§ L'INEDITO TESTAMENTO SPIRITUALE DI ALFONSO GATTO

La poesia è l'unica forza di dire l'unico talamo legittimo l'unico amore legittimo




Ennio Bonea



Dieci anni fa moriva Alfonso Gatto.
Lo ricordiamo attraverso la sua voce in una "lezione" agli universitari leccesi tenuta pochi mesi prima dell'incidente mortale.

Quando insieme al titolare della "Libreria Adriatica" chiesi ad Alfonso Gatto di venire a Lecce a tenere una lezione ai miei studenti universitari, per i quali svolgevo un corso monografico sul tema Alfonso Gatto e la poesia della Resistenza, anno accademico 1974-75, il poeta non si fece pregare, anzi accettò con entusiasmo di tornare a Lecce dove aveva amici, poeti ed artisti, e perchè gli riaffiorarono i ricordi di una stagione editoriale e di una collaborazione alla pagina letteraria de "Il Critone" (1956-1966), che non si limitò ad un fatto di simpatia per una sorta di revivescenza ermetica che la rivista esprimeva attraverso le collaborazioni di Macrì, Betocchi, Bigongiari, Parronchi, Luzi che avevano rinverdito il rapporto Lecce-Firenze, instaurato su "Vedetta Mediterranea" dal duo Macrì-Bodini nel 1941.
Credo che nell'animo di Gatto, quando pensava a Lecce, la memoria delineasse non solo il "quaderno" La madre e la morte, pubblicato nel 1959 dalla rivista, ma il momento esistenziale di giorni e contatti che, di recente, Donato Valli ha felicemente descritto in Cento anni di vita letteraria nel Salento: "Quello de "Il Critone", fu, oltretutto, il momento di più intensa collaborazione e quasi di penetrazione di Gatto nel Salento. Vi si rifugiava con un senso di gioia misteriosa e contenuta tra la riverenza e la dissacrazione: godeva di scandalizzare la buona borghesia salentina e la sua sufficienza aristocratica con la provocazione di una sfrenata intelligenza e di una crudele ironia in una città che faceva dell'intelligenza e dell'ironia il vanto più grande; riposò con religioso raccoglimento nella silenziosa casa di Corni, solenne come un tempio: solidarizzò con istintiva familiarità con Vittorio Pagano ricordando i fasti fiorentini e mitizzando una categoria macriana di critica e di costume".
Quando entrò nell'aula dove si assiepavano gli studenti, e non solo quelli che seguivano il mio corso, ma quanti poterono essere presenti nel pur vasto spazio disponibile oltre i posti dei banchi, si avvertiva il senso di un'attesa che esprimeva curiosità e reverenza e non consentiva divagazioni a chi conduceva lo svolgimento dell'incontro, che ero io. Compresi che non avrei dovuto indulgere ad una "presentazione"... canonico, né alla tentazione di costruire una cornice massiccia intorno al profilo di Gatto.
Mi limitai perciò a segnare la traccia esistenziale, dalla sua nascita come poeta, a ventitré anni, nel 1932, con Isola, la sua prima raccolta, coeva a Oboe sommerso di S. Quasimodo che aveva esordito due anni prima con Acque e terre; a Realtà vince sogno di Betocchi; alla riedizione carabbiana di Ossi di seppia di Montale; preceduta, l'anno prima da Sentimento del tempo di Ungaretti: un corredo di nomi e di titoli che preannunciavano una posizione di preminenza nella poesia italiana del '900.
