§ COMMERCIO INTERNAZIONALE

Al crocevia fra libero scambio e protezionismo




Gennaro Pistolese



Una delle principali materie ed applicazioni di ricerca e studio della dottrina economica è rappresentata dall'approfondimento della politica (dei suoi contenuti come delle sue motivazioni) del commercio internazionale.
Due, come è noto, sono le scelte alternative al riguardo: e cioè quella del libero scambio e l'altra del protezionismo. Due facce queste che si ripropongono nella più ampia tematica della pienezza dell'economia di mercato e della spazialità dell'intervento pubblico, l'una e l'altro tuttavia da intendere nella relatività dettata dalla vita reale.
Infatti, non esiste e non è mai esistito nell'uno e nell'altro senso un sistema rigorosamente ed intrasigentemente definito, perché da un lato non si è mai registrata la pratica di un assoluto regime di libero scambio e dall'altro non s'è mai verificato un modello di integrale e duratura autosufficienza. Anche i mercati che in linea di principio si sono chiusi in se stessi hanno aperto sempre larghi spiragli, controllati e limitati quanto si voglia, verso l'esterno. Un esempio al riguardo è rappresentato dai modelli del socialismo reale e da quelli che nel passato e nel presente si sono distinti e si distinguono con la negazione della libertà, che è sempre totale nelle implicazioni interessanti la politica o l'economia.
L'alternativa libero-scambista non è altro che la derivazione del liberismo economico interpretato ed applicato nella realtà della vita mercantile.
Come scrive il prof. Roberto Zanelletti nel "Dizionario di economia politica" - e per inciso ricordiamo l'amicizia e la consuetudine di lavoro che ci legavano a Lui, da qualche anno scomparso - la dottrina libero scambista sostiene che sulla scorta di quanto insegna la teoria dei costi comparati, solo la divisione internazionale della produzione, resa possibile dal libero movimento internazionale delle merci, assicura che in ogni Paese si realizzi il migliore sfruttamento delle risorse naturali. Sempre secondo questa impostazione, se in un determinato Paese una data produzione viene a cessare perché non è in grado di competere con quella estera, i fattori produttivi prima ivi impegnati si trasferiscono in altri settori a produttività marginale più elevata. Da ciò deriverebbe una consistente spinta allo sviluppo del reddito nazionale, diversamente mortificato e depauperato. Da questa ispirazione discende nel libero scambisti la convinzione che lo Stato dovrebbe lasciar fare, astenendosi dall'intervenire nella realtà degli scambi, che dovrebbe appunto essere dominata da queste leggi.
La realtà è però che le leggi stesse non possono trovare un'applicazione rigorosa ed intransigente, perché i processi effettivi che si registrano sono arginabili solo con una certa elasticità e costituiscono il più delle volte un compromesso fra le concezioni dei due estremi.
Il che si verifica oltre che nell'attitudine concreta assunta dalla dottrina del libero scambio in quella che contraddistingue il protezionismo, che si caratterizza con una lunga, spesso contraddittoria serie di motivazioni, talune delle quali di natura scientifica e varie pure di semplice e spesso rozza sperimentazione, dettata da stati di necessità, non di rado anche di semplice natura politica.
Al fondo di quanti si professano per l'intervento dello Stato vi sono due filoni principali, e cioè quello che ha in Schuller il più rappresentativo enunciatore con il principio di un protezionismo garante dell'impiego dei fattori produttivi inutilizzati e l'altro che si riflette nel pensiero di Hamilton e di List, per citare i più rappresentativi, secondo i quali il protezionismo sarebbe condizione dello sviluppo delle industrie nascenti.
Forse le due concezioni contrapposte così emblematizzate hanno un carattere troppo estremista e perciò inconciliabile. la realtà è che non è derivata, né sembra possibile derivi una vittoria dell'una sull'altra, ma la tendenza dei sistemi a dare corpo ad una sommatoria di principi e di esperienze ispiranti anche alternativamente nel tempo, con le accentuazioni o con le sfumature, al lasciar fare od all'intervento. Le enfatizzazioni dell'uno e dell'altro aspetto, oltre ad avere a che fare con stati di necessità e comunque con valutazioni obiettive, trovano spesso la loro origine in opzioni di carattere ideologico, più o meno elasticamente o rigidamente interpretate con i cosiddetti nuovi corsi.
