§ LETTERA AL PROFESSOR AIELLO

Intellettuali e storia l'universitą crisi della teoria economica




Pietro Montinari



Un giorno lo scrittore Giovanni Arpino scrisse che il genere epistolare vive una vita grama, boccheggia colpito dagli strali inclementi della società tecnologica.
L'homo tecnologicus non conosce la pausa, non apprezza la meditazione. Il suo cuore non palpita più, come un tempo accadeva ai letterati, per il perseguimento di un ideale, semplicemente perchè l'homo tecnologicus non rincorre gli ideali.
In più negli ultimi anni assistiamo al definitivo tramonto dell'ideologia e dell'impegno politico spinto oltre ogni ragionevole misura. Sopita l'acredine tra le classi, se ancora è realistico parlare di classi, nel mito della palingenesi sociale restano gli orpelli. Il terrorismo, partorito dall'ubriacatura ideologica degli anni roventi della contestazione, ha segnato il passo.
In compenso la noia pervade i delusi del '68 e la droga intorbida tante giovani coscienze disorientate.
Stiamo forse vivendo l'appendice di un ricorso storico?
Vedo comunque il futuro con ottimismo ma ciò non basta per sedare in me l'amarezza per una certa Italia incline a relegare nell'oblìo tanti notabili della Cultura che finiscono col riparare all'estero. Valga per tutte la vicenda del Maestro di Letteratura e giornalismo Giuseppe Prezzolini i recente scomparso.
D'altronde, noialtri italiani abbiamo troppi Maradona da impinguare e adulare per badare ad un Prezzolini!
Mi chiedo se questo agire non sia il portato del consumismo, figlio degenere e morte del capitalismo.
Mi chiedo se non sia proprio il consumismo che impone il Danaro come ragione unica, fine ultimo dell'esistenza.
Se così è, come può, nel rarefatto clima sociale che ne consegue, sopravvivere un sano sodalizio?
Come può venire l'ispirazione per scrivere due righe?
Nell'amicizia, come nelle relazioni di lavoro, come nell'amore si taglia corto con una telefonata o con un'altro dei numerosi ed agguerriti congegni moderni che hanno rivoluzionato le comunicazioni.
Il telefono non conosce vincoli di ortografia e di sintassi, non impone coerenza di analisi logica.
Il telefono lascia liberi e collega rapidamente. Con grande vantaggio di tutti. Ma anche con dolore dei nostalgici della massima "scripta manent".
Orbene, ecco come si spiega questa lettera.
Non perchè io voglia mettermi alle Sue grazie, che' sarebbe da parte mia, intento spregevole quanto goffo; ma perchè non mi voglio arrendere alla realtà dell'università che conosco in cui i rapporti tra docenti e discenti sono impersonali e, oserei aggiungere, burocratici. Tanto burocratici che certi argomenti di studio si affrontano solo negli aridi manuali o nelle fredde aule didattiche. D'altra parte fuori dell'università, nei vellutati salotti di una certa società italiana radical-chic incapace di vita interiore e di slanci autentici, la Cultura si confonde con le mode, il gusto della ricerca è bistrattato dalle stravanganti agiatezze che il consumismo odierno abitua a rendere indispensabili.
Accade che la materialità delle passioni mondane e delle gioie dell'incontrollato benessere economico inaridisca le regioni dello spirito costringendole alla dira mercé dell'effimero e contraddicendo la logica del vero e sano capitalismo che si cibo di tutt'altre pietanze: la dignità e il decoro, la compostezza dei costumi e l'austerità (penso alla dottrina della predestinazione luterana e, nonostante gli eccessi moralistici del puritanesimo, ai "Principi della religione cristiana" di Calvino) ed ancora l'etica liberale classica che si affida all'individualismo, allo spirito d'intrapresa e al culto del risparmio.
Il punctum dolens sta proprio in questo: il capitalismo italiano è un capitalismo senza etica perchè non ha solide radici storiche. A differenza dell'Europa centro-settentrionaIe, il nostro paese non ha visto fiorire la Riforma. Molti storici se ne stupiscono. Altri giustificano ampiamente lo scarso contributo italiano alla Riforma. Qual'è il suo pensiero in proposito?
C'è chi asserisce che agli italiani interessava restar cattolici perché essi erano unici beneficiari delle rimesse che dall'Europa intera confluivano nella Chiesa e si diffondevano in tutta la penisola. E siccome pare che sia stata proprio la ribellione a questa mungitura a provocare il motivo più immediato della riforma nel Paesi del Nord, potevano gli italiani, unici beneficiari delle rimesse d'Oltralpe, perorare la causa protestante?