La successiva tappa della sua vita fu, dopo Morto ai Paesi (1937) seconda raccolta, la redazione con Vasca Pratolini di "Campo di Marte", il quindicinale che in un solo anno di vita riuscì a irritare il fascismo ufficiale e quello rivoluzionario, l'antifascismo crociano e i cattolici di "Frontespizio", la cultura accademica e quella rondiana e aristocratica, perchè, scrisse il non ancora trentenne coredattore in Congedo provvisorio, che divenne poi definitivo, nel numero datato 1 luglio-1 agosto 1939 "a noi interessa soprattutto che "Campo di Marte" abbia fondato i valori di una conoscenza nuova e concreta che ha nella letteratura, come in ogni altra seria disciplina della vita, la sua piena condizione umana". Anche questa circostanza, fu premonitrice del terzo momento esistenziale di Gatto: la sua partecipazione alla resistenza armata come partigiano e come poeta.
Nel 1966 Mondadori raccolse in unico volume, La storia delle vittime, le "poesie della resistenza" dal 1943 al 1965 dedicato a Vittorini. Non doveva meravigliare la data d'arrivo della raccolta, ormai lontana vent'anni dalla fine della lotta di liberazione, perchè Gatto aveva scritto nel Preambolo: "La Resistenza (..) non è un momento eccezionale dell'essere: essa è all'opposto un tempo che dura, il farsi, nel tempo e nella storia, di una coscienza comune".
Dopo aver riportato il giudizio di Carlo Muscetta: Gatto unico poeta della Resistenza ed aver fatto presente la esaltante incoerenza poetica di un ermetico che dalla poesia "pura" passò ai temi dell'impegno e della lotta pur restando sul piano stilistico ed espressivo ermetico, "consegnai" il poeta agli studenti.
Lo scritto che segue, è l'atipica lezione di Gatto agli universitari leccesi, l'ultima in assoluto che egli tenne, perché nonostante la speranza, espressa, di vivere ancora per molti anni, il poeta doveva lasciarci qualche mese dopo, nel marzo '76, in uno sciagurato incidente automobilistico nei pressi di Grosseto. E' perciò, questo inedito, una sorta di testamento spirituale che egli affidò ai giovani con la passione ed il trasporto, apparentemente retorico ma sostanzialmente sincero e sofferto, propri del Gatto veemente in ogni sua accesa convinzione da diffondere o da difendere.
Certo la trascrizione del nastro, che conservo gelosamente come un cimelio, non riproduce le vibrazioni emotive, i silenzi le impennate di tono, né ha potuto trasporre la magica atmosfera, avvertibile uditivamente che si era creata in quell'enorme stanzone stipato di corpi giovani che parevano privi di consistenza fisica, tanto erano rapiti dal flusso di parole che usciva da una bocca che pareva staccata dagli occhi celesti e bianchi, rivolti all'in sù che volevano perforare il soffitto per perdersi nel vuoto dell'aria.
Ho osato eliminare qualche ripetizione, tipica del parlare gattiano, ed inserire, oltre alla punteggiatura per rendere gli stacchi del discorso, anche la breve poesia In memoria di Eugenio Curiel (Giorgio) che il poeta rammentò solo per citazione di titolo.
Gatto aveva sollecitato un dialogo, ma solo due furono le domande, perchè le risposte di Alfonso, specie la seconda, non tenevano conto del tema proposto, né del tempo impiegato. Forse l'immagine del poeta è piú completa in tal modo; egli era uomo che non lasciava spazio agli interventi di altri, quando aveva per sé la parola.

