§ LE INCHIESTE

SULLE TRACCE DEI VINTI




Tonino Caputo, Gianfranco Langatta



Ha scritto Sabatino Moscati che troppo spesso il nostro passato è identificato con quello dei Romani, mentre sono lasciate nell'ombra le vicende di altri popoli che vissero nella penisola prima di Roma, o insieme con Roma, creando floride civiltà. Questo è il destino dei vinti: oltre alla sconfitta, sono condannati all'oblio, "sicché se ne parla solo di scorcio", quanto basta a spiegare le vicende dei vincitori. Unica eccezione, in questo stato di cose, il cosiddetto "anno degli Etruschi", che se non altro è servito a far piazza pulita di una lunga serie di luoghi comune. Il primo: essi vennero da lontano. Sul luogo di provenienza prevale la tesi del remoto (e favoloso) Oriente. Ma non mancano descrizioni su un'eventuale origine dall'Europa centrale o dall'Asia Minore. Che la nazione etrusca possa essersi formata in Italia, che gli eventuali apporti esterni non siano che elementi integrativi, come accade in ogni storia, è quasi sempre escluso. Il secondo: gli Etruschi vennero prima dei Romani e la loro civiltà fu più antica.
Eppure, tutto mostra che le prime testimonianze storiche e culturali della civiltà etrusca sono contemporanee alla nascita dell'Urbe e a quella di tante altre città dell'Italia antica: e che le vicende degli uni e degli altri costantemente si intersecano, senza un prima né un dopo. Ma, parlando di Italia preromana, si equivoca: ci si riferisce non alle origini di Roma, ma alla sua conquista della penisola. Terzo pregiudizio: il "mistero" della lingua che non si comprende e che non si decifra. In realtà, l'etrusco si "decifra" benissimo: ha una scrittura di tipo greco-latino perfettamente leggibile, e la lingua è comprensibile all'incirca per metà, sulla base delle iscrizioni bilingui, delle analogie strutturali, e via dicendo. Quarto pregiudizio: gli Etruschi sarebbero stati un popolo religiosissimo, sempre intento a costruire le tombe per la via futura. Anzi, l'Etruria non sarebbe che un'immensa terra di tombe. E le città?
Mettiamo da parte qualche altro pregiudizio dilettevole (come quello del potere alle donne, che sarebbero state dissolutissime), e veniamo agli altri popoli dell'Italia antica, il cui destino è stato ancor peggiore. Dei Sanniti, ad esempio, quando mai si parlo, se non al momento delle guerre che da loro prendono il nome e che restano impresse nella memoria dei Romani per il sanguinoso affronto delle Forche Caudine? E dei Liguri quando, se non al momento della conquista, che fu tra le ultime da parte di Roma, mentre quelle genti già vantavano una civiltà millenaria? Inoltre, (ciò che è peggio), se ne parla solo in riferimento a Roma, che è come dire di un'ombra per capire la luce. Oggi, tuttavia, l'ombra comincia a diradarsi.
I successi quotidiani e straordinari dell'archeologia fanno riaffiorare le civiltà sepolte, danno un'immagine e una consistenza sempre più precise ai popoli che vissero in Italia prima dei Romani e accanto ai Romani, con proprie forme di cultura e di arte, tutt'altro che secondarie.
Esaminiamo qualche caso. Pannelli, gigantografie, grafici di una grande mostra sui Comuni, suggestive testimonianze di una civiltà lombarda fiorita per ottomila anni, prima dell'età cristiana: poiché dobbiamo ormai riscrivere la storia della più antica Italia, sarà conveniente incominciare dalla Valcamonica? Con ogni probabilità sì, perché questo è forse il capitolo più lungo, più ricco, e anche più entusiasmante. Ma tanti altri sono i capitoli da riscrivere. Anzi, fino ai Romani sono da riscrivere tutti.
