§ PREISTORIA DELLA LIRA

Carlo Magno inventò il denaro pesante




Carlo M. Cipolla



La lira nacque circa dodici secoli or sono e nacque "pesante". Devo spiegarmi. Sul finire del secolo VIII, Carlo Magno, che aveva radunato nelle sue mani un vasto impero comprendente l'Italia settentrionale, estese alla penisola una riforma monetaria imperniata su una nuova unità monetaria, il denaro d'argento dal peso di circa 17 grammi alla lega di circa 950 millesimi. Era una monetucola bruttina e sottile, che ben si accordava con l'arretratezza economica del tempo. L'Europa cristiana (quindi ad esclusione di buona parte della penisola iberica, che era allora sotto l'occupazione arabo) era allora un'area economicamente quanto mai, diremmo oggi, sottosviluppata: non solo sottosviluppata in senso assoluto, ma anche in senso relativo, perché di gran lunga meno evoluta delle contemporanee società bizantino, araba e cinese.
Dopo la caduta dell'Impero romano e dopo l'avanzata musulmana, l'Europa occidentale era progressivamente precipitata a un livello di "barbarie" economica che per noi oggi è difficile da immaginare. Il "mercato" era andato a catafascio. Il ladrocinio e il donativo si erano sostituiti agli scambi. La società s'era frantumata in una miriade di microcosmi agricoli, dove l'individuo produceva quello che consumava, in un ideale di quasi completa autosufficienza. Le città erano praticamente morte. Quei pochi che erano a conoscenza del fenomeno guardavano attoniti a Venezia, propaggine in Occidente del mondo bizantino, i cui abitanti riuscivano a vivere "senza arare, senza seminare, senza vendemmiare", come nota con accento di stupore un documento.
In queste condizioni, l'usa e l'utilità della moneta metallica s'erano drasticamente ridotti. A che pro ricevere moneta se poi non si trovava da acquistare ciò di cui si aveva bisogno? La domanda di moneta a scopo di transazione cessò quasi del tutto. Rimase la domanda di moneta a scopo precauzionale, di cui sono testimonianza i tesori e tesoretti dell'epoca. Ma anche come "serbatoio di valore" la moneta metallica non era la soluzione migliore: meglio i gioielli, che almeno avevano un valore d'uso.
Quel poco di scambi che si faceva, si svolgeva nei mercati settimanali o nelle fiere annuali che si tenevano all'ombra di qualche grosso maniero, o di qualche grossa abbazia, o in una delle rare città dove una larva di vita cittadina continuava grazie non a una attività di scambio, ma alla presenza del vescovo o del "palazzo" imperiale. Ma anche in queste fiere settimanali o annuali il mezzo di pagamento usato non era sempre la moneta. Spesso si faceva ricorso al baratto, cioè merce contro merce. E' su questo sfondo di desolazione che va vista la riforma monetaria carolingia.
Con essa, il misera denaro d'argento venne a rappresentare l'unica specie monetale d'ordinaria circolazione. Occasionalmente poteva capitare di imbattersi in qualche moneta bizantina o in dinar o dirhem arabi: ma si trattava di casi isolati. Il denaro carolingio era l'unico pezzo di cui ordinariamente si potesse far uso e non aveva né multipli né sottomultipli: come se noi avessimo a disposizione solo il pezzo, diciamo, da mille lire, senza spiccioli e senza pezzi da 5.000, da 70.000, da 50.000, da 100.000. Sistema monetario, dunque, quanto mai rozzo, che rifletteva una situazione economica primitiva.
Se nei pochi scambi solo raramente si faceva uso della moneta, all'unità monetaria bisognava però far riferimento come unità di conto nel fissare i prezzi, censi, affitti, donativi, compensi vari, anche quando tali prezzi, censi, fitti, donativi sarebbero stati pagati non in moneta, ma in altra forma. Ed è qui che il denaro si dimostrò presto inadatto. Era troppo misero ed usandolo come unità di misura si finiva col dover fare uso di cifre troppo grosse. Cifre con molti zeri, diremmo noi oggi, ma allora gli zeri non c'erano, perché i numeri arabi non erano ancora arrivati in Europa e quei pochi che sapevano leggere, scrivere e far di conto, facevano uso dei numeri romani, il che rendeva ancor più complicata la manipolazione di cifre grosse. Si risolse il problema non mediante editti a misure di governo, ma per soluzione spontanea, ricorrendo alla creazione di una moneta di conto più "pesante". Non c'era allora sistema metrica decimale e il peso del denaro era determinato in relazione a un peso chiamato libbra: cioè a dire, nella riforma si era stabilito che da una libbra (peso) d'argento si dovessero ricavare 240 denari.
La gente, quindi, per semplificare le cose, invece di dire o scrivere 240 denari, cominciò a dire una libbra, invece di 2.400 denari cominciò a dire dieci libbre, e così via. La libbra cui inizialmente si faceva riferimento era la libbra-peso, ma presto divenne una unità monetaria di conto a sé stante, chiamata appunto lira: una unità di conto "pesante", cui si ricorse per semplificare le cifre troppo grosse, se espresse nella moneta corrente, cioè il denaro.
Quindi, la lira nacque come moneta di conto "pesante", ma non era destinata a rimanere tale. Nata come multiplo del denaro, era destinata a seguire le peripezie di quest'ultimo, il quale, come tutte le monete effettive, era a sua volta destinato nel corso del tempo a una progressiva svalutazione. In effetti, il denaro carolingico resistette per circa un secolo, grazie non tanto ad una fama politica monetaria, quanto piuttosto ad una situazione di ristagno economico. Col secolo X, però, le cose cominciarono a muoversi e in Italia più che altrove il denaro cominciò ad essere ridotto progressivamente sia di peso che di lega. La lira, ancorata al denaro dal rapporto fisso 1:240, si rese quindi sempre più "leggera", per cui già nel corso del Medioevo si dovette ricorrere a unità monerarie più "pesanti", quali il grosso, il fiorino d'oro e il ducato d'oro. Ma la storia di queste successive vicende è troppo lunga e complicata per essere narrata in questa sede.

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