Ancora professore, non pensa che nel XV° e nel XVI° secolo mancassero nel nostro Paese quei fermenti spirituali, "quella sete di Dio" che altrove rendevano attuale il problema religioso? Gli italiani allora "avevano trovato un comodo compromesso fra paganesimo e cristianesimo in un credo politeistico popolato di benevoli Santi protettori" (Montanelli).
Tra gli intellettuali, nel XV° sec., c'erano minoranze desiderose di una maggiore libertà di coscienza, di pensiero e di espressione. Ma esse erano state distratte, anche ad opera della Chiesa, dal problema religioso alla cultura classica.
Non per nulla il classicismo fiorì nel periodo storico in esame. Le dissertazioni su Platone ed Aristotele erano per Papi e Cardinali un ottimo diversivo da somministrare ai pavidi intellettuali rendendoli refrattari alle dispute religiose. Peraltro l'assenza in Italia di un potere laico capace di proteggere le minoranze dissenzienti ci aiuta a comprendere, se non a giustificare, l'eunucheria di molti nostri uomini di cultura.
Abbiamo, comunque nella Penisola nomi come la contessa Renata d'Este, Bernardino Ochino, Pietro Vermigli ed altri esponenti minori attestati su posizioni riformistiche.
Dopo decenni di storia tormentati dalle alterne vicende degli aragonesi e degli angioini che fecero della penisola terra di conquista, la definitiva affermazione del dominio spagnolo in Italia (eccettuata Venezia) con la pace di Cateau-Cambresis del 1559 inferse un altro duro colpo all'intellettuale italiano prosternato ai piedi del "Principe" di turno e impermeabile ai fermenti della cultura europea.
In campo religioso, il concilio di Trento, come Lei mi insegna, dissolvette ogni speranza di riconciliazione fra cattolici e protestanti ed elaborò la dottrina della Controriforma.
Lo stesso mecenatismo rinascimentale, che ci ha regalato la grande fioritura artistica e letteraria che a tutti è nota, ha contribuito ad imprimere nell'intellettuale italiano "quei caratteri cortigiani, adulatori e declamatori, di cui la cultura italiana non è mai più riuscita a disfarsi" (MONTANELLI, op. cit.).
Si deve arrivare all'Unità, come Lei mi insegna, e soprattutto al 1870 perchè l'Italia trovi le condizioni politiche capaci di liberarla da secoli di dominazioni e di avviare faticosamente il processo di sprovincializzazione della nostra cultura, ahimé, ancora in corso.
La stessa rivoluzione industriale allignò più tardi nella penisola anche per la presenza di una civiltà contadina da noi più arretrata che altrove. Non per nulla Ettore Conti, nel suo "Taccuino di un borghese", qualificò misoneisti i nostri uomini della terra.
Il cattolicesimo, o meglio la presenza della Santa Sede nella penisola, completa l'opera di ritardo nell'evoluzione civile, industriale e culturale italiana rispetto ai paesi della Mitteleuropa ovvero in quell'ambito politico-economico corrispondente all'Europa centrale, secondo la tesi della diplomazia tedesca alla fine del secolo XIX.
E con tale retaggio di Storia ci stupiamo di vederci costretti a riparare negli Annali stranieri per scovare in Olanda un certo Benedetto Spinoza che, con la sua opposizione all'assolutismo, già nel '600 propugnava la tolleranza religiosa e la libertà individuale nel "Trattato teologico- politico" ed identificava "la sostanza valida ed universale della religione non con i culti particolari ma con la legge naturale di giustizia e di carità, del cui rispetto ogni uomo deve rispondere solo a Dio e alla propria coscienza". (R. Villari, Storia moderna Vol. II°).
Lampante la modernità del pensiero di Spinoza.
L'autorità statale, continua Spinoza, non può soffocare la libertà di coscienza e di pensiero di ciascun individuo.
Ma non basta. Samuel Pufendorf fu più esplicito di Spinoza nel distinguere la ragione naturale dalla teologia.
Ed ora voliamo dalla religione alla politica con Locke che, impiegando la teoria del diritto naturale, andò oltre Spinoza e Pufendorf quando contrappose nettamente assolutismo e legge di natura e asserì che "il governo assoluto non nasce dal consenso dei sudditi, ma mediante la sopraffazione e la negazione dell'ordine naturale. Gli uomini liberi hanno dato vita allo Stato non per annullare i diritti naturali ma per salvaguardarli" (VILLARI op. cit.).