Popoli e genti della preistoria. Molto prima degli Etruschi e dei Romani, vivevano in Italia uomini civilissimi. Facciamo un rapido calcolo: Roma viene fondata nel 753 avanti Cristo, secondo la tradizione; la data può discutersi, ma approssimativamente è valida. Allora: le prime manifestazioni dell'arte rupestre in Valcamonica risalgono a ottomila anni prima di Cristo. E, ciò che più importa, vi è da allora in poi una presenza continua, fino al 16 avanti Cristo, quando proprio i Romani occupano la Valle. Otto millenni di presenza umano e di manifestazioni artistiche, insomma, precedono in Lombardia l'avvento di Roma.
Ma non si tratta solo dei Comuni. Chi ha visitato, la scorsa estate, la Valle dell'Aosta, ha potuto vedere in un'altra mostra la documentazione di scoperte che sono tuttora in pieno corso. Tombe formate da enormi blocchi di pietre e grandi stele sagomate in forma umana riemergono alla periferia di Aosta, dov'è oggi la chiesa di St. - Martin de Corléans. La datazione con il radiocarbonio suggerisce un'epoca intorno al 2500 prima di Cristo. E' uno squarcio della civiltà megalitica, che fino a questo momento conoscevamo soprattutto dalle isole mediterranee e che oggi vediamo giunta fino alle pendici delle Alpi.
Tracce storiche dei Micenei. Erano genti delle montagne e in genti del mare. Che dal Mediterraneo siano sempre venuti in Italia colonizzatori, conquistatori, e magari pirati, lo sapevamo. Ma ecco ora nuove, grandiose scoperte sui Micenei, cioè sul ceppo che precedette i Greci venendo dalle stesse terre, a partire dal 1800-1700 prima di Cristo. Pochissimo tempo fa, gli scavi di Tharros, in Sardegna, hanno portato alla luce quella ceramica a vivaci colori, fantasiosamente figurata con immagini geometriche e animali, che caratterizza in tutto il Mediterraneo proprio i Micenei. Altre località sarde (in particolare Sarroch, presso Cagliari) l'avevano rivelata poco prima. E lo stesso si dica, ormai, per tutte le coste dell'Italia centromeridionale. Con alcuni esempi nei fondaci della penisola salentino, che fu un punto di attracco obbligato per la maggior parte dei navigatori dell'antichità.
Dovette essere, quello dei Micenei, un vero e proprio impero commerciale. Un impero che aveva probabilmente il suo segreto nel traffico dell'ossidiana, un vetro di origine lavica che forniva strumenti assai più efficaci di quelli ottenuti dalla pietra. Sappiamo anche che il traffico dell'ossidiana aveva il suo epicentro a Lipari, nelle Isole Eolie, dove gli scavi stanno riportando alla luce un autentico grande archivio della preistoria, con strati archeologici che si scaglionano senza interruzione per ben nove metri di profondità. Guardare per credere, dato che c'è anche un museo modello, unico nel suo genere nel mondo mediterraneo.
E passiamo ai Greci. Sulla colonizzazione greca in Italia, a partire dall'VIII secolo prima di Cristo, (la prima data, tradizionale ma attendibile, è quella di una colonia a Ischia, nel 775 avanti Cristo), i manuali scolastici dicono finalmente qualche cosa. Ma come potrebbero aver seguito l'incalzante susseguirsi delle scoperte e dei ritrovamenti? Sibari, che qualche anno fa non si conosceva neppure per ubicazione, è oggi ben individuata, e sta rivelando quasi per intero i suoi segreti. Metaponto, ricordata appena per il malinconico rudere delle Tavole Palatine, si vede ora nel suo sistema stradale e nei suoi principali edifici, grazie anche alle fotografie aree che hanno guidato il piccone degli archeologi, sulle esperienze di indagine dell'alto messe a punto da Dinu Adamesteanu. E Crotone, che si disperava di trovar mai, (quella antica, s'intende), è stata perfettamente localizzata dai rilevatori elettromagnetici della Fondazione Lerici, la stessa che ha rimesso al mondo, fra l'altro, la immensa necropoli etrusca di Cerveteri.
