§ MESA VERDE NATIONAL PARK

Gli Anasazi




Alberto Bernardini



L'archeologia è una scienza che può apparire insolita in un paese come gli Stati Uniti, famoso per il suo passato geologico e paleontologico di cui affiorano straordinarie testimonianze e per i suoi bellissimi scenari naturali, noti attraverso il cinema anche a coloro che non vi hanno mai messo piede. Chi vorrò accostarsi al passato storico del continente, preferità raggiungere il Messico centrale e la penisola dello Yacatàn, alla ricerca delle vestigia delle piú famose civiltà precolombiane.
Sembrerebbe infatti che fattori ambientali abbiano impedito nel Nord lo sviluppo di culture complesse, paragonabili a quelle del Centro America e che pertanto le tribù indiane, disperse in un territorio vastissimo, siano sempre state costrette ad un'economia poco al di sopra della sopravvivenza.
Con l'arrivo degli europei, nonostante la fiera resistenza che questi indigeni opposero sembrò che, in assenza di significative testimonianze architettoniche, di queste culture, venisse cancellato perfino il ricordo. Sebbene in alcuni casi questa impressione si rivelerà corrispondente alla realtà, le regioni del Sud-Ovest del Paese possono riservare più di una sorpresa: non solo la tenacia di alcuni popoli ha mantenuto vive le tradizioni, i costumi e la religione degli antenati, ma di questi ultimi affiorano testimonianze tali da rivelare un insospettato grado di raffinatezza culturale e di evoluzione tecnica.
Se viaggiate proprio nel cuore della grande provincia americana, alle falde delle mantagne rocciose, nei pressi di quell'affluente del fiume Colorado che prende il nome di "San Juan river", vi converrà tentare una breve sortita archeologico sulle tracce di un popolo misterioso: gli Anasazi.
Non è questo il nome che costoro si erano attribuiti, può darsi che al pari di altre tribù indiane amassero definirsi, un pò egocentricamente "il popolo degli uomini", ma in assenza di testimonianze scritte non saremo mai in grado di stabilirlo. "Anasazi" è parola Navajo che significa "gli antichi", "coloro che c'erano prima". Infatti le tribù pellerossa che si stabilirono nella regione scoprirono cospicue testimonianze di un popolo ormai scomparso che vi aveva dimorato molto tempo prima.
"Anasazi" è dunque diventato l'appellativo più idoneo per indicare le tribù seminomadi che, duemila anni fa, si diffusero in una vasta regione, attualmente attraversate dai confini ortogonali degli Stati dello Utah, del Colorado, dell'Arizona e del New Mexico e denominata perciò "Four Corners Region".
L'origine di queste genti ci rimando alla preistoria del continente, quando grazie ad un ponte di ghiaccio, formatosi sullo stretto di Bering sin dal Cenozoico, l'"homo sapiens", proveniente dall'Asia, raggiunse il nuovo mondo.
La scomparsa degli Anasazi, sebbene recente è certo più misteriosa: attorno al XIV secolo d.C., i bellissimi villaggi, costruiti nel periodo che potremmo definire del loro... rinascimento, furono abbandonati quasi contemporaneamente e nulla di altrettanto imponente fu edificato nella regione. Dunque come poteva, un popolo di abili artigiani e di ingegnosi costruttori di villaggi in pietra, scomparire senza lasciar traccia della sua migrazione o testimonianza di una qualche improvvisa tragedia?
La risposta più attendibile a questa domanda, pur rimanendo nel campo delle ipotesi, non è dissimile da quella che concerne il destino di popolazioni euroasiatiche la cui repentina scomparsa si rivelò solo apparente: è probabile che gli Anasazi, costretti a migrare, vennero a contatto con altre tribù, dando origine ai cosiddetti popoli "pueblo" dell'America contemporanea.
"Pueblo" furono chiamate dagli Spagnoli, le tribù che si differenziavano dagli indiani delle praterie e della costa,, per le loro abitudini stanziali e per la costruzione di veri e propri villaggi ("pueblos" in spagnolo).