GATTO: Più che parlare, io potrei ripetere quello che è scritto in questo libro, [La storia delle vittime], sia allo stato confessionale di prefazione, sia allo stato di espressione cioè poetico; ma preferirei rispondere alle vostre domande. Vi prego di farmi domande non ovvie, alle quali può rispondere il libro in sé, ma domande che pongano la necessità di chiarirvi cose che per voi è necessario siano chiarite. Consideriamola una lezione alla buona, dato che sono ancora vivo e spero per molto tempo ancora, perchè molte volte capita che gli studenti ci credono morti, bisogna fare scongiuri e poichè capita di leggere nelle antologie delle scuole medie dei commenti sbagliati, ancora più oscuri delle poesia stessa, basterebbe a volte, come questa, interrogare il poeta vivente per sapere quale è la sua lezione, quale è il commento della Sua poesia. è chiaro anche che un poeta può spiegare una sua poesia in un modo che non convince il lettore e non convince chi la studia, perchè un poeta, come certi musicisti, può essere un buon poeta ed essere un pessimo commentatore di se stesso. Però il poeta può dire, per lo meno, quali erano le sue intenzioni, quale era il mondo dal quale è partito, per vedere se è giunto dove voleva arrivare. Quindi non è che la spiegazione che un poeta dà della sua poesia sia la spiegazione attendibile per eccellenza, però può contribuire, dato che alla fine l'ha fatta lui, per lo meno a spiegare la situazione anche umana, soprattutto storica, addirittura cronistica, l'occasione da cui nasce una poesia. Perchè qualunque poesia, della resistenza o no, nasce da una situazione di fondo del poeta della quale situazione la vita vivente è la continua occasione.
Quando qualche volta vado nelle scuole elementari o medie, e ci vado perchè mi piace molto, le domande sono soltanto curiose, ma spesso sono interessanti perchè appunto risalgono un po' all'origine psicologica della poesia: perchè l'ha scritta? in che occasione l'ha scritta? perchè l'ha scritta in versi? come e perchè nasce una poesia? Sono domande che possono sembrare dissacranti, e lo sono anche in un certo senso, ma sono domande proprie. E' la domanda del resto che Platone fa fare a Socrate sulla poesia quando lui chiede ad ogni artista il perchè del suo operare così e non così. Anche qui bisogna dire che il poeta può non dare la ragione per la quale scrive; può non saperla dire, ma lo stesso non saperla dire è un modo di dirla, perchè la poesia risente molto di questo non saper dire che diventa una saper dire nell'unico modo in cui l'ha detta. Una poesia che nasce dal massimo della relazione e della relatività umana, dal massimo della miseria umana, è qualche cosa che, per essere, deve toccare certe sponde che devono essere, in qualche modo, in rapporto assoluto con la parola. Questo preambolo l'ho voluto fare per stimolarvi le domande, sperando che abbiate da farmene; io sono qui a rispondervi, aspetto che voi mi mettiate con le spalle al muro, come dicono i francesi.

