§ L'INEDITO

Sulla scogliera




Giuseppe Minonne



Ogni mattina di quel settembre sulla scogliera: un incavo nella roccia era il sedile. Poteva poggiare anche la spalla e stendere le gambe. L'aveva scoperta da piccola, quel posto di solito silenzioso. A sua madre non piaceva la costa affollata. E la bambina giocava "alle comari" con una o due amichette che non tutti i giorni scendevano a mare. "Le comari" compravano e vendevano formaggio tra di loro: era perchè gli scogli spaccati sembravano grana, forme enormi tagliate da poco, forse da un secolo, lo stesso colore paglierino e le striature e la delicata e viva ruvidezza. Se lo vendevano a quintali, a tonnellate. Altri scogli, rotti da piú secoli, erano opachi d'antico, come imbalsamati in uno smalto pigro e scuro. Irene saltellava da uno all'altro come capra selvatica e si fermava prima del balzo successivo, per spezzare un arbusto, una foglia e metterla in bocca. Agilità e astuzia erano insieme, grazia ed eleganza, spensieratezza e promessa di bellezza futura e di giovinezza e di stagioni felici. Non era stato così. Di solito non lo è mai; ma soccorre l'adattamento. La vita porta alla sopravvivenza.
Era accaduto, infatti, dopo una estate quel maledetto incidente, una banale caduta dalla bicicletta, nel giardino dietro casa. C'era un viottolo stretto e lungo, dalla casa al muro di cinta, tracciato fra la terra e l'erba, e qualche albero e qualche piccola pianta da una e dall'altra parte. Nessuna pietra, nessuna insidia, tutto era innocente. Si divertiva la bambina a non toccare la terra con la ruota anteriore, a seguire il filo del sentiero. Era difficile, per lei che aveva imparato da poco quell'esercizio, ma, tenace, lo ripeteva, insisteva. Giunta in fondo, il ritorno. Andata e ritorno, fino alla stanchezza, al sudore. Era colma, esuberante di fanciullezza che ha bisogno di prodigare. Attraverso il capriccio voleva raggiungere l'abilità. La ruota slittò, la bicicletta le fu sopra. I pedali, la catena sulla gamba destra. Un dolore brevissimo ma acuto, un grido; un marchio. Accorse la madre. "Non è niente. Non mi fa male più. E' passato". "Vieni in casa". "No, Ancora un po'. Ancora tre giri ... ". Poi il femore gonfiò, e la gamba. Iniziò il calvario: medicine, ospedali, interventi chirurgici, ingessature, ritorni a casa, le scuole fatte a spizzico. Infine una diagnosi infausta: osteomielite da infezione. La madre accettò la lotta con il proposito di uscirne vittoriosa, a qualsiasi prezzo. Ma, col passare dei mesi, degli anni la via della guarigione si illuminava solo a intermittenze. Intorno alla ragazza tacque ogni speranza. Era stata ingannata: il paradiso sognato, costruito giorno dopo giorno, disegnato con le mani e con gli occhi su carta, su lenzuoli, sui muri, sulla volta bianca, non c'era più. Forse non c'è mai stato -, pensava, - il paradiso è un inganno.
L'unica fede l'aveva riposta nel volto di sua madre, l'ultima. E gli occhi erano liberi, potevano guardarlo e nutrirsene, e le mani, anch'esse libere: le uniche parti del corpo a non essere state imprigionate nel gesso, negli attrezzi, nei pesi, nelle fasce. Potevano levarsi in alto per indicare la grandezza del suo amore per lei, come faceva da piccola: "Quanto bene vuoi alla mamma?" "Quanto il cielo!" la gamba rimase rigida, per sempre: un handicap crescente, come una valanga, di anno in anno.
Dal sedile di roccia, ferma come statua greca esposta al sole sulla scogliera dell'Attica, osservava piccoli arbusti: spuntavano dagli scogli, misteriosamente, come parole solenni, profezie di un'altra Bibbia, alcuni odorosi e verdi, altri con una rigidezza metallica, conciati dal sale. Senza radici, vivevamo di luce e di mare.