Nella sua confutazione del libero scambismo Schuller respinge l'asserzione secondo cui il trasferimento di fattori produttivi da un settore all'altro, necessario per accrescere la produzione nel settore soggetto a protezione, si traduca in una contrazione del reddito nazionale. Ed osserva che in concreto non sempre i fattori della produzione sono completamente utilizzati, per cui in ragione di una politica protezionista si verificano o l'impiego di fattori in precedenza inutilizzati e l'importazione di capitali o l'immigrazione di lavoro, con la conseguenza finale di un aumento di produzione e di reddito nazionale.
In queste formulazioni si riscontrano anticipazioni del pensiero di Keynes con convergenze e distinguo tuttavia, suggeriti da più mature esperienze e da più articolate verifiche.
E quando queste verifiche sono state fatte si sono risolte anche in critiche, perché si è detto che per stabilire se la protezione si risolve realmente in un aumento dell'occupazione e del reddito, occorre fare un bilancio degli spostamenti che determina. Infatti, la riduzione delle importazioni provocata da una politica protezionista trae con sé, se non immediatamente in breve giro di tempo, una flessione nel volume delle stesse esportazioni, con conseguente calo di occupazione, che può vanificare, quanto a dimensione, l'incremento di occupazione che si può manifestare nei comparti produttivi soggetti a protezione. Si tratta pertanto di quantificare questi fenomeni di segno opposto, con valutazioni che naturalmente hanno un alto tasso di erroneità od incongruità. E si tratta di valutazioni che oltre che la consistenza della disoccupazione ne devono determinare la qualificazione, con le distinzioni fra disoccupazione a carattere temporaneo e disoccupazione di natura strutturale.
Nel primo caso il protezionismo ritarda il progresso tecnico, rivelandosi come un pannicello caldo. Nel secondo caso può rivelarsi utile, ma provvisoriamente e con riguardo alle situazioni nelle quali, secondo sottolinea lo Zanelletti, il tipo di disoccupazione strutturale non può essere curato, causa l'inesistenza della flessibilità dei salari, con la politica della loro diminuzione.
La verità è che il toccasana protezionista nemmeno nei Paesi che si proclamano immuni dal protezionismo è posto in soffitta, come avviene ad esempio negli Stati Uniti e nella stessa Europa maggiormente industrializzata, con misure e norme che una protezione realizzano anche in forma indiretta, con le normative inerenti fra l'altro alla materia valutaria.
L'altro polo della propensione protezionistica è rappresentato dalle implicazioni favorevoli che ne deriverebbero per le industrie nascenti.
Abbiamo prima accennato ad Hamilton ed a List, ma a questi due capostipiti bisogna aggiungere anche taluni libero-scambisti come J. Stuart Mill, Marshall, Pigou, Taussing, ecc., i quali pur professandosi fedeli ai principi di libero scambio che per essi costituiscono l'optimum delle relazioni internazionali, ne condizionano la validità ad un conseguito sviluppo, raggiungibile solo con un preliminare protezionismo. Sono questi pensatori l'espressione di una dottrina che nel suo finalismo professa il libero scambio, ma che nella determinazione della strategia, su di un piano contingente, accetta ed anzi ritiene indispensabile lo strumento protezionistico.
Quanto alle applicazioni concrete di questa fascia del pensiero economico, esse si caratterizzano con:
- la necessità del ricorso al protezionismo non per l'agricoltura, ma per l'industria, che in un regime di concorrenza illimitato con nazioni manifatturiere più esercitate sarebbe compressa nelle nazioni poco avanzate, vedendosi negata in carenza di sostegni un'adeguata indipendenza.
- l'affermazione fatta in particolare da List, secondo la quale "la perdita ingenerata dall'esistenza delle tariffe protettive non è costituita in definitiva che da semplici valori: ma attraverso di essa il Paese guadagna delle energie per virtù delle quali esso viene posto per l'avvenire in grado di produrre delle quantità di valori incalcolabili. Codesta erogazione di valori deve pertanto venire riguardato come il prezzo della educazione industriale del Paese".
Sennonché con queste affermazioni non si esprimono solo tesi inconfutabili, ma si prospettano anche dubbi.