STUDENTE - La domanda che vorrei porre riguarda un personaggio, piú che un personaggio, un mito e un simbolo della libertà. Trent'anni fa il 24 febbraio veniva ucciso dai fascisti Eugenio Curiel. Curiel in quel periodo rappresentò uno stimolo alla libertà. Per noi a trent'anni di distanza è un esempio, Ma per lei, non solo per la politica, visto che lei ne parlo, che cosa significò veramente Curiel? Non solo a lei ma a quelli che come lei lottarono in quel periodo, che cosa veramente Curiel vi ha dato?

GATTO: Eugenio Curiel, che aveva come nome di battaglia Giorgio, c'è una poesia che lo ricorda, nel Capo sotto la neve, io lo conobbi durante la resistenza, perchè io militavo nel Pci nella resistenza armata. Curiel era insieme con Vittorini che non era visibile però aveva contatti con la resistenza attraverso Curiel, io, invece, Vittorini lo vedevo per conto mio, perchè gli ero molto vicino. Curiel era un uomo della mia età, più o meno; era stato assistente universitario di fisica a Padova, era un ebreo-triestino e proveniva in modo chiaro da una cultura centro-europea triestina. Come tutti noi aveva collaborato a quei settimanali dei gruppi universitari fascisti che ora sono anche studiati nelle scuole e sui quali nelle università sono state fatte anche delle tesi di laurea. C'era un giornale a Padova che si chiamava "Il Bo" fondato da Curiel. Su quello aveva scritto facendo quel che allora si faceva in quei settimanali di cultura universitaria fascista, la fronda, un modo di mettere in discussione tutto, in una specie di criptografia da cui è nata una certa tendenza del parlare oscuro, proprio dell'ermetismo. Ce n'erano tanti di questi fogli settimanali, veri e propri giornali di cultura, magari ce ne fossero oggi, giornali tecnicamente e culturalmente fatti molto bene. Uno dei migliori era appunto "Il Bo" di Padova insieme con "Rivoluzione" di Firenze "La Pattuglia" di Piacenza ecc. lo avevo avuto dei rapporti epistolari pre-resistenziali con Curiel, poi durante la resistenza a Milano, dove abitavo, si era formato un cosiddetto fronte della cultura del quale facevano parte Antonio Banfi filosofo, Remo Cantoni un altro filosofo, Paci, il critico d'arte Morosini e tanta altra gente. Stranamente fra noi ci chiamavamo col nome di battaglia, pur conoscendoci da molto tempo, pur essendo nati insieme alla cultura alla filosofia alla poesia o all'arte ecc.
Curiel era il capo segreto di questo fronte della cultura; avevamo degli incontri bisettimanali o settimanali a casa di Banfi o di Cantoni o addirittura in case neutre a seconda degli avvistamenti polizieschi, se più o meno ci sentivamo spiati o no. Casi si lavorava per la fase contingente del momento, della lotta, ma soprattutto si incominciava a organizzare quello che sarebbe stato, dopo, un fronte di cultura antifascista, perchè è chiaro che anche allora si capiva, i migliori per lo meno comprendevano e capivano, che la resistenza non era e non poteva limitarsi ad un fatto temporaneo. Fu alla fine un errore, un errore politico del partito d'azione che credette che i suoi programmi dovessero coincidere con l'azione, cioè con la resistenza armata. In realtà, era un discorso che doveva continuare nella cultura, doveva continuare nel tenere uniti in un processo di revisione culturale e critica tutto il lavoro delle generazioni precedenti, non per rinnegarlo drasticamente, non per considerare tutto quello che era stato fatto come cultura fascista, perchè non era storicamente vero; poteva, nel migliore o nel peggiore dei casi, essere accusato di agnosticismo, di indifferenza al fatto politico, ma certamente era poca la letteratura i taliana che potesse essere considerata, sia per gli anni più lontani sia per gli anni più vicini, una letteratura collaborazionista come si diceva allora. In realtà c'era nel programma e soprattutto dentro ognuno di noi, dentro le ragioni che ci spingevano a ritrovare questa unità di intenti, libero ognuno di scegliere per sé i modi, le forme, i sistemi con cui esprimersi; ci doveva essere e c'era questo bisogno, direi questo diritto di poter superare insieme, con difficoltà, questa crisi che viveva in noi, e attraverso di noi, a parte i risultati veri e propri dell'espressione e dell'arte, anche nel costume e nel comportamento, attraverso