapesta, che non
risponde alla natura autentica dei napoletani ed è remota anni-luce
da quella dei meridionali. Tutto sommato, fino a questo momento, il
bilancio dell'immagine del Sud è fallimentare.
Soverio Strati
scrittore
Quale immagine del Mezzogiorno? Le tv private, nessuna. Non ne parlano
mai. Berlusconi è sommerso dalla pubblicità e punta
sullo spettacolo, in concorrenza con le reti pubbliche, che non fanno
solo questo: dunque, nessuna iniziativa che posso in qualche modo
riguardare il Sud e i suoi problemi. Le altre tv private, più
o meno, sono sullo stesso piano, con timide eccezioni oltre la linea
Gotica. La Rai se ne occupa spesso. Sulla terza rete televisiva, ad
esempio, i programmi regionali affrontano di frequente tematiche locali
e problemi di architettura, di archeologia, di sviluppo, sociali,
culturali, in genere piuttosto importanti.
Nel Mezzogiorno, trasformazione ci sono state, e anche tante, e radio
e tv pubbliche hanno fatto vedere parecchio, anche sui canali nazionali:
sicché oggi sappiano quel che è accaduto in venticinque
o trent'anni, e che non era accaduto in due o trecento anni. Ci sono,
dunque, dati oggettivi positivi cui si contrappongono le immagini
negative del Mezzogiorno, che ruotano intorno ai problemi (che non
sono però solo meridionali) della criminalità organizzata,
dei traffici iileciti, delle malversazioni, e via di seguito. Occorrerebbe
piú spazio, per mettere in rilievo l'evoluzione culturale del
Sud, che è stata rilevante, e lo sviluppo sociale ed economico,
che non è stato da meno, anche se non ha coinvolto tutte le
aree meridionali.
Gabriella Sobrino
scrittrice
Secondo me, sul Mezzogiorno si parla poco, sia nei mass media pubblici
che in quelli privati. Detto questo, debbo aggiungere che ho visto
ultimamente sulla tv pubblica dei servizi molto buoni, e persino illuminanti,
sulla situazione attuale del Sud. Non posso dire granché sulle
radio e sulle tv private, che seguo molto poco. E vorrei chiarire
un dato di fatto: io ho conosciuto il Sud grazie a Leonida Repaci,
che proprio negli anni '50 mi invitò al Premio Crotone, facendomi
completare poi un giro turistico nelle aree vicine. Il mio amore per
il Sud è cresciuto ogni volta che mi sono recata laggiù,
in Sicilia, in Calabria, in Basilicata, nelle Puglie. Ho notato che
molto, e spesso tantissimo, è stato fatto in questi venticinque
anni. Però, se la tv riuscisse a puntualizzare la situazione
regione per regione, mettendo il dito su alcune piaghe tipiche delle
aree meridionali, farebbe un'opera rilevante, utilissima, di grande
caratura, valida per tutto il paese.
Michele Pantaleone
scrittore
L'immagine è quella di un costante interesse del potere: dunque,
non può trovare riscontro nella realtà. Con molta frequenza,
la Rai annuncia interventi ordinari e straordinari da porte del potere.
Interventi che rimangono solo allo stato di buone intenzioni. Per
quel che riguarda il Mezzogiorno, più che le vie del Signore,
sono lastricate di buone intenzioni le vie del diavolo. Nel senso
che la realtà rimane immutata. E questo vale anche per le radio
e le tv private, che, eccezioni a parte, e pochissime, si interessano
del Sud poco e male, o niente affatto. C'è una crisi culturale
e di conoscenza del problema, o della serie di problemi connessi alla
questione meridionale, e gli stessi meridionalisti, nuovi o superstiti,
si trovano ormai ai margini dei partiti politici. E poiché
anche le radio e le tv private, nate per tutt'altre funzioni di penetrazione
capillare nel tessuto della città, si interessano prevalentemente
di pubblicità, di spettacoli, di propaganda, appunto, privata,
il problema di fondo del Sud rimane ignorato. Un esempio che collega
pubblico e privato: il processo di Palermo. E' vero che c'è
in corso un'inchiesta-bis; ma è vero anche che nessuno ci ha
detto perché proprio i politici siano gli unici testimoni assenti;
e nessuno ci ha detto che il "perdente" Buscetta, in realtà,
si è trasformato in vincente, nel senso che perdente è,
per la criminalità organizzata, chi va fuori gioco o chi finisce
in galera. Mandando i suoi nemici all'Ucciardone, Buscetta si è
trasformato da perdente in vincente, tant'è che sotto processo
sono in pratica finite alcune cosche, non la vera e propria mafia.