Tra questi Hopi, Zuñi ed Acoma, per eredità tecnica e tradizioni spirituali, sembrano discendere direttamente dagli aristocratici ed evoluti Anasazi; ma anche le genti Navajos che formano la piú grande e potente comunità del Sud-Ovest, non possano dirsi estranee alla cultura di "Coloro Che C'Erano Prima".
D'altra parte le tracce della presenza Anasazi sono diffuse un po' dovunque nella regione ed hanno alimentato numerose leggende.
A Capitol Reef National Park potrete scorgere giganteschi petroglifi, diafane filigrane incise sulle pareti del canyon; ma un po' dovunque potrete imbattervi in antichi pueblos e rovine riportate alla luce dalla recente opera degli archeologi.
Nulla di tutto questo potrò però eguagliare la bellezza e l'importanza delle testimonianze architettoniche di Mesa Verde National Park.
Il parco, situato all'angolo Sud-Ovest di quel perfetto rettangolo che è lo Stato del Colorado, ha un'estensione di 21.000 ettari e confina per oltre metà del suo perimetro con la riserva degli indiani Ute.
Mesas furono definiti, dagli spagnoli, quegli altopiani delimitati e solcati da ripidi burroni.
L'erosione fluviale sulla dura superficie di calcari ed arenarie produce una sezione quasi verticale che mette a nudo gli strati geologici e crea un paesaggio inconsueto, isolando talvolta, a quote differenti, intere porzioni di territorio; nel bel mezzo del deserto vi parrò di scorgere il bastione di una città fortificata o la sagoma di una nave gigantesca.
Dal basso infatti le Mesas appaiono come montagne capitozzate, ma una volta raggiunta la loro sommità vi sembrerò di percorrere una qualunque pianura, fino a che, affacciandovi sull'orlo di un canyon o scorgendo di là dalla ripide pareti la valle sottostante, non rammenterete di essere a piú di duemila metri d'altezza.
Abbandonata la US 160, nel tratto che unisce Durango a Cortez, si segue la strada che conduce alle falde della Mesa; che qui vi apparirà come un gigantesco trono di pietra con la base e la sommità rivestite di fitta vegetazione, la strada assumerà sempre più l'aspetto di una strada di montagna, affacciandosi alternativamente sulla Montezuma e sulla Mancos Valley, fino a che non giungerò sulla sommità dell'altopiano.
Con uno sguardo alla mappa fornita dal Visitor Center vi renderete conto, al di là delle apparenze, di essere in una regione frastagliata in cui le mesas ed i canyon si alternano come i denti paralleli di un pettine che forma il bacino, affluente destro, del fiume Mancos.
All'interno del Parco due soli sono i percorsi carrabili e ciascuno termina in un'area archeologica circoscritta: a destra si percorre la Wetherill Mesa, chiusa però al transito degli automezzi privati, e a sinistra la Chapin Mesa.
I due percorsi ciechi costituiscono l'itinerario attraverso il più importante esempio di cultura precolombiana degli USA ed inoltre il Parco non è priva di fauna e di bellezze naturali. A questo proposito occorrerà ricordare che le escursioni sono consentite solo in aree ristrette e su percorsi determinati, a causa del perdurare di compagne di ricognizione e di scavo. (Quale esempio, per alcuni paesi mediterranei con una tradizione archeologica di certo più ricca, considerare la legislazione statunitense - in particolare il Federal Antiquities Act del 1906 ed il Archeological Resources Protection Act del 1979 - nonché la severità e l'assiduità con cui si esercita la tutela, in misura inversamente proporzionale all'esiguità del patrimonio da difendere).
Chapin Mesa è l'itinerario solitamente consigliato per chi voglia dedicare alla escursione una sola giornata; nel piccolo museo storico-antropologico potrete infatti cogliere un panorama sintetico dell'evoluzione degli Anasazi.
Ma sarà l'ambiente naturale della Mesa a fornirvi le più suggestive informazioni sullo stile di vita degli "Antichi".