un processo di revisione, anche di accusa o anche di difesa, di certi valori che nel ventennio fascista erano stati creati, per trovare una nuova identificazione di noi, una nuova possibilità di risolvere questa crisi in noi. Soprattutto noi di estrema sinistra o di sinistra, come eravamo allora. Credevamo, crediamo tuttora, anche uno come me che non milita più ufficialmente in nessun partito, credevamo che soltanto attraverso questa crisi individuale e collettiva, in questo cercare una nuova convenzione, un nuovo linguaggio, un nuovo modo di intenderci o di non intenderci, non solo di trovare nuove parole, ma di trovare nuovi sentimenti durevoli e addirittura un nuovo modo di intenderci. Le stesse parole che possono significare tanti diversi modi di leggere lo stesso messaggio, dovevano costituire un indice comune di intelligenza e di prolificità, di vera e propria iniziativa, di vera e propria azione spirituale, ideologica, politica, letteraria ecc. Curiel era un po' l'animatore di tutto ciò. Non tutte le cose che diceva Curiel, in cui il fatto ideologico organizzativo soverchiava spesso le nostre comuni ricerche, erano condivise. C'erano anche degli scontri; non è che durante una resistenza o in una comunità armata che ha dei programmi di azione immediati, si andasse tutti d'accordo in senso acritico; c'era chi tendeva più, come Curiel, a una visione unilaterale, drastica, esclusivamente politica, a cui dovevano cedere i valori della cultura. Le polemiche nacquero dopo, anche tra Togliatti e Vittorini e fra noi stessi: "Il Politecnico" ne fu insieme la voce e il contraddittorio e si incentrano sulla libertà individuale. La libertà dell'espressione, della cultura individuale, doveva essere sistemata e doveva essere dialettizzata in una cultura e in una letteratura che fossero anche una cultura e una letteratura di rimozione e di rinnovamento. Polemiche di allora e di cui Curiel era uno degli esponenti forse più intransigenti da un punto di vista politico; mentre altri come Vittorini, come me, facevano sentire il peso delle proprie origini e anche il maggior valore di un'opera che essi avevano già compiuta, rispetto al puro problematicismo del lavoro degli altri molto più determinati, molto più scientifici, molto più tecnici. Evidentemente c'era un conflitto tra quelle che possono essere le posizioni di un poeta o di uomini di cultura ancora, nel fondo, umanisti e artisti, quale potevo essere io, per esempio, rispetto ad un uomo che poggiava l'accento sulla componente illuministica e conoscitiva del sapere. Ciò non toglie che Curiel era poi, nella vita, un uomo di grande cuore, di grande intelligenza, di grande spirito di sacrificio. Difatti il sacrificio non lo si incontra per caso, lo si incontra anche perchè delle volte gli si va incontro, soprattutto nella resistenza, questo fu vero. la stessa rete di relazioni capillari che aveva Curiel, anche con gli operai oltre che con gli uomini di cultura, la sua presenza, sebbene fosse una presenza veloce e ubiqua perchè lui si trovava dappertutto, ad un certo momento fu individuata; qualcuno lo tradì; Nel recarsi ad uno di questi appuntamenti, mezz'ora prima di un altro appuntamento che aveva con me e col gruppo mio, in piazza Baracca a Milano fu scoperto da certi fascisti in motocicletta che gli spararono addosso.
Io aspettai invano a questo appuntamento e poi mi toccò andare all'obitorio di Milano, lì avevamo dei compagni, gente che lavorava per il comitato antifascista, che ci confermò che un'ora prima avevano portato la salma di uno sconosciuto.
Le salme che arrivavano negli obitori erano tutte sconosciute, poi pensavano a riconoscerle i medici che stavano a destra o a sinistra della barricata. La salma di Curiel fu tenuta nelle ghiacciaie dell'obitorio da febbraio, quando era caduto, fino a quando, il primo maggio, potemmo fare i funerali. E' stato il funerale più impressionante che io abbia visto, perchè in quei giorni in cui la morte era stata di casa quasi non faceva più impressione, questo lunghissimo funerale di Curiel, io lo ricordo a Milano per il corso Sempione, c'erano ancora le colonne al di là dell'Arco della Pace, mentre già le prime avanguardie di questo corteo tutto rosso erano arrivate alle porte di Musocco per chilometri e chilometri.

