§ RAPPORTI

Un futuro per il Sud




Maria Rosaria Pascali



L'ultimo rapporto redatto dalla Svimez ripropone una questione meridionale che decenni di intervento straordinario hanno scarsamente modificato. l'immagine èquella di un Sud emarginato dal grande tavolo su cui tutte le moderne economie giocano il proprio futuro.
Per la comprensione dei motivi per cui il Sud non è riuscito a togliersi di dosso la sua veste di arretratezza, è utile ricordare gli errori in cui è incappata la politica meridionalistica dall'unificazione ad oggi.

Origini della "questione"
Fin dal momento della suo unificazione politica, l'Italia vedeva ben delineato il divario esistente fra le sue regioni centro-settentrionali e il Mezzogiorno. l'esperienza insegna che, quando zone economicamente autonome e con livelli di reddito diversificati vengono unificate, il divario di sviluppo economico esistente fra varie aree è destinato ad allargarsi se adeguate misure riequilibratrici non sono adottate.
Così in Italia, dove il primo meridionalismo aveva come obiettivo quello di sostenere l'agricoltura meridionale. E non poteva essere altrimenti, visto il carattere prettamente agricolo dell'economia italiana del periodo. Ma il sostegno non fu adeguato. la situazione peggiorò con l'avvio del processo di industrializzazione, avvenuto intorno al 1887. l'industria nazionale trovò il terreno favorevole al suo sviluppo nelle regioni centro-settentrionali, economicamente più avanzate. Il dualismo in atto era dunque destinato ad accrescersi. Nonostante ciò, nessuna politica di sviluppo dell'industria fu perseguita nel Sud. Per contro, si continuò a sostenere l'agricoltura e le altre attività connesse alle risorse naturali, prima fra tutte il turismo. E ci fu chi, ottimisticamente, interpretò questa articolazione dualistica dell'economia italiana come una razionale forma di ripartizione territoriale delle attività produttive del Paese. Solo nel 1950, dopo ben 90 anni di vita postunitaria, durante i quali nel Mezzogiorno prevalse la logica assistenzialistica, si diede l'avvio all'intervento straordinario. L'obiettivo era quello di eliminare il dualismo esistente, rendendo conveniente l'investimento industriale nel Sud. Un obiettivo grandioso, visto che il Mezzogiorno doveva essere portato a competere, per investimenti ed iniziative industriali, con un sistema, quello del Centro-Nord, avviato 60 anni prima. Per la prima volta nella nostra storia, il problema meridionale si pose al centro dell'interesse nazionale.
Senza dubbio, l'avvio dell'intervento, segnando la fine di una politica assistenzialistica e l'inizio di una politica di sviluppo, deve essere considerato di importanza storica per il nostro Paese. Purtroppo, i risultati conseguiti sono stati modesti. Il divario Nord-Sud, a fine '85, è diminuito solo del 10% rispetto a quello esistente nel 1951. Lo sviluppo dell'agricoltura e del turismo è stato cospicuo, ma non si è tradotto in un aumento occupazionale. In verità, è stato proprio l'esodo dalla terra che ha reso possibile lo sviluppo agricolo. Oggi, infatti, la componente agricola nel Sud costituisce il 20% dell'occupazione totale e tende a diminuire ulteriormente. La struttura occupazionale, quindi, è notevolmente variata. Ma il mutamento non ha coinvolto, se non in misura irrilevante, quei settori che dovevano fornire occupazione.
L'intensità del problema occupazionale nel Mezzogiorno varia a seconda delle regioni e delle aree. Si nota, infatti, che il divario economico e sociale fra Nord e Sud è maggiore in alcune regioni meridionali, minore in altre. Sylos Labini, ne "Le classi sociali negli anni '80", distingue tre gruppi di regioni, utilizzando indicatori relativi al 1983:


Secondo Labini, il minor divario che caratterizza il Molise e gli Abruzzi, ma anche la Puglia e la Basilicata nei confronti dell'economia del Nord è dovuto all'influenza delle attività produttive messe in atto nelle regioni centrosettentrionali della fascia adriatica. Non solo: "L'evoluzione economica delle aree più dinamiche è stata favorita dall'assenza di quelle vaste organizzazioni criminali che, al contrario, hanno frenato lo sviluppo della Campania, della Calabria e della Sicilia".
Dall'analisi della struttura occupazionale e della composizione settoriale del prodotto si deduce inoltre che oggi il Mezzogiorno, lungi dall'essere industrializzato, non può nemmeno essere considerato agricolo. Questo significa che il grande mutamento non si è verificato e che il Sud sta ancora vivendo un periodo transitorio cominciato circa undici anni fa, nel 1975. La stasi che caratterizza questo periodo impedisce il passaggio alla seconda fase del processo di sviluppo economico (quella della creazione di un apparato industriale che risponda alle esigenze di flessibilità e di innovazione imposte dal progresso tecnico), con effetti deleteri sull'economia meridionale. L'esistenza di un sia pur inadeguato sviluppo industriale nel Mezzogiorno è testimoniata dalla quasi totale scomparsa di attività autonome prevalentemente manuali, caratterizzate da scarsissima produttività e da bassi salari. Industrie moderne hanno preso il loro posto ed è un processo che ancora oggi continua ad operare. Il progresso industriale è quindi manifestato quasi esclusivamente attraverso la sostituzione qualitativa degli addetti classificati industriali; e questo spiega perché il loro numero ha subito solo un lieve aumento rispetto a trent'anni fa.
Lo stato di inferiorità in cui versa oggi il Mezzogiorno rispetto al resto del Paese èdunque dovuto ad uno sviluppo industriale incompleto e inadeguato alle esigenze occupazionali poste da una popolazione attiva in costante aumento. Alla mancata convenienza ad investire nel Sud continua così a contrapporsi il naturale sfogo di capitali verso le aree centro-settentrionali.

Questione meridionale = Questione giovanile
La questione meridionale si fa, quindi, più urgente che mai, e diventa sempre più questione sociale e, soprattutto, questione giovanile. Nel Sud, infatti, i senza lavoro sono saliti al 15% circa. E l'80% di questi disoccupati è costituito da giovani fra i 14 e i 29 anni, la maggior parte del quali sono forniti di diploma o di laurea. A questo punto, non possiamo astenerci dal fornire una pesante accusa contro i nostri governanti. Un'intera generazione nel Sud rischia di restare senza lavoro. Questo stato di cose può dar luogo a risvolti imprevedibili, forse eversivi. Conscie di questo pericolo, le autorità cercano di prevenire l'eversione spegnendo sul nascere movimenti e manifestazioni spesso pacifici, organizzati da studenti bisognosi di giustizia sociale. l'esigenza, troppe volte calpestata, di tutelare l'incolumità collettiva giunge così a giustificare un duro, spesso occulto, sistema di oppressione, attuato attraverso un potente servizio informativo e militare.
La presa d'atto che il degrado in cui versa tutta la struttura meridionale sia un terreno fertile al costituirsi di movimenti eversivi dovrebbe però generare riflessioni più umane. E dar luogo a provvedimenti che non siano soltanto di oppressione. Non si può impartire ai giovani solo una cultura del dovere. Così, la necessità di introdurre il numero chiuso nelle università, per ridare dignità alla laurea e mutare la logica che vede questa istituzione un'area di parcheggio per disoccupati, è giusta. Ma chi provvederà ad adempiere all'altro importante compito, che risponde ad un diritto sacrosanto, qual è quello di fornire un'occupazione a coloro che entrano nel mercato del lavoro?