Sui calcari gialli e sulle grige sabbie s'abbarbica una vegetazione bassa e tenace, formata prevalentemente da aghifoglie: accanto al tronco contorto ed alla tozza chioma di un pino da pinoli (pinyon pine), crescono arbusti di ginepro e le foglie cespitose di una liliacea: la Yucca che in primavera esibisce una pannocchia di fiori bianchi. La vegetazione arbustiva conferisce al paesaggio qualcosa di familiare anche agli occhi di un europeo; in realtà tale impressione svanisce non appena ci si rende conto dello strano connubio tra la quota dell'altopiano, che varia tra i 1800 ed i 2.500 mt. s.l.m., e l'aridità del suolo, caratteristica di un clima desertico. Non molto dissimile dovette apparire il paesaggio a coloro che vi giunsero per primi. Agli albori dell'era cristiana un popolo neolitico stabilì la propria dimora nelle grandi cavità che. si spalancano nei fianchi del canyon. Gli "Antichi" vivevano prevalentemente di raccolta e di caccia, ma possedevano anche rudimentali tecniche di coltivazione. Importarono, infatti, la pianta del mais, specie vegetale non spontanea sull'altopiano e coltivarono zucche e fagioli, allevando allo stato semiselvatico coni e tacchini.
La loro grande abilità artigiana consisteva, in assenza di vasellame, nell'intrecciare fibre ricavate dalle foglie di yucca per la fabbricazione di cesti. Tale tradizione oltre a fornirgli contenitori per gli usi più svariati, dal trasporto dell'acqua alla cottura dei cibi mediante l'immersione di pietre roventi, gli valse l'appellativo di "basketmakers" attribuitogli dai moderni archeologi. Inizialmente privi di tecniche edilizie, cominciarono ad utilizzare fosse, ricoperte di rami e di fango, per la conservazione dei cereali ed in seguito le trasformano in vere e proprie abitazioni.
Nel secondo periodo della storia Anasazi, che data fino al 750 d.C. e che viene indicata come "Modified basket maker Period", gli abitanti della Mesa, subendo l'influsso di altre tribù, appresero l'uso dell'arco e della freccia, la tecnica di fabbricazione del vasellame e modificarono la tipologia della camera sotterranea.
La "pithouse" (casa a fossa) aveva l'aspetto di un tronco di piramide ed era costituita da un catino, scavato nel terreno, e da pareti e copertura in legno e fango. Essa risultava accessibile attraverso una botola sulla copertura, che fungeva anche da canna fumaria ed era raggiungibile per mezzo di una scala a pioli.
In seguito, negli insediamenti realizzati sulla sommità della Mesa, ove ben presto gli Anasazi si trasferirono, la "pithouse" perse la porzione seminterrato, assumendo l'aspetto di una vera e propria capanna rettangolare. L'aggregazione di queste capanne generò villaggi che dovevano avere un aspetto non molto dissimile dagli attuali pueblos.
Talvolta le capanne furono affiancate, le une alle altre, fino a formare un cerchio o un quadrilatero, al cui centro si apriva uno spazio comune e sorgeva una torre, con la probabile duplice funzione di vedetta e di silos sopraelevato.
L'evoluzione della tecnologia costruttiva sostituì alle fibre vegetali ed al fango, i mattoni crudi, limitando infine l'uso del legno alla sola copertura e le argille a far da legante tra solidi blocchi di pietra ben squadrata.
Dal 750 al 1300 d.C., in quello che gli studiosi chiamano "Classic Period", nacquero i più belli esempi di architettura indiana degli Stati Uniti. Si deve infatti a "Cliff Palace", "Balcony House", "Long House", "Spruce tree House", e "Step House" se il ricordo di questo popolo non è appannaggio di pochi specialisti e se migliaia di persone visitano quotidianamente il parco nazionale di Mesa Verde.
Infatti, per quanto sia difficile stabilire una graduatoria d'interesse tra i numerosi episodi archeologici presenti nella Mesa, la sua fama è affidata alla spettacolare scenografia dei monumenti del periodo classico: la cui visione dal margine del canyon, costituisce un'esperienza indimenticabile.