IN MEMORIA DI EUGENIO CURIEL (GIORGIO)

In un giorno della vita
ho camminato con Giorgio
a capo scoperto nel cielo.
Giorgio era il Partito
Giorgio era il suo cuore
maturo come un frutto
Giorgio era la sua voce
inceppata e sicura,

i denti neri, il tabacco nero
la sigaretta arrotolata
un desiderio di svegliare
il mondo coi suoi pensieri.

Ho udito Giorgio
ho visto Giorgio
alto come le case
nell'orizzonte del cielo.

A maggio lo portammo al cimitero.
Se potevamo camminare
e coprirlo di fiori e di bandiere
era perchè da morto ci indicava
la grande strada della primavera.

STUDENTE: In un testo del 1953 Luciano Anceschi parla testualmente di un suo surrealismo di idillio... Secondo lei come è da intendersi questo surrealismo idillico,... o il cosiddetto surrealismo italiano, e in che modo e in quale misura lei ha sentito, se lo ha sentito, l'impatto col surrealismo francese?

GATTO: Il primo a parlare di surrealismo idillico fu, come sanno tutti, Giansiro Ferrata che è stato non solo il mio primo critico, ma anche uno dei miei critici più attenti, perchè era ed è fraterno amico mio e mi conosceva e mi conosce profondamente.
Aiuta il fatto che si sia contemporanei, che si sia nati insieme sulla stessa rivista ["Campo di Marte"], nello stesso ambiente; ciò porta ad una maggiore comprensione critica soprattutto come congenialità, come amicizia, almeno in un primo momento, quando ancora si lavora con la poesia a creare un clima di cultura e questo clima più che essere disteso storicamente, è animato quotidianamente nella vita vivente di tutti i giorni. Fu Ferrata a dare questa definizione che poi ha avuto molta fortuna; evidentemente in questa definizione Ferrata voleva indicare sia la componente innocente di me, la componente soffiata, come aveva detto Montale, cioè della innocenza un po' barocca, meridionale, soffiata nel vetro trasparente della poesia; sia la strana velocità analogica, l'avvicinamento di immagini tra loro, di pensieri e di ideazione dell'immagine tutti insieme in rapida trasposizione di rapporti sintattici sino all'oscurità che io, soprattutto all'inizio, avevo tra me e me. Come se anzichè uscire fuori di me io, per uscirne, mi internassi ancora di più dentro di me, ritornando ad una specie di matrice di forno materno tanto che Ferrata, per spiegare questa definizione che Anceschi riporta come simbolica, ma va spiegata, dava la spiegazione di questa formula con le parole avvicinate di surrealismo e idillio, per quel tanto di automatico e di intellettualmente meccanico c'è nel surrealismo che spiega questi rapidi, veloci trapassi da un'immagine all'altra, apparentemente senza nesso, in quanto questo nesso è dell'inconscio profondo.
In me c'era, secondo Ferrata, una componente idillica, come dire umanistica, umana della poesia non più inconscia ma consapevole e questa dialettica di inconscio e di eccezionalmente colto, spontaneo, sprovveduto e innocente.
Questa mia dimensione non è facilmente reperibile se non attraverso un esame attento tanto è vero che Ferrata, per commentare meglio diceva che se c'era della mia poesia un versante profilato in salita, poi c'era un mio risprofondare in un caos, in una baldoria un po' ancestrale nel ventre e nell'interno di me. In questa corrente della mia poesia, da una parte rassegnata, profilata, estremamente in salita canora, c'era poi questo riconfondermi in me stesso e nella mia oscura matrice di poeta.
Quanto poi alla mia dipendenza dal surrealismo francese ecc., io so che quando uscì il mio primo libretto, nel '32, Isola furono fatti, per me, nomi di poeti che io non avevo nemmeno letto. Questo non vuoi dire assolutamente nulla, perchè è chiaro che la poesia degli altri, anche se non la si legge direttamente, si respira nel clima di una poesia comune e nel clima anche di altri poeti, come Baudelaire e Rimbaud. Mettiamo, se ero debitore a Rimbaud può darsi che quel tanto di Rimbaud che si scopriva nelle mie prime poesie, a me fosse venuto da Ungaretti che conoscevo meglio di quanto non conoscessi Rimbaud.
I processi storici di discendenza sono lunghi; non solo si poteva arrivare a Rimbaud ma anche piú indietro; si potevano trovare tante altre tangenti in questo albero genealogico della poesia dal quale tutti i poeti nascono. Perciò non credo che ci fosse stata e ci sia un'estrema influenza del surrealismo e di altri orientamenti; queste dimensioni surreali, e sarebbe meglio dire metafisiche come notò Montale nel mio caso, evidentemente risalivano a un mio modo di vedere la poesia, al mio modo di vivere nel sentimento della mia memoria e forse, nel caso mio, dipendevano come dipendono, credo, da un mio vivere molto l'espressione dell'arte della pittura, della scultura, delle arti figurali e plastiche che più riportano visivamente al rapporto tra l'uomo e l'ambiente, tra l'uomo e la solitudine, tra l'uomo e la sua continua tensione. Fummo l'erba non è solo una poesia, è anche, dopo la mia esperienza della resistenza, dopo tutte le prove che non solo io ma tanti di noi, uscendo da noi, avevano fatto per andare incontro alla vita di tutti, mettendo in gioco la nostra esistenza sapendo però che la nostra essenza poteva ulteriormente rifiutarsi ad un adattamento ad una funzione di noi, ecco la ripresa del legittimo orgoglio che un poeta ha della sua solitudine e dei valori che vuoi continuare a difendere perchè non siano confusi politicamente con le funzioni, con le commistioni che via via si cercano o si danno alla poesia; questa poesia, come dicevo, è anche un po' la situazione della mia generazione, del mio stesso essere nella poesia e nella vita.