E questi dubbi e le riserve che sollevano riguardano le caratterizzazioni e conseguenze delle applicazioni concrete del protezionismo, che molto spesso fra l'altro viene giustificato con motivi contingenti ed annunciato con caratteri provvisori, mentre di fatto si proietta nel tempo e degenera nella adozione di dosi e di interventi sempre più massicci. Osserva sempre il ricordato Zanelletti che si verifica in conseguenza di indirizzi protezionistici che l'industria protetta tende a rimanere eternamente giovane, per cui quasi mai viene, in pratica, raggiunto l'ideale stadio di libero scambio dei prodotti manufatti, posto come fine al protezionismo quando è concepito soltanto come un mezzo.
La massimizzazione del reddito nazionale che si crede di perseguire con scelte avverse al libero scambio, è pertanto molto flebilmente od addirittura inefficacemente perseguita anche sul piano contingente, perché le illusorie compensazioni conseguite in questo o quel settore particolare sono vanificate dalle più ampie e pregiudizievoli conseguenze che si registrano nell'economia nel suo complesso.
Ma anche altre motivazioni, spesso di natura extraeconomica e comunque di contenuto più marcatamente politico enunciano la loro invalidità, dato che derivano da visioni particolaristiche, che possono riguardare o la tutela di un singolo settore produttivo o la pretesa difesa di specifiche classi sociali, l'una e l'altra portate a creare sperequazioni e perciò a determinare un danno per i singoli sistemi economici sui quali queste esperienze vengono effettuate.
Le applicazioni che si hanno degli interventi di natura protezionistica sono molteplici, come si sa.
Esse riguardano fra l'altro l'agricoltura, con l'intento di preservarne la potenzialità produttiva e molto spesso più ancora l'esplicazione della funzione sociale che all'agricoltura si attribuisce e che si vuole evitare sia compromessa dall'inadeguatezza del reddito. Comunque il protezionismo più o meno generalizzato in materia tende a cedere il passo ad interventi settoriali più specifici e spesso suggeriti da motivazioni contingenti.
Altre applicazioni sono dettate dall'intento di sostenere il livello dei salari reali e quindi uno standard di vita adeguato. Secondo il Patten in particolare, mentre in un mercato chiuso il salario è determinato dalle esigenze dell'industria marginale nazionale in un mercato aperto esso è determinato dalle esigenze della industria marginale mondiale e quindi dal livello dei salari più bassi nel mondo.
Altre applicazioni ancora sono specificamente finalizzate al miglioramento dei conti con l'estero, con benefici tuttavia che possono conseguirsi su di un piano immediato nella contrazione delle importazioni, ma che, come prima si sottolineava si pagano sempre con la correlata contrazione delle esportazioni . In conseguenza se anche per una certa quota si può ridurre il disavanzo, il conto globale non si chiude positivamente per il sistema economico che abbia posto l'acceleratore sul moto protezionistico.
Giustificazioni al ricorso protezionistico si ricercano spesso in ragioni di difesa. Siamo cioè nelle fasi preparatorie o virtuali dell'economia di guerra, con tutti i corollari che essa comporta proprio su questo specifico terreno degli scambi.
Un'altra motivazione ancora delle misure protezionistiche è costituita dalla ritorsione, che in sostanza vuoi essere un mezzo di riequilibrio rispetto a misure esterne, di negoziazione per la loro attenuazione o soppressione ed infine di messa in mora, la quale ultima attitudine si rivela con il ricorso alle sanzioni. Ed oggi queste sanzioni, come si sa, non riguardano solo le penalizzazioni degli scambi, ma anche la sospensione ed il complesso delle condizioni inerenti alla cooperazione tecnico-economica, ai prestiti, ecc.
Ma da questo punto di vista sono le motivazioni politiche ad avere il sopravvento sui fondamenti economici che difatti ne restano in disparte.
Fin qui le principali valutazioni teoriche e pratiche che hanno accompagnato la dottrina del libero scambio e quella protezionistica. Vi sono, come si è visto, le nette contrapposizioni fra l'una e l'altra, ma vi sono nella realtà dei fatti le commistioni, che si realizzano e susseguono con una serie di interventi, modulati nei dazi doganali, nei contingenta menti, nel controllo dei cambi e dei movimenti dei capitali, negli incentivi alle produzioni ed alle esportazioni.