Siamo alle origini del pensiero liberale.
Ma queste origini, dalla religione alla politica, lo ribadisco fino alla noia perchè la cosa mi duole, noi le rinveniamo all'estero, o soprattutto all'estero.
Non era forse straniero anche il filosofo e scienziato tedesco del '600 Goffredo Leibniz, luterano, che utopisticamente (ma non sappiamo fino a quando) propugnava la conciliazione fra le Chiese data la presunta comunanza del loro principi fondamentali? E questa tesi noi la ritroviamo esasperata nel deismo voltairiano del successivo secolo dei lumi.
Ma forse è meglio chiudere questa lunga parentesi storica per ritornare all'Università. Ho fatto ricorso ad essa semplicemente perché penso che alla luce della Storia, gli avvenimenti dell'attualità possano essere più consapevolmente indagati.
D'altronde, a che cosa altro serve la Storia se non a prendere consapevolezza di noi stessi e della realtà che ci circonda?
Quanto all'Università, molti discenti, bramosi di accaparrarsi il "pezzo di carta", frequentano i docenti finché essi superano i relativi esami. Dopodiché la frequentazione non ha più un senso perché non è più utile!
E' vero che ci sono docenti che non amano coltivare sodalizio alcuno con i loro allievi perché sono in tutte altre faccende affaccendati; è pure vero che, a discapito di docenti valorosi in ombra ci sono docenti che godono da giovane età degli onori della cattedra più per merito dei loro "Santi Protettori" che per meriti propri. è altrettanto vero però che siccome non tutti i docenti sono così, noi studenti abbiamo il dovere di distinguere. Come è pur vero che ci sono dall'una parte e dall'altra schiere di annoiati che, vivendo carpediem, poco hanno a cuore le parole che Luigi Einaudi scriveva nelle sue memorabili "Prediche inutili" a proposito del pensiero di Rousseau e del compito degli universitari, parole che Lei certamente conosce a menadito: "L'università non ha per ufficio di proclamare la superiorità dell'economia di mercato su quella regolata: di una organizzazione liberale della società su una organizzazione socialistica. Il nostro COMPITO E' QUELLO DI AMMONIRE: nessuno pretenda di farsi guida ai popoli; nessuno affermi di essere in grado di conoscere quella volontà generale che i cittadini non sono chiamati a ricercare ma solo a riconoscere e, riconosciutala ad opera degli dèi-guida, ad attuare. L'autocritica rivolta a dichiarare l'errore delle proprie deviazioni nell'ambito della verità dichiarata dall'uomo-guida, dal collegio-guida, dal partito-guida; la critica chiusa entro confini stabiliti dall'uomo e dagli uomini che da sé si sono definiti sapienti, non è critica, è abietta sottomissione alla guida del tiranno. l'università dei docenti e dei discenti respinge questo tipo di critica. Il suo verbo è sempre e soltanto: la verità si conquista riconoscendo che OGNI VERITA' ANTICA, che OGNI PRINCIPIO ACCETTATO PUO' ESSERE L'ERRORE.
"LA VERITÀ VIVE SOLO PERCHE' PUO' ESSERE NEGATA. Essendo liberi di negarla ad ogni istante, noi affermiamo, ogni volta, l'impero della verità". (Luigi Einaudi -Prediche Inutili, pr. ed., pag. 202). Seguendo Einaudi mi pare di finire in un altro mondo, quello dell'utopia.
Penso all'insufficiente specializzazione degli indirizzi universitari, alla grave assenza dell'interdisciplinarietà tra gli istituti, al labile gusto critico di alcuni studenti (con tutto il rispetto per la preparazione della generalità dei miei colleghi) gusto che, se fosse più acceso, rinfocolerebbe (come direbbe il poeta Cardarelli) il dibattito sugli argomenti trattati nel corso delle lezioni le quali, giocoforza, il più delle volte, si esauriscono in pesanti monologhi ridondanti di retorica, stracolmi di citazioni, poveri di frizzi e di lepidezze, ostili a quell'umorismo educatore, prezioso patrimonio della migliore tradizione anglosassone che è tanto estranea a noi mediterranei.