Ricordò la prima notte di nozze, le parole di lui: "Non posso, non so come fare, con questa tua gamba rigida come un ramo ... ". Eppure, era andato tutto bene prima, dall'incontro al giorno del matrimonio. Il primo incontro: un uomo d'eccezione, taciturno, osservatore, alquanto scomposto nei capelli, nei gesti. Uno scultore, massiccio, lo sguardo a volte stupito, a volte spaventato, spesso assorto. Irene se n'era innamorata subito. Bastava un gesto, prendere e partire per Citera. Era diverso dagli altri, Matteo. Preferiva Socrate a Cristo. Diceva che entrambi non hanno lasciato scritti, che sono stati i discepoli a scrivere di loro; entrambi condannati; ma che la morte di Cristo è stata teatrale, là, sulla cima di un colle, quella croce stagliata nel cielo in tempesta, e la gente a guardare come da una platea; Socrate, invece, nel chiuso di una cella... Affermava che a scuola si deforma la fanciullezza e l'adolescenza con quelle nozioni classiche: Giulio Cesare e tutti gli splendori degli altri Cesare.
"Meno male che vennero i meravigliosi barbari a distruggere gli imperi della storia ... " E il suo volto si alterava, gli occhi avevano bagliori insoliti, i muscoli si tendevano nervosi con la celerità di una scossa elettrica. Il giorno finiva e lui parlava ancora. Poi, al buio, taceva. Insieme ascoltavano la sera che si distendeva sul paese, sul campanile, sugli alberi scossi da fremiti impercettibili. Insieme si smarrivano in quell'esilio dove il tutto è niente, dove il niente è tutto. A casa, sola, nel chiuso della stanzetta, in lei riaffioravano le parole di lui, si ricomponevano i pensieri mai sentiti, mai un luogo comune, mai una frase fatta. Divenivano canzoni dolci e se le ripeteva. E ogni sera le risorgeva dentro, dalle proprie ceneri, più sicura, piú precisa, la fenice della rinascita. Un altro giorno Matteo parlò di lucifero. Disse che fu lucifero a vincere il duello con l'arcangelo, altrimenti il mondo non sarebbe com'è. E un altro ancora di Cappuccetto Rosso. Disse che fu Cappuccetto a tentare il lupo. Come se sentisse un bisogno assoluto di ribellione, di vuotare il sacco, di giustificare delle colpe involontarie. Mai stanco, come un recipiente che si svuota lentamente dopo essere stato sturato. Bisogna pure che passi tutto il materiale ostruente. Irene cominciava a capire che Matteo le taceva qualcosa. E quando ripassava le parole del giovane, queste le restituivano un'eco falsa. Ma la speranza prevaleva in lei. Il progetto era sempre tenuto in vita: un amore forte ma temperato dalla quotidianità. Dell'eccezionale, del travolgente Irene aveva paura. Temeva di perdere tutto, di ridursi nella cenere di prima.
Di fronte a lei il mare nudo. Gli aliti immensi venivano da lontano, dalla direzione del sole, che, come un gigante buono, tingeva di neve le creste lontane delle onde, poi avanzava, galleggiando sullo smeraldo della riva, saliva sul paese e, stanco, posava il suo caldo splendore tra case e giardini, tra vicoli e piazza. Alle spalle della donna i gonfi e tormentati pendii della scogliera.
Quella prima notte fra loro non successe nulla. Un lungo silenzio: entrambi si strinsero intorno al centro di se stessi, in cerca di qualcosa, la soluzione. l'orizzonte delle loro esperienze d'amore era limitato; quello di Irene non era un orizzonte, ma soltanto un punto. Era la prima volta. Prima di quella notte baci e abbracci, e soltanto con lui, confidenze fugaci tra amiche, letture e la immaginazione. Chiese soccorso all'istinto. Matteo non rispondeva. Si alzò, passeggiò per la stanza d'albergo.