FUMMO L'ERBA

Certo, certo, la gloria ch'ebbe un fuoco
di gioventù rimesta tra le ceneri
il suo tizzo orgoglioso, ma noi teneri
di noi non fummo, nè prendemmo a gioco

la vita come un'ultima scommessa.
Noi di quegli anni facili, all'azzardo
delle fiorite preferimmo il cardo
selvatico, le spine. Dalla ressa

del giubilo scampati al nostro intento
d'essere sole e pietra, nelle mani
segnammo la tenacia del domani
da scavare nel tempo. Nello stento

d'essere soli per vederci insieme
nell'eguale costrutto, fummo l'erba
che alla pietra nutrita si riserba
il suo cespo bruciato. Dalle estreme

radici, nell'impervio ogni parola
salì di quanto a trattenerla c'era
l'ansia d'averla pura, seria, vera
nel segno di rimuovere la sola

vergogna d'esser detta.

Salvammo nell'asciutto, dagli inviti
della corrente, il carcere incantato,
la nostra sete che ci tenne uniti.
Per un grido da rompere, il creato

Ancora è il suo costrutto ove s'ostina
l'asino, il cardo, il segno della spina.

Questa poesia riassume, non simbolicamente, tutto quello che vi ho detto prima, cioè questo bisogno di aver pulita, chiara la parola senza io vergogna con cui si dicono le parole bugiarde di questo carcere incantato nel quale noi siamo stati come delle sentinelle della nostra anima, come delle scolte della nostra fede nella parola, nella poesia e nella verità. Quindi la nostra torre è rimasta ed è sempre la stessa ma è una torre che non ha le finestre chiuse come le monadi leibiniziane, ha invece tutte le finestre aperte, è una torre dalla quale si entra e si esce, ma dentro la quale, diciamo pure la brutta immagine ma bella, perchè la retorica qualche volta aiuta, c'è questa specie di piccola fiamma che non è la fiamma politica di partiti più o meno bruciaticchi o bruciati o inceneriti, ma è la fiamma segreta del nostro credere più silenzioso e più segreto, la nostra ostinazione a credere nella qualità dell'uomo, nella dignità dell'uomo, nella serietà e nella miseria e nella tristezza dell'uomo.
Sono gli unici doni che ci sono concessi, l'unica testimonianza che noi abbiamo del passaggio nel mondo e nelle nostre stesse parole. Non so se questo discorso dobbiamo concluderlo o no, ma io una conclusione parziale voglio dirvi: i poeti vivono soltanto per questo, sono vissuti e vivranno soltanto per questo, consapevoli della propria inutilità nel mondo, quali gli altri li riconoscono: inutili esseri, come se fossero gli abbellitori di una facciata che gli altri imbrattano. No, i poeti sono quelli che conservano la necessità della parola perchè il mondo non si riduca a un miserabile colloquio di ombre che non hanno più corpo, di parole avvinazzate, di parole abbruttite e imbruttite nella più melensa convenzione del non saper dire e del non voler dire, del dover mentire, come dovere prima familiare poi sociale addirittura patriottico. No, la poesia, credo, non morirò mai perchè ubbidirà sempre a questa sete segreta che ha` l'uomo di sentirsi costruito non in un sistema di dipendenze e di ascendenze o di figliolanze, ma in un costrutto in cui c'è, continuamente operosa da millenni, la strana contemporaneità che avvicina i creatori, che avvicina gli spiriti liberi che hanno inciso magari una piccola parola sulla pietra dei millenni e della storia. Basta andare in un luogo consacrato dalla storia, dalla memoria, dalla poesia; e l'Italia è piena di questi luoghi anche se sono abbandonati o addirittura lasciati scadere; basta andare in