Dunque a partire dal 750 d. C. il popolo della Mesa abbandonò l'altopiano, per tornare ancora una volto sotto le pareti del canyon. Questa volta però gli Anasazi non si limitarono a costruire precari rifugi di fango, ma veri e propri villaggi fiorirono all'ombra delle grondi cavità.
Sono state formulate numerose ipotesi sui motivi che li spinsero a ripercorrere in senso inverso il breve cammino sulle tracce del loro precedente trasferimento: la forma chiusa, assunta dai pueblos dell'altopiano, la presenza di torri di vedetta e una maggiore vicinanza tra i villaggi, può indurre a credere che vi fossero esigenze di difesa.
L'ipotesi sembrerebbe confermata anche dalla posizione dei nuovi insediamenti sulle pareti del canyon; essi appaiono situati quasi sempre in luoghi inaccessibili, difficili a scorgersi e facilissimi da difendere.
Non vi è però nessuna testimonianza archeologica che provi l'attacco dei villaggi Anasazi da parte di tribù ostili, l'affresco che gli archeologi hanno disegnato della loro vita quotidiana, è quello di una popolazione laboriosa e pacifica che, soprattutto nel "Periodo Classico", godette di una tranquilla prosperità. Le tracce d'incendio spesso riscontrate nelle abitazioni sull'altopiano sembrano doversi attribuire a cause accidentali o al deliberato abbandono della dimora da parte dei suoi occupanti.
Noi contemporanei siamo portati, sulla base delle nostre esperienze, ad attribuire alla guerra un ruolo determinante per i destini umani, quale probabilmente non ha mai avuto presso le popolazioni primitive; il cosiddetto selvaggio dedica la maggior parte del proprio tempo a lavorare per sopravvivere e lo sfogo della aggressività è limitato ad episodiche scaramucce di sapore quasi rituale che nulla hanno a che fare con la dimensione di distruzione e di sterminio introdotta dalla storia.
Probabilmente alla base della scelta di quelle nuove dimore vi fu la ricerca di un riparo più idoneo contro gli agenti atmosferici ed in particolare contro il fulmine che sull'altopiano provocava frequenti incendi.
Ma più di tutto valse forse la necessità di avvicinarsi alle fonti d'approvvigionamento idrico, infatti sulla sommità degli altopiani non sgorgano sorgenti e non scorrono fiumi, mentre alle sue falde, le acque meteoriche, filtrate dalle masse permeabili dei calcari, affiorano, concentrandosi in palle alla base delle grandi cavità naturali.
Se fu questo il motivo della rilocalizzazione dei villaggi, è molto probabile che l'esaurimento di quelle medesime sorgenti fu la causa del definitivo abbandono della Mesa da parte dei suoi abitanti.
Dal 1276 al 1299 una disastrosa siccità investì la regione, causando la sparizione delle acque superficiali ed il drastico impoverimento delle falde sotterranee.
Nel 1300 gli animali selvatici furono di nuovo i padroni assoluti della Mesa; la vegetazione arbustiva, che cresceva anche sul più arido calcare, e l'accentuato mimetismo dei materiali con cui erano costruiti i villaggi, nascosero a lungo le testimonianze di quell'antica presenza.
Riscoperte, da alcuni esploratori nel 1874, le rovine rimasero note solo a pochi coloni insediatisi nei pressi.
Solo alla fine del XIX Secolo lo Svedese Gustaf Nordenskiold, compresa l'importanza archeologica della scoperto, iniziò la rilevazione sistematica delle rovine ed effettuò i primi scavi.
Oggi siamo in grado di ricostruire uno scenario abbastanza completo della vita degli Anasazi e non è difficile immaginarceli, laboriosi sotto i raggi caldi del sole, mentre di là dall'Atlantico Riccardo Cuor di Leone e Alfonso VII di Castiglia e d'Aragona dormivano i sonni inquieti dell'Europa tardo medievale, e non potevano certo immaginare che i loro regni un giorno si sarebbero estesi a così lontane contrade.