Lei lottava , contro ogni ragione, in silenzio, su un terreno sconosciuto. Pensava che quella, forse, era una delle vie difficili dell'amore, del suo amore, per via della gamba rigida. Bisognava superare l'ostacolo. Allora o mai più. Un ultimo tentativo: uno scoppio di nuova passione, prima con qualche parola, un richiamo d'amore, come tra gli animali prima dell'accoppiamento. Lo raggiunse, lo abbracciò, cercò ogni mezzo per approdare. Lui troncava a metà le frasi, i baci con i suoi "ti amo" ora nervosi, ora supplici. La donna tornò a letto, schiacciò il viso sul bianco del guanciale. Sentiva salirle dentro, occuparla tutta, sino a stringerle dolorosamente il cuore, il suo destino intero, unito a quello del suo uomo. Ecco perché Matteo l'aveva scelta: anche lui segnato. Non importava ormai il congiungimento dei corpi, quella pena bastava a unirli per sempre. La notte non potè neanche piangere: il cuore era rigido come la gamba. Matteo era sempre più bloccato, immobilizzato da un ricordo. Le mani tremavano, le labbra. La volontà era impotente a rimuovere l'intollerabile peso che lo superava da ogni parte, non bastava. L'anima, doveva sradicare l'anima dal fondo di quel letto in cui era rimasta quindici anni prima, il letto della sua matrigna. Era fuori a studiare, in città. La sua scuola, per restauro, sarebbe rimasta chiusa per tre giorni. Lo seppe all'ultimo momento. Prese il treno della sera. Per un guasto il convoglio rimase fermo nella campagna per più di due ore. Arrivò a casa dopo la mezzanotte. Suo padre gli disse di coricarsi con loro, con lui e con suo moglie: era tardi, la stanza non era pronta, la stufa spenta, il materasso arrotolato sulla rete. All'alba di ogni giorno suo padre andava in campagna, d'estate e d'inverno, e anche la festa. Il ragazzo rimase solo con la matrigna. Il sonno era inquieto, discontinuo. Quando si ridestò completamente, era tutto accaduto. Come dopo un sogno. 0 era stato un sogno? Poi il chiaro del giorno, la luce che entrava decisa dalle imposte socchiuse. L'indifferenza di lei: come se nulla fosse accaduto. Le sue parole erano calme, quelle di ogni giorno. In lui il dubbio, l'angoscia crescevano sino a diventare ebrietà: il sospetto dell'incesto gli era supplizio. E poi aveva davanti a sé il volto sereno di suo padre con un ciuffetto d'erba aromatica fra le labbra. Lavorava come un uomo felice. Se ne tornava da campagna stanco, ma sempre con quell'innocente profumo in bocca, o di basilico o di menta selvatica o di timo. A cena parlava della salubrità dell'alba e della campagna e diceva che la natura, gli animali, le piante si svegliano all'alba, che l'aria è pura, che specialmente i ragazzi dovrebbero levarsi a quell'ora, quando incomincia il giorno. I suoi occhi cercavano quelli del figlio, quella sera. Invano.
Dallo scoglio Irene vedeva davanti a sé un solo colore: l'azzurro del mare più scuro e quello del cielo sovrapposto, più pallido. L'acqua era come solleticata dalla brezza che è nella luce e scherzava lungo la riva: da quel dolce sciacquio potevano sbocciare ridenti nereidi in cerca d'avventure.
Quella notte Matteo non parlò del suo dramma alla moglie. Le disse soltanto: "Non sono quello che pensi. Sono un uomo normale". In Irene amore e pietà erano in conflitto. La notte finiva. Il giorno la investiva da ogni parte in quella minuscola stanza di albergo, ne allontanava le pareti, allargava lo spazio: i sentimenti angusti, stagnanti, hanno paura della luce, come animaletti notturni. E la pietà si nascose nei sotterranei. La confessione venne alcuni giorni dopo, in casa. Giunse il momento in cui fu necessario dire tutto perché il cuore non gli scoppiasse. Lei lo incoraggiava. Ma l'anima non si vuota con parole, ci vogliono sessole ben diverse. Matteo camminava nella stanza, avanti e indietro, dalla porta al focolare e viceversa. Irene lo guardava. Fra poco si sarebbe fermato, l'avrebbe fissata negli occhi, avrebbe detto con voce stonata ciò che doveva rimanere il più possibile lontano, il suo segreto. Si fermò, non per parlare: non riuscì a forzare la gola chiusa. La tensione si sciolse in tenerezza. E ancora abbracci, baci, parole senza senso, balbettate. Quelle carezze così strane, così dolci e così violente sembravano venire da intensità profonde, da lontananze oscure. "Parla, ti prego!" E lo ascoltò... La narrazione fu un'accelerazione crescente, ci mano a mano che si avvicinava all'epilogo. Le ultime parole furono precipitose, il trauma finalmente allo scoperto, effervescente del suo inesauribile veleno. Irene sentiva crescere in sé, come creatura mitologica, la generosità dell'amore a ogni parola del marito, a ogni pausa. E abbracciandolo, gli sussurrava, gli gridava, lo convinceva: "E' stato un sogno, un sogno ... " Intanto si costruiva dentro il proposito di aggiustare tutto, di riparare quello strappo: sarebbe stato meglio di prima. Doveva cominciare dalla radici; demolirgli la "filosofia del contrario". La professava come una religione. Era la parte più solida nell'impianto della sua mente. Si doveva iniziare dalla statua: convincerlo a ucciderla.