Ma non basta. A Oria, a Cavallino, a Leuca, gli scavi fanno riemergere altrettanti centri abitati della prima colonizzazione greca, i quali dimostrano una verità basilare e tuttavia fino a questo momento misconosciuta: l'estrema punta della Puglia, il Salento, come dicevamo, è - per evidenti scoperte, oltre che per legge geografica e storica - la più antica area di approdo dei coloni greci. Ma i nomi di Oria, di Cavallino, di Leuca, si trovano forse nei libri scolastici? C'è Taranto, invece, la cui importanza indubbia ha creato la falsa impressione che qui fossero i primi approdi (discorso valido semmai per lo Scoglio del Tonno), e che verso il Salento i Greci fossero andati solo dopo.
Dei bronzi di Riace, per buona sorte, si è occupata - parecchio, bisogna riconoscere - la stampa. Che cosa ci rivelano sulla presenza greca le coste calabresi? A nostro avviso, la rivelazione è in realtà quella delle rapine effettuate più tardi dai Romani in Grecia e dei naufragi a cui qualche nave da carico andò incontro. Ma resta il problema di sapere, con le ricerche già inziate, quanto ancora giace nei fondali marini, qui e altrove. Anche per prevenire altri saccheggi, oltre quelli che da secoli, si può dire, hanno scritto la storia oscura dei "tombaroli".
Un'altra novità è la presenza greca largamente attestata non solo nel Sud, ma anche nel Centro della penisola. Chi ha visto in una non lontana mostra a Roma le statue di terracotta scoperte a Lavinio (e chi non le ha viste non le vedrà per molto tempo, dato che un museo archeologico del Lazio Antico resta ancora da fare), si sarà accorto di quanto viva e dominante sia stata l'ispirazione greca. Del resto, a Roma stessa, nell'area sacra di Sant'Omobono, è stato recentemente scoperto un ampio deposito di vasi greci. Nelle origini di Roma, dunque, gli Etruschi c'entrano ormai di meno, e i Greci di più. Altro capitolo da riscrivere, quello riguardante i Fenici e i Cartaginesi. Questa è davvero una storia ignorata dai nostri testi ufficiali, eccezion fatta per le brevi notizie date a premessa delle guerre puniche. Con tutta una serie di scavi e di ricognizioni, tuttora in corso, abbiamo infatti dimostrato che la penetrazione fenicia prima e cartaginese in seguito, muovendo da ben munite piazzeforti africane (anche queste da noi scoperte sul Capo Bon), giunse a irradiarsi sulla Sicilia occidentale e su tutta la Sardegna, imponendovi durevolmente il proprio dominio per il controllo del Mediterraneo.
Si aggiunga che ormai conosciamo per certo la presenza di coloni fenici a Ischia (Pithaecusa), intorno all'VIII secolo avanti Cristo; e che intorno al 500 avanti Cristo i Cartaginesi erano così potenti a Cerveteri da indurre un re locale a scrivere su lamine d'oro una dedica votiva alla loro dea, Astarte, in punico e in estrusco. Era dunque ben concreta e vicina la loro minaccia, quando Roma si decise a muover guerra: gli autori dei libri di testo avranno così la possibilità di dimostrare il fondamento di un noto episodio, quello di Catone che si presenta in Senato mostrando i fichi freschi venuti da Cartagine, per indicare la vicinanza della minaccia.
Ma dire "presenza cartagine" è ancora dir poco. Il fatto straordinario è che tale presenza viene documentata da una produzione artigianale e artistica quanto mai ricca e varia. Oltre mille stele figurate con immagini umane e divine sono riemerse a Mozia, in Sicilia, dal luogo sacro in cui si effettuava il famigerato sacrificio dei fanciulli, su cui gli autori greci e romani ci intrattengono abbondantemente per compiacersi dell'altrui crudeltà, magari facendo passare in quart'ordine la propria. Centinaia di figurine votive sono state scoperte a Bitia, in Sardegna. E soprattutto migliaia di splendidi gioielli, che farebbero bella figura nelle vetrine di un gioielliere moderno, provengono da Tharros.
Le scoperte si sono verificate non solo sul terreno, ma anche nei depositi dei musei, dove pregevolissime opere d'arte attendevano ancora chi le studiasse, le catalogasse, e le pubblicasse. "Scavi in museo", siamo soliti dire, un po' per scherzo e un po' sul serio: noi li abbiamo fatti specialmente in Sardegna, altri nell'Italia continentale, con punte di particolare successo in Basilicata.
