L'ultimo
rapporto redatto dalla Svimez ripropone una questione meridionale che
decenni di intervento straordinario hanno scarsamente modificato. l'immagine
èquella di un Sud emarginato dal grande tavolo su cui tutte le
moderne economie giocano il proprio futuro.
Per la comprensione dei motivi per cui il Sud non è riuscito
a togliersi di dosso la sua veste di arretratezza, è utile ricordare
gli errori in cui è incappata la politica meridionalistica dall'unificazione
ad oggi.
Origini della
"questione"
Fin dal momento della suo unificazione politica, l'Italia vedeva ben
delineato il divario esistente fra le sue regioni centro-settentrionali
e il Mezzogiorno. l'esperienza insegna che, quando zone economicamente
autonome e con livelli di reddito diversificati vengono unificate,
il divario di sviluppo economico esistente fra varie aree è
destinato ad allargarsi se adeguate misure riequilibratrici non sono
adottate.
Così in Italia, dove il primo meridionalismo aveva come obiettivo
quello di sostenere l'agricoltura meridionale. E non poteva essere
altrimenti, visto il carattere prettamente agricolo dell'economia
italiana del periodo. Ma il sostegno non fu adeguato. la situazione
peggiorò con l'avvio del processo di industrializzazione, avvenuto
intorno al 1887. l'industria nazionale trovò il terreno favorevole
al suo sviluppo nelle regioni centro-settentrionali, economicamente
più avanzate. Il dualismo in atto era dunque destinato ad accrescersi.
Nonostante ciò, nessuna politica di sviluppo dell'industria
fu perseguita nel Sud. Per contro, si continuò a sostenere
l'agricoltura e le altre attività connesse alle risorse naturali,
prima fra tutte il turismo. E ci fu chi, ottimisticamente, interpretò
questa articolazione dualistica dell'economia italiana come una razionale
forma di ripartizione territoriale delle attività produttive
del Paese. Solo nel 1950, dopo ben 90 anni di vita postunitaria, durante
i quali nel Mezzogiorno prevalse la logica assistenzialistica, si
diede l'avvio all'intervento straordinario. L'obiettivo era quello
di eliminare il dualismo esistente, rendendo conveniente l'investimento
industriale nel Sud. Un obiettivo grandioso, visto che il Mezzogiorno
doveva essere portato a competere, per investimenti ed iniziative
industriali, con un sistema, quello del Centro-Nord, avviato 60 anni
prima. Per la prima volta nella nostra storia, il problema meridionale
si pose al centro dell'interesse nazionale.
Senza dubbio, l'avvio dell'intervento, segnando la fine di una politica
assistenzialistica e l'inizio di una politica di sviluppo, deve essere
considerato di importanza storica per il nostro Paese. Purtroppo,
i risultati conseguiti sono stati modesti. Il divario Nord-Sud, a
fine '85, è diminuito solo del 10% rispetto a quello esistente
nel 1951. Lo sviluppo dell'agricoltura e del turismo è stato
cospicuo, ma non si è tradotto in un aumento occupazionale.
In verità, è stato proprio l'esodo dalla terra che ha
reso possibile lo sviluppo agricolo. Oggi, infatti, la componente
agricola nel Sud costituisce il 20% dell'occupazione totale e tende
a diminuire ulteriormente. La struttura occupazionale, quindi, è
notevolmente variata. Ma il mutamento non ha coinvolto, se non in
misura irrilevante, quei settori che dovevano fornire occupazione.
L'intensità del problema occupazionale nel Mezzogiorno varia
a seconda delle regioni e delle aree. Si nota, infatti, che il divario
economico e sociale fra Nord e Sud è maggiore in alcune regioni
meridionali, minore in altre. Sylos Labini, ne "Le classi sociali
negli anni '80", distingue tre gruppi di regioni, utilizzando
indicatori relativi al 1983:
Secondo Labini, il minor divario che caratterizza il Molise e gli
Abruzzi, ma anche la Puglia e la Basilicata nei confronti dell'economia
del Nord è dovuto all'influenza delle attività produttive
messe in atto nelle regioni centrosettentrionali della fascia adriatica.