Il laboratorio di Matteo era in un locale attiguo all'abitazione. Su una grande pedana di legno un gruppo scolpito in pietra: occupava lo spazio più importante, come l'altare maggiore nelle chiese. Era la prima cosa che si vedeva, entrando: una nascita al contrario. Il corpo della donna vibrava di maternità: braccia e gambe divaricate. I muscoli non erano tesi, ma vigili, in attesa delle doglie, la testa sollevata a guardare la sua creatura nata da vent'anni e da vent'anni con il capo puntato contro il sesso materno, tentava di rientrare.
Irene dal suo palchetto di pietra osservava il pigro ribollio delle acque bianche che urtavano le pareti anfrattuose e intrecciavano con i fili d'alghe ricami sottili. Un passero spaurito, come scagliato da un arco invisibile, piombò in uno squarcio di roccia, una lesta beccata, preciso, e volò via, nella direzione degli alberi. Un gabbiano tra cielo e mare disegnava, con le sue ali, larghe geometrie.
Seguì per gli sposi un tempo crepuscolare: ora vinceva la luce ora l'oscurità lei tesa a frantumare i cocci dell'incontesimo malvagio, a coniugare parole con carezze dolci, femminili; in lui brulicavano ancora i lembi del rimorso come insetti nel buio.
Accadde una sera. la donna fu soccorsa dall'arte di Evatravaso.. Ma l'amplesso durò un solo momento, l'attimo brevissimo di un malinconico, squallido travaso. L'operazione si ripeté anche la sera seguente e l'altra ancora, allo stesso modo. Irene, inesperta, credeva che quello fosse l'atto d'amore. le sarebbe andato bene così, per sempre. E si convinceva nel silenzio di se stessa che era regola di natura, che si faceva per continuare la specie. E provava vergogna di volere di più, del grido discordante della sua carne. Poi avvenne l'imprevisto, ciò che è soltanto degli altri. Non si sente mai dire: ecco la felicità, prendila. Accade sempre agli altri. Ma questa volta il frutto della vita le era a portata di mano: ora soltanto una gemma, poi sarebbe maturato dolcemente, il tempo di nove mesi, e lo avrebbe colto. Comunicò la notizia al marito una sera d'estate, in giardino: una lama di luna giocava con le cime degli alberi. ]rene aprì le braccia, come fa chi annunzia una notizia troppo bella. Un venticello si levò raso terra, le gonfiò la gonna. Matteo strinse appena quel corpo vibrante, per non fargli male: malgrado tutto la vita trionfava. Nacque in febbraio. La creatura confluì nella corrente dell'essere, come tutte: l'apprendistato dal primo giorno, poi gli altri eccetera in fila. La quotidianità di Irene ricominciò a riempirsi della malinconia delle sere vuote passate in solitudine: il bambino dormiva, il marito nel laboratorio con le sue statue bizzarre. I latrati dei coni le perforavano la testa, il ticchettio della sveglia le prendeva il cuore. Eppure Rene caricava l'orologio ogni giorno, come per chiedergli altro tempo per una rabberciatura, per raddrizzare la sorte.
Una notte, a letto, la donna avvertì un movimento ritmico, dalla parte di lui. "Perchè?" gli chiese. Matteo si calò tanto nella profondità del suo silenzio che né la voce della moglie né quella del figlio lo raggiunsero più. Dopo alcuni giorni chiese di dormire nell'altra stanza, per via del bambino. Trasferì il laboratorio lontano dal paese, in una cava di pietra abbandonata. Irene cominciò ad autunnarsi.
Nuvole salivano da ponente e a una certa ora del mattino rosicchiavano il sole: avviene ogni giorno nel mese di settembre. E si specchiavano sulla scogliera e sul mare nelle loro ombre in corsa, tingendo le rocce di piombo e le acque di turchino.
Delle due parti di cui è fatta una donna, in Irene era rimasta soltanto la madre. Sul suo scoglio ogni mattina attendeva il figlio che, d'estate, si alzava tardi. L'altra parte, la sposa, era eterea, dai contorni sfumati, come cancellati dalla luce, da cui di tanto in tanto si riparava portando la mano alle sopracciglia per guardare l'orizzonte lontano: forse aspettava un nuovo passaggio dell'Arca. E intanto si alimentava di un ricordo d'idillio che le alitava intorno: una brezza odorosa di pollini perduti.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000