§ DIBATTITI

Questione o questioni meridionali?




Pasquale Saraceno



L'esistenza tra le regioni del Mezzogiorno di rilevanti divari di sviluppo è questione che da sempre richiama l'interesse dei meridionalisti, un interesse crescente dato che, con il procedere dell'intervento, quei divari sono andati accentuandosi. Una prima nozione di divario si ottiene, come è noto, facendolo corrispondere alle differenze intercorrenti tra prodotto pro-capite di ciascuna regione e prodotto pro-capite del Centro-Nord. Questo riferimento al Centro-Nord è bene sia abbandonato, dato l'eterogeneità delle regioni che lo costituiscono: da un lato, ad esempio, l'Umbria, dall'altro il Piemonte. Più significativo, come riferimento, è il gruppo delle regioni dell'Italia centrale, fatta esclusione del Lazio, regione che, a causa della presenza della capitale, non è utilizzabile per il raffronto.
Il complesso Toscana-Umbria-Marche si presenta molto omogeneo; inoltre, il prodotto pro-capite di quell'area è minore di quello dell'Italia settentrionale e misura quindi in modo più realistico l'obiettivo minimo che la politica meridionalistica deve perseguire per considerare superato il divario: importante è anche il fatto che quei complesso di regioni centrali possiede una struttura economica che è meno lontana di quella del Nord dalla struttura cui ragionevolmente tende il Mezzogiorno.
Sulla entità dei divari interni, più significative delle differenze regionali di prodotto pro-capite sono però le differenze nella intensità di sviluppo che si è avuta in ciascuna regione in un periodo determinato; e il fatto che nell'ultimo decennio il divario Nord-Sud non sia diminuito non lascia dubbi che sia il decennio 1975-84 il periodo da prendere in considerazione.
Ora, un confronto tra i saggi di aumento del prodotto avutisi in quei decennio porta a distinguere nettamente il gruppo di regioni dell'area che denomineremo adriatica, Abruzzo, Molise, Puglia e Basilicata, dal gruppo delle regioni periferiche, Calabria, Sardegna e Sicilia. Nel complesso del primo gruppo il saggio medio di aumento del prodotto per abitante è stato nel decennio dell'1,8%, nel secondo dello 0,9%, cioè della metà.
Una differenza, di entità però minore, si rileva anche nel livello relativo del prodotto pro-capite: rispetto alle regioni dell'Italia centrale il divario è stato nel 1984, anno finale del decennio considerato, del 28% nell'area adriatica e del 36% nel complesso delle regioni periferiche.
In base a questi dati, possiamo giungere alla constatazione che, dopo 35 anni di intervento straordinario, si è formato nel Mezzogiorno una struttura definibile dualistica; da un lato vi è il gruppo delle regioni adriatiche, il cui divario è più basso e il recente saggio di sviluppo più alto, dall'altro il gruppo delle regioni periferiche, il cui divario è piú elevato e il saggio di sviluppo minore. E' da domandarsi, in base a questi dati, se non sia giustificato dire che nel primo gruppo di regioni il decollo industriale, se non avvenuto, si prospetta probabile, mentre per il secondo gruppo un simile giudizio non può essere dato.
In questa distinzione non ha trovato posto la Compania; in questa regione il saggio medio annuo di aumento del prodotto pro-capite è stato dell'1,3% nel decennio 1975-84; esso si situa quindi alla metà circa tra i saggi rilevati per i due blocchi di regioni ora considerati,- a metà strada si trova anche il divario medio del prodotto pro-capite della regione rispetto al blocco dell'Italia centrale: 31%. Ai fini del nostro esame va anche tenuto presente che la Campania possiede un complesso di impianti industriali che, per dimensione, per natura dei prodotti e per tradizione, tiene il confronto con complessi produttivi delle aree industrializzate. Non sembra quindi che per la Campania si possa parlare, come per gli altri due gruppi di regioni, di mancato decollo oppure di un decollo che è in vista; è una situazione "atipica" che va approfondita specialmente sotto due aspetti: l'assetto urbanistico e le prospettive del complesso industriale manifatturiero che già esiste.