E a questo punto, una considerazione: fino solo a qualche anno fa,
morte in Sicilia, in Calabria, o altrove nel Sud, equivaleva a morte
in Africa. Il concetto diffuso, non solo a livello popolare, oltre
il Sud, era questo: si ammazzino pure fra di loro. E tutto questo
la dice lungo sulla "lontananza" del pianeta-Sud dal resto
del paese: il Nord e i nordici sono rimasti avulsi , estranei, per
una scelta precisa, e questo ha allungato chissà di quanto
i tempi di una reale unificazione. li disimpegno, dunque, è
palese e diffuso, e rischia di vanificare perfino gli sforzi di quanti,
uomini del Nord e uomini del Sud, tentano di superare barriere, barricate,
steccati e incomprensioni, create da una storia che, in fondo, è
stata assai piú tragica che grande.
Giacinto Spagnoletti
scrittore e docente universitario
Direi che emerge un'immagine neorealistica, nel senso che radio e
tv pubblica e radio-tv private non hanno assolutamente compreso in
generale la grande evoluzione culturale del Mezzogiorno. Lo si nota
anche nei documentari, nei servizi, nei quali talvolta con una certa
compiacenza si fa risaltare il colore locale, si dà evidenza
ai dettagli folcloristici, mentre più spesso si tace il problema
di fondo. Così, poco o nulla si finisce per conoscere dell'intrinseco
realtà sociale del nostro Sud.
Secondo me, il maggior danno lo fanno le radio e le tv private, nelle
quali spesso si alternano festival e canzoni, con uno sfondo vagamente
presente, sente, o si mettono a fuoco personaggi politici locali che
dovrebbero rappresentare l'opinione dei vari strati sociali, mentre
in realtà sono portatori solo di interessi personali.
Il carattere che talora assume una trasmissione culturale, anche nelle
nostre reti nazionali, corrisponde quasi sempre a un'idea giù
superata, e ritengo che soprattutto i giovani non si riconoscano in
quel che vedono.
Il primo suggerimento da dare in modo disinteressato è intanto
quello di evitare le solite ricorrenze festivaliere, quasi sempre
dedicate ai divi dello spettacolo; e, ancora, di cogliere, finché
è possibile, nell'humus e nell'ambiente più proprio,
quel tanto di nuovo e di originale emerso nel costume, nelle opinioni,
nella vita culturale, in questi ultimi anni.
Secondo me, c'è un Sud ancora inesplorato, un continente che
abbiamo riempito solo di immagini giù fatte.
Donato Valli
rettore Università di Lecce
Non ne sono entusiasta, soprattutto con riferimento alle radio e alle
tv private. Non è affrontato adeguatamente il problema culturale
in riferimento alle istanze meridionalistiche, nel senso che oggi
è necessario, e direi vitale, uscire 'dagli schemi che hanno,
sì, avuto una funzione, ma che ormai storicamente e sociologicamente
non reggono più. Occorre fare un notevole salto di qualità,
occorre agganciarsi alla realtà tecnologica. Parlare del Mezzogiorno
in termini strutturali, fisici, secondo gli antichi concetti di intervento
straordinario, non ha più valore, perché quelle ragioni
che furono al centro del dibattito dei nostri meridionalisti classici
non esistono più, o sono ridotte al minimo. Si deve puntare
sul fatto immateriale dell'intelligenza e della fantasia per aprire
un varco al futuro. In questo contesto, radio e tv nazionali fanno
poco, radio e tv private boccheggiano, e soprattutto mancano di professionalità,
tranne alcune che difendono la loro dignità attraverso più
articolate programmazioni. Si dovrebbe far prendere coscienza della
nuova problematica, assai diversa da quella del passato. Il Sud è
cambiato, non è più quello di Tommaso Fiore, di Rocca
Scotellaro, di Salvemini e di Dorso, di Fortunato e di De Viti De
Marco: tutto questo Sud è rientrato nella memoria storica,
vale come lezione del passato. Le nuove coordinate meridionali sono
ben diverse, ma l'informazione radio-televisiva e persino quella della
carta stampata stentano a darci una lettura in chiaro delle trasformazioni
avvenute nelle nostre regioni, dell'enorme mutamento dello spessore
civile, culturale, economico, sociale, del Mezzogiorno. E questo è
il più grande peccato capitale del mass media.