Nei villaggi vivevano fianco a fianco fino a quattrocento persone; la posizione dell'insediamento, a mezza costa sulla parete del canyon faceva rassomigliare la comunità a quelle colonie di uccelli marini che dimorano sulle scogliere dirupate.
Uomini e donne dal colorito rossobruno, i capelli corvini e di statura media non superiore al metro e mezzo, seminudi e agilissimi, si muovevano come scoiattoli lungo percorsi verticali che recavano l'impronta di numerose generazioni.
La loro attività sulla sommità della mesa era prevalentemente agricola e di raccolta. Oltre alla coltura di leguminose, graminacee e cucurbitacee, utilizzavano i pinoli per innalzare il livello calorico della loro dieta e le bacche di ginepro ed i fiori di yucca come aromi per insaporire le vivande.
La yucca veniva utilizzata dagli Anasazi con estrema versatilità poichè, oltre ai fiori, anche i frutti risultavano commestibili, mentre dalle radici veniva ricavato un sapone per i capelli e le foglie fornivano fibre ed aghi per manufatti artigiani. Oltre ai cesti anche le coperte e gli abiti consistevano di fibre di yucca a cui potevano essere intrecciate minute penne di tacchino.
L'attività nel villaggio investiva una gran quantità di laboriosissime incombenze, dalla lavorazione delle pelli all'essiccazione delle carni e dei frutti; dalla produzione di vasellame, all'attività edilizia per la costruzione e la manutenzione delle abitazioni. La stessa attività religiosa doveva occupare gran parte della giornata se i clan matrilineari, in cui il villaggio era diviso, avevano ciascuno uno spazio e rituali propri da eseguire con scrupolosa consuetudinarietà. D'altra parte erano questi i rituali che propiziavano la pioggia e prolungavano la stagione del mais, permettendo una piú abbondante raccolta, o contribuivano a rendere più fruttuosa una giornata di caccia. L'altra grande risorsa alimentare era infatti costituita dalla selvaggina. Scomparsa la maggior parte dei grandi mammiferi che avevano popolato il continente in epoca glaciale, scomparso il cavallo ed il cammello (il primo reintrodotto dagli europei in epoca moderna ed il secondo definitivamente cancellato dalla zoologia dei luoghi) la fauna più comune della Mesa, oggi come allora, è formata dal mule-deer, un cervo dalle grandi orecchie, dalle coppie di falchi codarossa (red-tail Hawk) e dalle colonie di avvoltoi tacchino (turkey-volture) che, in prossimità di colonie umane, oggi come allora, cercano alimento.
Sul fondo del canyon, alla base di ogni insediamento, il deposito di antichi rifiuti ha rappresentato una preziosa miniera anche per gli archeologi.
Le abitudini alimentari, le pratiche magiche, le malattie e le minorazioni sono state documentate attraverso la raccolta di residui organici, schegge di selce, cocci di terracotta ed altri reperti.
Emergono numerose similitudini tra la vita Anasazi e quella di altre civiltà preistoriche; se queste analogie in parte possono essere spiegate come l'influsso diretto delle culture del Centro e Sud America, dall'altra appartengono ad una sorta di cammino obbligato, ad un "Gioco dell'Oca" dell'umanità, che ad ogni casella vede intervenire i fattori più diversi ad accelerare o ritardare i progressi di ogni giocatore.
Quali furono le casuali scoperte che accelerarono il cammino dell'uomo euroasiatico? e quali le condizioni ambientali che ritardarono quello dei popoli delle Americhe? A queste domande non siamo in grado di replicare se non con parziali risposte.
E' certo che quando le due civiltà, note dal medesimo antichissimo gruppo etnico, dopo dodicimila anni, si incontrarono, non seppero riconoscersi ed il prezzo pagato dagli "amerindi" fu tra i più tragici che la storia dell'umanità ricordi.