La storia economica, pure quella più remota, è ricca di queste strumentazioni, delle esperienze positive e spesso anche negative che si sono fatte con la loro utilizzazione, di forme di accordo che si sono tentate o realizzate nel corso del tempo in queste materie. la politica commerciale si è venuto arricchendo di forme di intervento, che tendono a divenire sempre più minuziose e spesso sono anche sofisticate, instaurando una tecnica degli scambi che vuoi essere funzionale, ma talvolta diviene artificiosa e perciò contraria alla stessa pur irrinunciabile fisiologia degli scambi.
Questa fisiologia degli scambi è stata ed è tuttavia condizionata dal susseguirsi dei momenti economici, con radicali evoluzioni od involuzioni che hanno scandito la dinamica dei rapporti commerciali internazionali soprattutto a cominciare dagli albori di questo secolo.
Prima di allora i rapporti economici internazionali erano sostanzialmente improntati a principi liberistici, anche se di fatto larghe e ricorrenti erano le eccezioni, motivate con situazioni locali e territoriali alle quali si tendeva ad attribuire un carattere contingente, pure se questo di fatto si rivelava tutt'altro che provvisorio.
L'ancoraggio fino ad allora ad un'ispirazione liberista della politica commerciale internazionale si fondava sull'unicità della moneta (essendo tutte le monete ancorate all'oro), sulla libertà di commercio (essendo le uniche limitazioni quelle costituite dai dazi doganali), sull'elasticità del mercato, che tale si rivelava oltre che per le merci, anche per il movimento dei capitali. Pur in questa panoramica così caratterizzata non sono mancate anche prima degli inizi di questo secolo forme di intervento limitativo od eccitativo degli scambi, con gli incentivi alla produzione talune forme di dumping che si sono venuti succedendo in vari sistemi economici a più alto potenziale industriale.
Comunque, prima la guerra 15-18, poi i prodromi e lo svolgimento della seconda, le depressioni nazionali e le crisi internazionali, la crescente pressione sulla politica economica esercitata dalle fasce sociali e partitiche, gli stessi progressi conseguiti dalla scienza economica in termini di prognosi e di terapie sono venuti ampliando la sfera degli interventi diretti a regolare il cosiddetto vincolo esterno delle singole economie, che hanno per ciò ricercato i loro sbocchi o nelle misure unilaterali od in quelle bi e multilaterali, mediante il ricorso alla fitto rete degli accordi, delle strutture specifiche, che soprattutto a cominciare dal secondo dopoguerra possono contare su di una lunga serie di sigle e di sedi di confronto, spesso anche di decisione.
E qui entriamo nella fondamentale tematica della collaborazione economica internazionale, con la quale si vogliono fra l'altro correggere le storture che derivano o deriverebbero dalla pratica indiscriminata delle misure protezionistiche unilaterali e dare un nuovo volto alle posizioni negoziali particolari sollecitate a confluire in una sistematica solidaristica.
E ciò in funzione di scambi improntati ad una tendenzialità liberistica in quanto esercitantesi in un determinato ambito. L'obiettivo è quello di creare determinati spazi e farli funzionare su basi elastiche e non rigide per gruppi di Paesi o gruppi di materie.
Se la politica fornisce le occasioni e le spinte per i relativi processi, è anche l'economia che ne deve fornire i fondamenti e le motivazioni tecniche, sia come causali che come meccanismi. Purtroppo l'incontro fra politica ed economia anche dall'angolazione concernente gli scambi commerciali, non è sempre facile e fecondo. E ciò in quanto la politica ha i suoi momenti di esaltazione di depressione, e non sempre riesce a caratterizzarsi con una certa continuità --- dal che derivano pesanti vuoti decisionali - (ne vediamo in questa fase. gli effetti in materia di Comunità Economica Europea) - mentre l'economia ha sì le sue leggi, che però sono oggetto oltre che di differenti interpretazioni di sostanza e di metodi anche di marcate varietà dei punti ambientali di riferimento, frequentemente anche extra ed anti economici.