Non solo: "L'evoluzione economica delle aree più dinamiche
è stata favorita dall'assenza di quelle vaste organizzazioni
criminali che, al contrario, hanno frenato lo sviluppo della Campania,
della Calabria e della Sicilia".
Dall'analisi della struttura occupazionale e della composizione settoriale
del prodotto si deduce inoltre che oggi il Mezzogiorno, lungi dall'essere
industrializzato, non può nemmeno essere considerato agricolo.
Questo significa che il grande mutamento non si è verificato
e che il Sud sta ancora vivendo un periodo transitorio cominciato
circa undici anni fa, nel 1975. La stasi che caratterizza questo periodo
impedisce il passaggio alla seconda fase del processo di sviluppo
economico (quella della creazione di un apparato industriale che risponda
alle esigenze di flessibilità e di innovazione imposte dal
progresso tecnico), con effetti deleteri sull'economia meridionale.
L'esistenza di un sia pur inadeguato sviluppo industriale nel Mezzogiorno
è testimoniata dalla quasi totale scomparsa di attività
autonome prevalentemente manuali, caratterizzate da scarsissima produttività
e da bassi salari. Industrie moderne hanno preso il loro posto ed
è un processo che ancora oggi continua ad operare. Il progresso
industriale è quindi manifestato quasi esclusivamente attraverso
la sostituzione qualitativa degli addetti classificati industriali;
e questo spiega perché il loro numero ha subito solo un lieve
aumento rispetto a trent'anni fa.
Lo stato di inferiorità in cui versa oggi il Mezzogiorno rispetto
al resto del Paese èdunque dovuto ad uno sviluppo industriale
incompleto e inadeguato alle esigenze occupazionali poste da una popolazione
attiva in costante aumento. Alla mancata convenienza ad investire
nel Sud continua così a contrapporsi il naturale sfogo di capitali
verso le aree centro-settentrionali.
Questione meridionale
= Questione giovanile
La questione meridionale si fa, quindi, più urgente che mai,
e diventa sempre più questione sociale e, soprattutto, questione
giovanile. Nel Sud, infatti, i senza lavoro sono saliti al 15% circa.
E l'80% di questi disoccupati è costituito da giovani fra i
14 e i 29 anni, la maggior parte del quali sono forniti di diploma
o di laurea. A questo punto, non possiamo astenerci dal fornire una
pesante accusa contro i nostri governanti. Un'intera generazione nel
Sud rischia di restare senza lavoro. Questo stato di cose può
dar luogo a risvolti imprevedibili, forse eversivi. Conscie di questo
pericolo, le autorità cercano di prevenire l'eversione spegnendo
sul nascere movimenti e manifestazioni spesso pacifici, organizzati
da studenti bisognosi di giustizia sociale. l'esigenza, troppe volte
calpestata, di tutelare l'incolumità collettiva giunge così
a giustificare un duro, spesso occulto, sistema di oppressione, attuato
attraverso un potente servizio informativo e militare.
La presa d'atto che il degrado in cui versa tutta la struttura meridionale
sia un terreno fertile al costituirsi di movimenti eversivi dovrebbe
però generare riflessioni più umane. E dar luogo a provvedimenti
che non siano soltanto di oppressione. Non si può impartire
ai giovani solo una cultura del dovere. Così, la necessità
di introdurre il numero chiuso nelle università, per ridare
dignità alla laurea e mutare la logica che vede questa istituzione
un'area di parcheggio per disoccupati, è giusta. Ma chi provvederà
ad adempiere all'altro importante compito, che risponde ad un diritto
sacrosanto, qual è quello di fornire un'occupazione a coloro
che entrano nel mercato del lavoro?
Quale politica
per il Sud
L'assuefazione al ritardo meridionale genera il rifiuto a credere
che molti dei mali italiani siano conseguenza diretta del degrado
in cui verso il Sud. Il dualismo economico è ormai accettato
come una realtà immutabile. l'attenzione è spostata
su altri problemi che dilaniano la stabilità economica, politica
e sociale del Paese. Problemi gravi, che però nulla dovrebbero
togliere alla dolorosità del problema meridionale. la necessità
di attribuire a ciascuno di essi il giusto posto nella priorità
degli interventi non deve più tradursi in un modo per sfuggire
alle proprie responsabilità. la politica economica generale
non può eludere il confronto con gli effetti da esso provocati
sull'economia meridionale.