Oggi il nostro occhio meno dogmatico è in grado di cogliere, non solo le diversità, ma anche le similitudini; simile alle tradizioni estetiche di altri popoli appare la sostituzione delle morbide culle di fibra vegetale, con culle in legno che deformavano il cranio del neonato attribuendogli, una volta adulto, una nuca piatta considerata leggiadro.
Anche la tecnica manuale per la macinazione dei cereali e l'uso di mortai in pietra rivela una sostanziale identità con gli strumenti in uso presso antichi popoli medio-orientali; mentre le terracotte corrugate e quelle a disegni geometrici sembrano corrispondere ad altrettanti periodi della vasistica minoico-micenea. Infine le stesse abitazioni di pietra e di fango, così caratteristiche di questo popolo, non le abbiamo già viste tra le sabbie dei deserti del Nord Africa o sugli altipiani dell'Anatolia?
La visita al parco e l'incontro con i suoi antichi abitanti ha, per noi europei, il fascino di un viaggio ideale nel passato remoto dell'umanità, ma basta proseguire il nostro viaggio reale verso le riserve degli indiani Pueblo, per renderci conto che gli Anasazi appartengono al passato prossimo di questo continente.
Solo trentacinque generazioni separano gli ultimi Anasazi dagli indiani di oggi e pertanto ciò che sui primi possiamo apprendere non è solo frutto degli scavi, ma è anche il risultato della conoscenza delle tradizioni e dei costumi dei loro discendenti.
Gli antropologi rimarcano le differenze esistenti tra indiani del Nord ed indiani del Sud-Ovest degli USA; infatti questi ultimi hanno conservato più degli altri la loro identità tribale, non solo perchè sopravvissuti in maggior numero allo sterminio, ma anche per effetto della loro indole pacifica e conservatrice.
Le tribù dell'Arizona e del Nuovo Messico si sono dimostrate meno permeabili agli usi ed ai costumi dei colonizzatori e con tenace determinazione hanno mantenuto vive le tradizioni dei padri.
Visitando i villaggi Zuñi, Hopi ed Acoma potrete assistere CF danze e cerimonie che, lungi dall'essere per uso dei turisti, non possono essere fotografate e vanno osservate con atteggiamento rispettoso e discreto.
Ancora oggi nei puebIo si eseguono quei complicatissimi riti che consentono alle stelle di rimanere affisse alla volta celeste e permettono agli uomini di camminare sulla superficie della terra.
Infatti nelle religioni pueblo il sorgere del sole, i mutamenti stagionali, la neve e la pioggia, il raccolto del mais e la nascita dei capretti sono eventi che non appartengono all'ordine naturale delle cose, ma sono piuttosto una felice conseguenza dell'esatta e scrupolosa esecuzione dei riti e delle cerimonie da parte di ciascun sacerdote.
Anche gli spazi fisici che gli Anasazi utilizzavano per gli usi cerimoniali vengono riproposti nei moderni villaggi, sostanzialmente immutati. Le kiva abbandonate della Mesa sono identiche a quelle tuttora utilizzate a Walpi, villaggio Hopi, situato a circa quattrocento chilometri in direzione Sud-Ovest.


Ad eccezione delle ambigue rovine, sulla Chapin Mesa, del cosiddetto Tempio del Sole, utilizzato forse per culti particolari, la maggior parte dei luoghi cerimoniali era localizzato allora come oggi, all'interno del villaggio. In estate, le danze e le cerimonie che non rivestivano carattere iniziatico venivano eseguite nella piazza, al centro del pueblo. In tutte le altre cerimonie venivano, e vengono utilizzate ancor'oggi, le "Kiva" che rappresentano in inverno, anche il luogo privilegiato di riunione per gli adulti di sesso maschile.
"Kiva" è parola Hopi che sta per "stanza cerimoniale", le caratteristiche di questa costruzione ricordano la più antica delle abitazioni Anasazi: la "casa a fossa" (pithouse).
La sua struttura sotterranea ed il buco centrale (Sipapu), che può essere considerato l'altare votivo, testimoniano del carattere ctonio dei riti delle religioni pueblo.