Di qui i ritardi, i compromessi, le involuzioni che costellano questa materia anche sul piano internazionale portata a ricercare la conciliabilità fra l'anelito di libertà economica, che nella realtà è molto ridimensionato nella sua effettiva entità, e la terapia dell'intervento pubblico (sia protezionismo ed assistenzialismo) messianico per taluni ed extrema ratio, molto condizionata, per altri. Abbiamo in precedenza accennato ad alcuni fra i maggiori dottrinari di questa tematica, ma qualche ulteriore dettaglio può riuscire utile, con riguardo a Keynes, per l'attualità del suo pensiero ed anche per il sempre vivo dibattito che suscita il suo modello, nonché con riferimento ad alcuni pensatori italiani. Nel modello di Keynes, nel quale trovano risalto i principi relativi alla propensione marginale al consumo, all'efficienza marginale del capitale, agli ammortamenti industriali, alla domanda effettiva, e così via, alcuni schemi particolari hanno a che fare con la politica per gli scambi, per la quale egli ha auspicato un ritorno ad una condotta protezionistica. Scrive Emilie Jaures nella sua "Storia del pensiero economico" che Keynes ha lodato il protezionismo doganale, affermando che esso poteva essere, in certi casi, un mezzo per aumentare il livello di occupazione "Quando un Paese che soffre di disoccupazione chiude le proprie frontiere per dare lavoro ai propri disoccupati e permettere in tal modo la creazione o la sopravvivenza di imprese che producono ad un costo più elevato che all'estero, non è esatto dire che questa politica è irrazionale e che il Paese avrebbe interesse ad acquistare all'estero ciò che esso non può produrre a costi altrettanto bassi: infatti esso non fa un cattivo uso delle proprie forze di lavoro disponibili ma le mette al lavoro invece di conservarle inattive; e ciò è un guadagno. Il ragionamento libero scambista non appare dunque valido che nell'ipotesi speciale della piena occupazione". E questo nell'economia d'oggi, a qualsiasi latitudine, è più un obiettivo di difficile conseguimento, addirittura fisiologicamente impossibile nella maggioranza dei sistemi socio-economici, a parte i noti ingenti prezzi pagati dai sistemi collettivistici, di cui tanti sono i lati oscuri della politica dell'occupazione, che non un risultato economicamente conseguito o conseguibile.
Serrata è stata la critica al pensiero Keynesiano in queste sue molteplici espressioni, e le punte maggiori di dette critiche si sono avute in quella che è la parte culminante del suo pensiero riferentesi all'occupazione. Commenta sempre Jaures che lo scopo keynesiano della realizzazione della piena occupazione "può finire con il dare un cattivo orientamento alle forze produttive disponibili: queste spesso non sono disoccupate che nell'attesa di una migliore occupazione ulteriore; volerle mettere al lavoro immediatamente significa spesso consacrarle a delle occupazioni a basso rendimento".
Sennonché sia le affermazioni, sia le negazioni nella realtà delle scelte sono destinate ad avere un peso relativo, corrispondenti come idea più che a propensioni di pensiero a stati di necessità, anche questi soggetti molto spesso ad interpretazioni subiettive e perciò non esenti da errori.
Anche nella panoramica del nostro pensiero economico si sono susseguiti e si susseguono assertori dell'una e dell'altra tesi, e cioè in pro o contro il protezionismo nelle sue tante possibili sfumature ed applicazioni. Molto spesso si ha l'esaltazione del finalismo libero scambista, (al quale però in senso assoluto non crede più nessuno, sotto la spinta di un ineccepibile realismo), ma le applicazioni concrete e la consuetudine di tutti i giorni tendono sempre più a spostarsi sulla difesa, con gradazioni che sono in relazione con lo stato di benessere, di efficienza, di equilibrio che è stato conseguito e può considerarsi duraturo in un determinato arco di tempo.
Si entra così nel campo della relatività, con la spazialità che si tende a riconoscere anche in questa materia alla politica economica.
Dice il Mazzei che "la politica economica trae dalla politica e quindi dall'etica e dalle altre discipline che in essa confluiscono la nozione stessa dei fini cui deve servire, dei fini che deve raggiungere o che deve collaborare a raggiungere. E perciò quando si formuli il giudizio integrale su di un provvedimento di politica economica non si può parlare di utilità nello stretto senso economico, ma di utilità politico economica, di opportunità politico-economica; di costo politico-economico". E quindi in questo spirito che vanno considerati i principi ed i valori che fin qui abbiamo richiamati. In sostanza, la scienza economica dovrebbe riconoscere umilmente i propri limiti, per il sopravvento del più determinante intervento politico? Ma è proprio vero che il decisionismo politico possa o debba utilmente prevalere sulle leggi economiche, senza cercare invece nuove sue formulazioni, compatibili con l'economicità quasi sempre insita nel suo finalismo, ma negata od offuscata nella sua strumentazione?