Partendo dalla considerazione di fondo che per eliminare il dualismo
non è possibile concepire un modello di sviluppo che esuli
dalla ripresa del processo di industrializzazione nel Mezzogiorno,
si delinea l'esigenza di ricercare quelle condizioni atte a creare
la convenienza ad investire nel Sud. la strategia di una riqualificazione
territoriale dell'assetto metropolitano e del terziario urbano, strategia
suggerita con insistenza dalla Svimez, deve essere vista come uno
strumento a cui, in mancanza di un adeguato insediamento industriale,
il Sud deve ricorrere per uscire dal ristagno economico e per promuovere
l'industrializzazione. Sarebbe però illusorio considerare questa
strategia un "sostituto storico" dello sviluppo industriale.
Difficilmente l'azione sul territorio potrà costituire un nuovo
modello di sviluppo; mentre, quasi certamente, la sua applicazione
potrò accrescere la convenienza ad investire nel Sud, creando
l'humus favorevole all'insediamento industriale.
l'importanza attribuita dalla Svimez al riassetto e aliti riqualificazione
urbana nel Mezzogiorno deriva dal fatto che il sistema urbano meridionale,
nel suo complesso, è oggi causa di crescente divario con il
resto del Paese. E' vero che la crisi urbana colpisce ormai tutte
le nazioni industrializzate del mondo, e quindi, anche l'Italia centro-settentrionale.
Però, di fronte al conseguente rischio di sovrappopolazione
urbana, le aree industrializzate possono contare su processi spontanei
di ridimensionamento demografico (declino delle nascite, decentramento
delle residenze). Il Mezzogiorno no. Anche lo sviluppo delle funzioni
direzionali e terziarie andrò ad esclusivo vantaggio delle
aree più produttive. Nel Mezzogiorno, dunque, in assenza di
un'azione sul territorio, la popolazione urbana è destinato
ad aumentare, con gravi conseguenze in termini occupazionali.
L'obiettivo di una ripresa del processo industriale è stato
al centro di due provvedimenti legislativi, con i quali si è
cercato di dare un diverso indirizzo allo sviluppo meridionale. la
legge n. 64 del 1° marzo 1986 ("Disciplina organica per l'intervento
nel Mezzogiorno") prevede lo stanziamento di 120.000 miliardi
per il periodo 1985/93, destinato ad alimentare uno sviluppo basato
sulla valorizzazione delle risorse esistenti nel Sud. Il secondo provvedimento,
la cosiddetta legge De Vita, mira invece a sostenere l'occupazione
nel Sud attraverso un'azione di stimolo all'impreditorialità
giovanile. Cambia così la logica dell'intervento straordinario.
Non si tratta più di trasferire lo sviluppo al Sud, ma "di
assecondare ed apprezzare le spinte già presenti". E'
il più grande tentativo di creazione di imprese mai verificatosi
nel Mezzogiorno.
E' nell'attuale probabilità che i due provvedimenti hanno di
tradursi in un effettivo vantaggio per il Meridione sono strettamente
dipendenti dalla volontà dei vari soggetti economici e sociali
del Paese (primo fra tutti il movimento cooperativo) di muoversi in
questa direzione. è una volontà che, nell'attuale situazione,
manca di consistenza e nulla può contro la diffusa indifferenza
e l'assuefazione al ritardo meridionale. In questo senso, la presa
di coscienza che è nel Sud che si concentra la parte più
rilevante dell'esercito di disoccupati potrebbe servire a suscitare
quell'interesse collettivo che il degrado meridionale, di per sé,
non alimento più.
Il movimento cooperativo
è chiamato ad assumere precise responsabilità.
E' alla cooperazione che si rivolgono le giovani generazioni, nell'intento
di trasformare idee valide in progetti imprenditoriali. Sono speranze
che non possono essere disattese. Tanto più che la cooperazione,
grazie alle sue capacità di coordinamento e alla flessibilità
con cui si adatta alle esigenze del mercato, appare la più
idonea a svolgere un'attiva azione di intervento, volta alla creazione
di nuova imprenditorialità.