questa antica Europa, visitarla e portarne con sé il profilo della parola scritta, della pietra incisa, per ricordare che, contro tutte le bugie di importazione, contro tutti i sistemi si mercantilismo cui approdano in ritardo le avanguardie che abbiamo noi esportato prima della guerra e che ora ci ritornano con miserabili carrozzelle da un paese di scarsa tradizione e di scarso impegno umano, non è con facili opzioni che si possono acquistare impunemente valori accumulati nel tempo. lo trovo commovente che in vecchi paesi come l'Europa, in vecchissimi paesi come l'Italia, come la Grecia, come la Spagna, come la Francia, ci siano ancora dei ragazzi che cercano, appunto, quest'erba giovane che copre le vecchie pietre; che credono all'erba giovane allo stesso modo, perchè sanno che quest'erba giovane è nata da millenni di arsura da millenni di costrutto da millenni di polvere da millenni di sete.
E' il modo, credo, più legittimo di incontrare l'amore e la morte; e per noi, di essere meridionali con la nostra perpetuità mobile, fatta di riflessi, di sole nero, di pianti. E' la nostra non invidiabile condizione di meridionali, anche se nella vita dei poveri, senza retorica ve lo dico, il metro guadagnato centimetro per centimetro dal povero e dal puro di cuore, vale più dei grandi spazi conquistati con le scommesse tecniche. La poesia non sarà mai una scommessa, anche se è il massimo dell'audacia umana; la poesia non sarà mai un'opera di potenza; la poesia è la forza, l'unica forza, di dire, che ci sia nel mondo, l'unico talamo legittimo che ci sia nel mondo, l'unico amore legittimo, ricordatevelo voi che siete giovani ed avete sensi pronti e svegli; la poesia non è nato per annoiarvi, non è nata per essere studiata, è nata studiata sì, ma per uno studio che nasca da un profondo amore, da un profondo non sapere che, attraverso se stesso, vuoi diventare sapere, non finzione; sapere cioè la ragione dei perchè stiamo al mondo e come dobbiamo starci e come finirà questo mondo in una immagine e in una storia umana che sia ancora nostra. Tutto il resto è silenzio direbbe Shakspeare, peggio tutto il resto è vergogna, è usura, usura consumata nel modo peggiore sulla carne dei poeti, sulla parola dei poeti. Tutte le menzogne sono perpetrate sulle parole della verità e l'unica lotta possibile che c'è ancora nel mondo, è proprio questa di combattere per la verità della parola poetica, cioè di una parola che sia pulita, illesa, nuova, pronunciata con una bocca antica, antichissima che è la bocca delle antiche erme che si trovano sui templi greci nella nostra Italia meridionale. Questo è tutto: si tratta di essere all'avanguardia dei millenni, non all'avanguardia delle cronache, non all'avanguardia delle convenzioni; bisogna essere all'avanguardia del riscoprire l'idea fissa del mondo, la parola fissa del mondo che la poesia continuamente rinnova. Pensate una parola come amore, quanto è antica, quanto coincide con le origini stesse del primo uomo che si è deciso a voler dire qualcosa; questa è la prima parola dell'uomo fisico e dell'uomo poeta che ha trasmesso, nei suoi limiti, la sua figura e la sua forza. Voglio concludere dicendovi che resistenza è proprio questo: resistere alle tentazioni di corruzione del mondo che ritrovare, continuamente, questa nostra naturalezza, questa nostra verità che ci riporti alla regione del tempo e alla ragione del vivere.


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