La tradizione vuole che i primi uomini, scaturiti dal ventre della terra abbiano conservato con le loro origini un legame magico-rituale che si è tramandato attraverso i tempi.
L'ingresso nella kiva avviene, come per la pithouse, attraverso la copertura e, poichè la botola funge anche da canna fumaria, coloro che entrano vengono purificati dal fumo e dal fuoco.
Altri particolari costruttivi testimoniano della antica e consolidata tecnologia: un camino d'aereazione si apre in basso, sul perimetro della fossa, ed assieme alla pietra che funziona da deflettore, assicura la massima circolazione d'aria in un ambiente che altrimenti risulterebbe claustrofobico; le mensole laterali vengono utilizzate per posarvi i "bastoncini da preghiera" ed altri paramenti, mentre la struttura portante, costituita da sei pilastri perimetrali congiunti da trovi in legno, sorregge un solaio di pietra e fango.
La kiva priva di copertura sembra un pozzo o un minuscolo anfiteatro, ricoperta invece non si distingue facilmente dalla pavimentazione del villaggio.
E' in questa piccola cellula ancestrale che si celebrano i riti iniziatici e di nascita, le danze del flauto e del serpente. I vivaci colori degli abiti cerimoniali e delle maschere Kachinas contrastano con la povertà dei puebblos, ove, ancora oggi, si vive delle magre risorse dell'agricoltura e di pastorizia.
La mitologia, tra mille diversificate sfumature, testimonia di un'origine comune ed autoctona, che accomuna gli Hopi ai loro contestati vicini Navajos e a tutte le altre tribù del Sud-Ovest.
Nella tradizione di tutti questi popoli, l'uomo è la progenie di una razza di creature mostruose e maleodoranti che abitavano un mondo sotterraneo immerso nelle tenebre.
Fu con l'ausilio di una divinità, o per sfuggire all'ira di un dio, che costoro guadagnarono la superficie del nostro universo, attraverso quattro mondi inferi.
L'emersione avvenne attraverso il Sipapu, utero primigenio replicato, per scopi rituali, in ciascuna kiva.
Questo ombelico del mondo coincide per i Navajos e i Pueblos del Rio Grande con la tana di un tasso tra le montagne a Sud-Est del Colorado; per gli Zuñi èsituato in un luogo le cui acque si spalancarono per consentire il passaggio degli uomini. Per gli Hopi infine, il buco altissimo sulla volta del mondo sotterraneo, fu raggiunto arrampicandosi con l'aiuto dello scoiatto su di un albero la cui cima emergeva, attraverso il Sipapu in un punto non ben preciso del Gran Canyon.
Sarò lì che ciascuno ritornerà dopo la propria morte, per incontrare Kwanitaqa (il dio che può guardare nel cuore degli uomini) e da lì in seguito raggiungerà il popolo delle nubi, da cui dipende l'abbondanza del raccolto ed il benessere della tribù.
Ad elementi di crudo realismo come l'emergere da una cavità sporchi e rivestiti da una scorza maleodorante (puntuale rappresentazione della nascita), si mescolano ricordi atavici di un passato, poi non così lontano, in cui gli uomini abbandonarono caverne e tane per costruire dimore più degne, simbolo tangibile della posizione di dominio che avevano conquistato tra gli esseri viventi.
Con il mondo sotterraneo essi conservarono un legame inconscio che costituì il mistero della loro origine individuale e sociale.
Fango e roccia offrirono riparo contro le intemperie e protezione delle aggressioni; il terreno fertile li nutrì ed essi venerarono questo mondo cavo, come il "di dentro" da cui ogni cosa viva sembra scaturire.
Se presso i nativi d'America, l'antica dimora sotterranea è rimasta a significare uno spazio sacro ed il buco Sipapu un oggetto di culto, altri pozzi rituali ed altri sacrari sotterranei sono presenti nelle religioni di Celti, Minoici e tribù nuragiche, a dimostrare dell'origine comune dell'umanità e dell'inscindibile legame con il pianeta su cui dimora.


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