Se non ci fossero state le Sue animate lezioni, i convegni da Lei organizzati (penso agli interessanti interventi dei professori Franco e Lombardini) i miei quattro anni di vita universitaria sarebbero consistiti in un lunghissimo letargo', in una noia senza fine. le sono grato per il Suo edificante insegnamento, professore, gliene sono grato senza ipocrisia, mi creda, perchè Lei con la sua attività didattica ha risvegliato in me il gusto dell'approfondimento, 'il tarlo della ricerca', come direbbe il sociologo De Masi.
Ad esempio, professore, non sarebbe entusiasmante nelle facoltà di economia oltreché sull'economia politica appuntare il bersaglio dello studio sulla crisi che, pervadendo l'analisi economica del nostro tempo, (è questo un tema sul quale, nelle Sue lezioni, Lei indugiò spesso) mi pare stia contribuendo a rendere fragili e macilente le misure di politica economica, finanziaria e industriale adottate dai vari governi? Questa crisi non ha forse reso arduo l'ufficio di voi economisti contemporanei?
E' consaputo che il pensiero economico, nel XIX secolo, s'è evoluto al ritmo della storia. Oggi non più. Nell'epoca postindustriale (Sergio Ricossa preferisce parlare di "terza rivoluzione industriale" leggendo nelle attuali trasformazioni l'innovazione nella continuità e non la rottura con le precedenti due rivoluzioni del secolo scorso: condivide?) troppo rapidamente la scienza e la tecnologia corrono per evitare che l'economia politica arranchi.
Galbraith avverte che "molti economisti continuano ad insegnare ai loro studenti le teorie neoclassiche pur sapendo che esse sono superate". Già Keynes, e altri insieme e dopo di lui, dalla crisi degli anni Trenta trasse la conclusione che l'equilibrio economico del sistema poteva tranquillamente accompagnarsi con un alto tasso di disoccupazione. Non fu forse Keynes a concepire l'azione dell'intervento pubblico finalizzata al conseguimento del pieno impiego? Forse è il caso di aggiungere (Lei lo ha più volte ricordato nelle sue lezioni) che la Robinson, pur se economista di sinistra, constatò acutamente come HitIer, impiegando i disoccupati nell'industria militare, avesse attuato prima ciò che gli economisti keynesiani avrebbero poi teorizzato.
Ma il problema su cui gradirei il suo parere non sorge qui. Sorge quando Galbraith reputa superato lo stesso Keynes.
Forse è meglio lasciar parlare Galbraith: "Sì, Keynes è superato anche se molti economisti non vogliono ammetterlo. Le sue idee sono ancora la base del pensiero economico occidentale. Senza mettere in discussione il ruolo motore dell'interesse personale, né il meccanismo regolatore della concorrenza e del mercato, esse esprimono la fede insita nel ruolo dello Stato: che dall'intervento misurato e accorto dei governi e delle banche centrali possa venire il potere d'acquisto necessario a mantenere il pieno impiego senza provocare per questo effetti avversi. Ma Keynes s'era applicato ai problemi del suo tempo, la disoccupazione e la recessione; aveva quasi completamente ignorato l'inflazione. Ora, l'inflazione è divenuta negli ultimi dieci anni il problema principale di tutte le società industriali e un sistema che non ne tenga sufficientemente conto, può essere definito superato.
Purtroppo i nostri dirigenti si sono fossilizzati alle idee di Keynes. E, in mancanza di un nuovo Keynes, non hanno ancora trovato un rimedio all'inflazione". Allora professore, conviene con Galbraith? O anche lei è un economista "nostalgico" (è parola di Galbraith, non la uso io) delle teorie del dottor Keynes? O è la mancanza di un "nuovo Keynes" come lamenta il professor Galbraith, che ha scatenato la crisi della scienza economica e "l'obsolescenza" dei suoi strumenti d'indagine?
Ed ancora, secondo lei, quali sentieri dovreste percorrere voi studiosi per dischiudere all'analisi nuovi orizzonti?
Infine, come Lei se lo prefigura, se è possibile prefigurarselo, nell'era della telematica, "il nuovo Keynes"?
Sono domande di fronte alle quali io mi arrovello il cervello da tempo senza sosta ma soprattutto senza successo e perciò ricorro volentieri ai Suoi lumi non mancando di constatare tutta la mia sprovvedutezza.
Ma torniamo alla storia delle dottrine economiche. Lei mi ha insegnato che Keynes propugnò l'intervento dello Stato senza mettere in discussione alcuni dei grandi temi della scuola liberale che, mi corregga se sbaglio, ci riportano ad Adam Smith ed, in una certa misura, alle idee dei fisiocrati francesi, Quesnay, Turgot e Du Pont (il capostipite della dinastia della chimica).