Secondo la ripartizione adottata, il 30% della popolazione meridionale risiede nell'area adriatica in cui il decollo potrebbe essere in vista; il 43% nelle regioni periferiche in cui tale prospettiva non si intravvede e il 27% in Campania. Indagini più approfondite potrebbero consigliare qualche variazione nella composizione dei primi due gruppi; tali eventuali variazioni non muterebbero però i termini del problema che va oggi preso in considerazione, quello di passare a una nozione di divario che faccia meno riferimento alle differenze di prodotto e ne faccia in maggior misura alla differenza di intensità di sviluppo e quindi alla diversità delle strutture produttive che si sono formate nei vari gruppi di regioni.
L'accentuarsi dei divari interni al Mezzogiorno non deve però far ritenere che 35 anni di intervento straordinario abbiano, tra gli altri risultati, prodotto anche quello di metterci di fronte non più a una ma a più questioni meridionali. La questione rimane nei termini in relazione ai quali, alla fine dell'ultima guerra, venne proposto l'intervento straordinario. Si disse allora che il dualismo della società italiana era specialmente determinato dal fatto che nel triangolo industriale si era avuta una accumulazione di capitale industriale e una capacità di espansione di quel capitale sufficienti per accogliere l'offerta di lavoro che si prospettava in tutto il Centro-Nord; era anzi da prevedere una rilevante immigrazione dal Mezzogiorno. Questa situazione non si era formata nell'area meridionale, né poteva essere determinata dalle forze agenti nel mercato italiano. Occorreva quindi un'azione pubblica che rendesse conveniente un diffuso investimento industriale anche nel Mezzogiorno; le modalità di questa azione andavano dedotte da un confronto tra la struttura produttiva del Centro-Nord e quella del Mezzogiorno, un confronto che poteva aver luogo solo nella sede centrale nella quale viene formulata la generale politica economica del paese. Resa possibile una maggior crescita industriale nel Mezzogiorno, si doveva poi ripartire tale crescita nel territorio meridionale; a tal fine si richiedevano azioni appropriate alla situazione delle singole aree e quindi azioni diverse tra loro. Quella impostazione non richiede di essere cambiata; va però tenuto conto del fatto che dal tempo in cui essa venne proposta si è molto accresciuta e tende ulteriormente ad accrescersi la diversità tra le situazioni esistenti nelle varie aree; è su questo piano che occorre quindi innovare. Si badi, non si tratta di una questione nuova; oltre cinquant'anni or sono Soavemini già chiedeva che, nelle politiche, si distinguesse tra area napoletana e il resto del Mezzogiorno; con le considerazioni sopra esposte si tratterebbe ora di distinguere, nella gestione dell'intervento, tre aree anziché le due indicate da Salvemini.
La grande novità decisamente apparsa negli ultimi tempi nei termini della questione meridionale è un'altra; essa si ritrova al livello superiore, ove si svolge il confronto tra sviluppo dell'economia del Centro-Nord e industrializzazione del Mezzogiorno. Nelle conversazioni che si svolgevano già nella fase finale della guerra non vi erano dubbi che, con la fine della ricostruzione, vi sarebbe stata, nel nostro paese, una espansione rilevante negli investimenti industriali; il problema era quindi quello di identificare le politiche con le quali ottenere che una parte di quella espansione avesse luogo nel Mezzogiorno. Da qualche anno l'espansione industriale ha luogo in Italia, come negli altri paesi industrializzati, prevalentemente con l'aumento della produttività degli impianti esistenti invece che con la costruzione di nuovi impianti, impianti da ubicare, con politiche adeguate, nel Mezzogiorno. E' molto diminuita, se non scomparsa, la massa degli investimenti su cui operare per portare avanti l'industrializzazione del Mezzogiorno; e si deve ammettere che non sono ancora chiariti i termini della politica con cui reagire a una simile situazione.

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