Quale politica per il Sud
L'assuefazione al ritardo meridionale genera il rifiuto a credere che molti dei mali italiani siano conseguenza diretta del degrado in cui verso il Sud. Il dualismo economico è ormai accettato come una realtà immutabile. l'attenzione è spostata su altri problemi che dilaniano la stabilità economica, politica e sociale del Paese. Problemi gravi, che però nulla dovrebbero togliere alla dolorosità del problema meridionale. la necessità di attribuire a ciascuno di essi il giusto posto nella priorità degli interventi non deve più tradursi in un modo per sfuggire alle proprie responsabilità. la politica economica generale non può eludere il confronto con gli effetti da esso provocati sull'economia meridionale.
Partendo dalla considerazione di fondo che per eliminare il dualismo non è possibile concepire un modello di sviluppo che esuli dalla ripresa del processo di industrializzazione nel Mezzogiorno, si delinea l'esigenza di ricercare quelle condizioni atte a creare la convenienza ad investire nel Sud. la strategia di una riqualificazione territoriale dell'assetto metropolitano e del terziario urbano, strategia suggerita con insistenza dalla Svimez, deve essere vista come uno strumento a cui, in mancanza di un adeguato insediamento industriale, il Sud deve ricorrere per uscire dal ristagno economico e per promuovere l'industrializzazione. Sarebbe però illusorio considerare questa strategia un "sostituto storico" dello sviluppo industriale. Difficilmente l'azione sul territorio potrà costituire un nuovo modello di sviluppo; mentre, quasi certamente, la sua applicazione potrò accrescere la convenienza ad investire nel Sud, creando l'humus favorevole all'insediamento industriale.
l'importanza attribuita dalla Svimez al riassetto e aliti riqualificazione urbana nel Mezzogiorno deriva dal fatto che il sistema urbano meridionale, nel suo complesso, è oggi causa di crescente divario con il resto del Paese. E' vero che la crisi urbana colpisce ormai tutte le nazioni industrializzate del mondo, e quindi, anche l'Italia centro-settentrionale. Però, di fronte al conseguente rischio di sovrappopolazione urbana, le aree industrializzate possono contare su processi spontanei di ridimensionamento demografico (declino delle nascite, decentramento delle residenze). Il Mezzogiorno no. Anche lo sviluppo delle funzioni direzionali e terziarie andrò ad esclusivo vantaggio delle aree più produttive. Nel Mezzogiorno, dunque, in assenza di un'azione sul territorio, la popolazione urbana è destinato ad aumentare, con gravi conseguenze in termini occupazionali.
L'obiettivo di una ripresa del processo industriale è stato al centro di due provvedimenti legislativi, con i quali si è cercato di dare un diverso indirizzo allo sviluppo meridionale. la legge n. 64 del 1° marzo 1986 ("Disciplina organica per l'intervento nel Mezzogiorno") prevede lo stanziamento di 120.000 miliardi per il periodo 1985/93, destinato ad alimentare uno sviluppo basato sulla valorizzazione delle risorse esistenti nel Sud. Il secondo provvedimento, la cosiddetta legge De Vita, mira invece a sostenere l'occupazione nel Sud attraverso un'azione di stimolo all'impreditorialità giovanile. Cambia così la logica dell'intervento straordinario. Non si tratta più di trasferire lo sviluppo al Sud, ma "di assecondare ed apprezzare le spinte già presenti". E' il più grande tentativo di creazione di imprese mai verificatosi nel Mezzogiorno.
E' nell'attuale probabilità che i due provvedimenti hanno di tradursi in un effettivo vantaggio per il Meridione sono strettamente dipendenti dalla volontà dei vari soggetti economici e sociali del Paese (primo fra tutti il movimento cooperativo) di muoversi in questa direzione. è una volontà che, nell'attuale situazione, manca di consistenza e nulla può contro la diffusa indifferenza e l'assuefazione al ritardo meridionale. In questo senso, la presa di coscienza che è nel Sud che si concentra la parte più rilevante dell'esercito di disoccupati potrebbe servire a suscitare quell'interesse collettivo che il degrado meridionale, di per sé, non alimento più.

Il movimento cooperativo è chiamato ad assumere precise responsabilità.
E' alla cooperazione che si rivolgono le giovani generazioni, nell'intento di trasformare idee valide in progetti imprenditoriali. Sono speranze che non possono essere disattese. Tanto più che la cooperazione, grazie alle sue capacità di coordinamento e alla flessibilità con cui si adatta alle esigenze del mercato, appare la più idonea a svolgere un'attiva azione di intervento, volta alla creazione di nuova imprenditorialità.


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