Penso al ruolo motore dell'interesse personale che, con Smith, induce l'individuo a servire la comunità guidato da una "mano invisibile". E penso al meccanismo regolatore della concorrenza e del mercato. Ma Lei non ha mancato di ricordare reiterate volte che esiste un altro composito filone di pensiero, quello dei socialisti da Proudhon a Marx e Lenin.
Ebbene professore, qui le pongo un'altra serie di domande. E' vero che quel che da più parti si argomenta di Marx e cioè che pure costui è superato perché il capitalismo, e con esso il sistema industriale, si è sviluppato in una direzione diversa da quella da lui preconizzata? Marx, infatti, mi corregga se sbaglio, aveva presagito ne "II Capitale" che la concentrazione capitalistica avrebbe provocato l'assorbimento delle piccole imprese nella grande impresa. E la concorrenza sarebbe stata messa alle corde dal monopolio. Gli operai, trovandosi in più gran numero, nella fabbrica, avrebbero preso coscienza della loro condizione di sfruttati, condizione che li avrebbe indotti a socializzare. Da ciò sarebbe derivata la forza degli operai finalmente capaci di travolgere il capitalismo e di sostituirlo col socialismo. Se questo, detto in soldoni, è il progetto politico marxiano, non pensa che Marx sia superato semplicemente perchè la vicenda storica si è evoluta al punto che i proprietari del capitale hanno visto ridimensionato il loro potere a vantaggio della moderna categoria sociale del manager il suo sopravvento Marx non aveva previsto e ragionevolmente non poteva prevedere?
E se ciò è vero, perchè tanti marxisti italiani si sono accorti così tardi del limite temporale di validità storica del pensiero economico-politico marxiano?
E qui, mio malgrado, mi fermo. Temo la prolissità di cui, grazie a Dio, sono affetto in forma acuta. In questa lettera una miriade di dubbi resta inespressa. Dubbi che non investono solo l'economia. la stessa tesi che, come ricorderà, sto per completare sulla Borsa Valori dietro la Sua guida, mi sta dando l'opportunità di capire, attraverso la consultazione di manuali, testi legislativi, giornali, quanto il sistema finanziario italiano e in esso il mercato secondario, succube di certe influenze politiche, informandosi a schemi organizzativi antiquati, sia arretrato rispetto al sistema produttivo. Ancora troppi vincoli, troppe pecette tengono distante il risparmio dall'investimento. Non solo. Occorre secondo molti intensificare nel nostro paese la ricerca libera, quella applicata e quella di sviluppo.
Per quanto concerne l'industria, condivide lei l'opportunità di un'organizzazione che consenta alle piccole e medie imprese di far tesoro dei risultati innovatori della ricerca universitaria avvicinando l'industria all'Università? E' questo un tema che mio padre solleva spesso poichè egli lo vive come medio industriale, in prima persona. Occorre, secondo mio padre, che gli imprenditori, (organizzatori dei fattori della produzione ed assuntori del rischio: è la definizione neoclassica che lui ama ripetere spesso) oltre ad una vasta informazione merceologica e alla conoscenza della mappa del potere economico e finanziario, agiscano assecondando le tendenze del futuro prossimo che John Naisbitt nel suo 'Mega trends', best-seller n. 1 negli U.S.A. così riassume:
"Stiamo passando
I) da una società industriale ad una dell'informazione.
II) dalla tecnologia forzata al rapporto alta tecnologia-alta sensibilità.
III) dall'economia nazionale all'economia mondiale.
IV) dal breve termine al lungo termine.
V) dalla centralizzazione al decentramento.
VI) dall'aiuto centralizzato e istituzionale all'autosufficienza.
VII) dalla democrazia rappresentativa alla democrazia partecipativa.
VIII) dalle gerarchie alla 'maglie del reticolo'.
IX) dallo sviluppo al Nord allo sviluppo al Sud.
X) dall'opinione escludente le altre opinioni multiple".
C'è quanto basta, in questo schema, perchè io mi debba preoccupare di capire qualcosa di più di un mondo come il nostro sempre più complesso. Questo approfondimento comporta certo difficoltà.
Chi meglio di lei che ha speso una vita per la Cultura può sapere quanto sia laborioso ampliare i proprio orizzonti?
D'altronde le difficoltà non mi turbano. Non sono forse esse il sale dalla vita? Con affetto sincero.

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