E qui é la responsabilità politica che diviene l'elemento centrale dei giudizi e dei comportamenti possibili, ma spesso è una responsabilità che affiora solo a situazioni già deteriorate, in ritardo, e con margini di riparazione e responsabilizzazione molto ristretti.
C'è dunque un conflitto, in atto, non risolto, che non si traduce nella vittoria di una parte del pensiero economico sull'altra, perché ognuno deve rinunciare a qualche cosa ed a provvedere perché ciò avvenga è il potere politico, saggiamente od inavvedutamente a seconda dei casi e delle situazioni.
Commenta Claudio Napoleoni nel suo "Pensiero economico del 900" che il pensiero classico, sulla base della teoria dei costi comparati di Ricordo, aveva mostrato che la libertà di commercio, determinando una specialità dei vari Paesi nelle produzioni in cui ciascuno di essi possedeva dei vantaggi comparativi di produttività, dava luogo ad una situazione di massima efficienza in campo mondiale. Da tale situazione ciascun paese traeva vantaggio: il libero e completo inserimento nel commercio internazionale gli permetteva di conseguire dalle risorse a sua disposizione, una ricchezza maggiore di quella di cui avrebbe potuto disporre in una posizione di isolamento. Continuatori di questa impostazione si sono avuti anche nei tempi più recenti, con HaberIer, Leontieff, Viner e Samuelson, quest'ultimo con il saggio pubblicato nel 1939 da "The Canadian Journal of Economics and Political Science" dal titolo "The gains from international trade".
Afferma in sostanza Samuelson, e ciò è fra l'altro espresso nel volume pubblicato in Italia a cura dell'UTET dal titolo "Economia" che:
- appena si hanno diversità nelle produttività in un Paese, specializzazione e
scambio diventano vantaggiosi.
- fin tanto vi è differenza nella relativa efficienza fra un paese e l'altro, vi sarà un potente vantaggio derivante dalla specializzazione in quei beni che hanno un vantaggio comparato, vendendoli per altri beni nei quali l'altro paese ha un vantaggio comparato.
- la legge del vantaggio comparato non solo predice la specializzazione geografica e la direzione del commercio; essa dimostra anche che entrambi i paesi stanno meglio e che i salari reali (o guadagni dei fattori produttivi presi nell'insieme) sono migliorati col commercio e con la risultante estensione della produzione mondiale. le tariffe proibitive che hanno creato l'autarchia (cioè l'autosufficienza economica nazionale, da non confondersi con l'autarchia politica) danneggeranno i salari reali ed i guadagni dei fattori e non li aiuteranno.
- con politiche pubbliche adatte, le nazioni moderne possono non sacrificare i grandi benefici derivanti dal commercio, ma piuttosto possono ricreare l'ambiente atto all'applicazione del principio del vantaggio comparato.
L'impostazione di Keynes non contesta vari dei principi suddetti, ma mette in evidenza come possano esserci circostanze nelle quali l'alternativa che si pone non è quella fra l'impiego efficiente e quello non efficiente, ma è quella fra l'impiego completo ed il sottimpiego delle risorse disponibili. In tal caso può ben darsi, conclude il Napoleoni, nel suo ricordato volume, anche alla stregua del criterio paretiano che una utilizzazione non efficiente ma completa delle risorse sia preferibile ad una utilizzazione efficiente ma incompleta. E questo potrebbe essere il caso, commenta sempre Napoleoni, di un Paese per il quale l'inserimento senza limitazioni nel mercato internazionale comporti un abbassamento del reddito e dell'occupazione.
Come si vede, c'è la validità di un principio che spinge in una direzione, c'è però anche l'accavallarsi delle situazioni di fatto derivanti da dati strutturali e contingenti che agisce spesso e marcatamente in funzione centrifuga rispetto a detta direzione, con risultati non di rado di difficile misurazione.
La scienza economica applicata al comportamento umano, quello reale e quello possibile, non può dare di più.

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