Ennio Bonea
docente universitario
Sono due immagini non complementari. Le radio e le televisioni locali
dovevano sopperire alle manchevolezze dei canali radiotelevisivi nazionali.
Invece non è così. Radio e tv pubbliche non danno del
Sud se non aspetti parziali, spesso accentuandone le pecche: mafia
per la Sicilia, camorra per la Campania, 'ndrangheta per la Calabria,
ecc.; poco mettendo in risalto le qualità di un Sud diverso
(la grande industria, come l'italsider, che, sia pure con momenti
di crisi, è comunque all'avanguardia; la media e piccola industria
che si è affermata in Italia e all'estero). In Rai c'è
poco di tutto questo, e quel poco è generalmente tradotto in
fumosi dibattiti che rendono sfocata l'immagine del Sud in movimento.
Ma ancora più sfocata è l'immagine che emerge dalle
radio-tv private o locali, che non colmano queste lacune, ignorano
di fatto quel che fa la Rai, e appagano solo il gusto locale, il senso
dell'evasione, diventando così - tutte insieme - una somma
di provincialismi. Radio e tv locali erano nate per sete di libertà
e per necessità di soccorso. In sostanza, soggiacciono ormai
solo a ragioni di carattere economico per superare le difficoltà
in cui si dibattono, network compresi. Tra l'essere e il dover essere,
hanno dovuto fare la scelta per la vita o per la morte, condannando
alla crocefissione le funzioni per cui erano sorte. Per questo mettono
in circolo una bassa, e talora infima cultura, che non travalica quasi
mai i confini dell'antropologia paesana a di area locale entro i quali
agiscono.
Vito Laterza
editore
L'immagine che vien data è, alcune volte, di una terra disperata
e senza futuro; altre volte, invece, è mitteleuropea, cioè
al passo con le società industriali. Ciò che i mass
media per eccellenza, radio e televisioni pubbliche e private, proprio
non danno, è la realtà vera che non corrisponde a nessuna
delle due versioni precedenti. E la realtà vera è quella
di un paese, il Sud, che senza apporti sufficientemente efficaci e
illuminati da parte della classe dirigente va facendo sforzi enormi
per colmare il gap che lo separa dall'età del Duemila.
L'esempio più emblematico, direi, è proprio quello della
Puglia, e in particolare - nel contesto della regione - della provincia
di Bari, dove i passi in avanti sano compiuti con sforzi enormi e
con fatica incessante dalle "formiche" di Tommaso Fiore,
sembrando che stiano quasi per mettere le ali.
Antonio Pedone
economista
L'immagine che vien data è estremamente limitata, quasi che
il Mezzogiorno non esista. Piovre a parte. Radio e tv di Stato e radiotelevisioni
private ignorano lo spessore dei problemi e delle potenzialità,
del fare e del giù fatto. In un quarto di secolo, per forza
interna e per sollecitazioni esterne, il Sud è cambiato, ma
nulla traspare dai programmi radiotelevisivi o dagli articoli dei
giornali. lo ho visto programmi sul Sud-Est asiatico e sugli Stati
Uniti d'America, sui mutamenti delle strutture socio-economiche e
produttive di queste aree, sulle trasformazioni in atto e sulle prospettive
delle fasce contigue. Nulla di tutto questo per le regioni meridionali.
O, se non proprio nulla, almeno molto poco.
E non parliamo delle radio-tv private, grandi network nazionali compresi:
non è prestata alcuna attenzione al Sud. Mentre la materia
prima c'è, e parecchio, da prendere in esame su diversi piani:
su quello delle trasformazioni in atto, sulle tante radici del Mezzogiorno,
sui vecchi e sui nuovi problemi, e sulle possibili soluzioni, sul
rapporto economia-società e cultura-società. Si potrebbe
scavare a fondo, con risultati anche sorprendenti, e con aspetti anche
originali. Mentre, al massimo, riemergono i soliti logori., consunti
schemi di lettura e di interpretazione, che non sono più strumenti
utili per nessuno, e che non servono né per il presente né
per il futuro.
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