Ma torniamo agli Etruschi. Su questo popolo, apparentemente molto noto, fantasia e luoghi comuni hanno gettato un velo di artificioso "mistero", che persiste fino ai nostri giorni. Ma ora, finalmente, si cominciano a diradare molte nebbie. Intanto, si scoprono le loro città: valga anzitutto l'esempio di Mantova, dove sono state annunciate da poco tempo sensazionali scoperte. Ma ci sono altre sorprese, a partire da Volterra, su cui ha gettato luce una riuscitissima mostra (frutto di altrettanto riusciti scavi). Un grande circuito di mura individuato nella sua totalità e un'acropoli con santuari dai quali provengono pregevolissime sculture fanno giustizia, una volta per tutte, del curioso pregiudizio per cui non conosceremmo le città etrusche. Solo che, per conoscerle, è quanto meno necessario cercarle. E scavare.
Un caso analogo è quello di Siena, dove altre ricerche recenti hanno documentato per la prima volta le tracce della presenza etrusca. Ma la grande novità dell'area senese è la scoperta a Murlo, venti chilometri a sud della città, di un grande edificio del VI secolo avanti Cristo, con splendide terrecotte architettoniche ad immagini umane e animali, che svelano precisi rapporti artistici col Vicino Oriente. Si pensava in un primo tempo che fosse un santuario (sempre l'idea degli Etruschi religiosissimi!): ora si dimostra che fu una residenza dinastica, insomma il palazzo di qualche signore del tempo.
Altra novità: Populonia. Questo grande centro minerario per la lavorazione del ferro, che fu tale in età antica non meno che in quella moderna, tanto da meritare il nome di "Pittsburg degli Etruschi", era finora noto soprattutto per le sue necropoli. Ora gli scavi pongono in luce il quartiere industriale, con abitazioni e con manifatture. Si sono trovati forni, nei quali si fondeva il ferro proveniente nell'antistante Isola d'Elba. E sappiamo anche chi erano gli artigiani, perché ci hanno lasciato i loro nomi incisi su vasi: appartenevano in parte alla classe servile e per altra parte erano stranieri, venuti a insegnare l'arte della Grecia.
Consideriamo ora il caso di un abitato di cui è accertata la presenza, ma che resta da scavare. La celebre Tarquinia era nota in passato soltanto dalle tombe. Ma la fondazione Lerici ha ripetuto qui il miracolo di Crotone, localizzando con i rilevatori elettromagnetici l'antica città sul vicino colle della Civita (un nome non certo casuale).Si vedono le strade, gli edifici pubblici e privati. E tutto questo, senza un solo colpo di piccone! C'è, del resto, una conferma significativa. Alcuni edifici termali romani erano stati localizzati in passato nell'area. Poi erano stati ricoperti. Ora, i rilevatori li hanno perfettamente ridisegnati.
Per concludere su questo popolo, faremmo una concessione agli appassionati di tombe. Ce n'è un genere spettacolare, e tuttavia poco noto, finora, che si sta ponendo in luce: si tratta delle necropoli rupestri, disseminate nei valloni tufacei dell'Alto Lazio, da San Giuliano a Blera, da Norchia a Castel d'Asso. Una rilevazione sistematica in corso dimostra quanto vaste e imponenti fossero queste necropoli, caratterizzate da tombe che sporgono a rilievo dalle pareti: porte maestose per l'ingresso nell'aldilà, anche se false porte, perché i defunti erano sepolti in più modesti vani laterali.
Ora, i grandi padri Italici. Sotto il nome di Italici siamo soliti comprendere le varie genti indigene con le quali i Romani vennero a contatto. Tale contatto è vero, e scandisce la storia di Roma; ma altro è il riconoscerlo, altro è limitarsi sostanzialmente a dare notizia di quelle genti in base ai dati che gli scrittori romani ci forniscono. La grande novità del nostro tempo è la riscoperta delle testimonianze dirette delle loro autonome e spesso floride civiltà.
Sicani e Siculi, Lucani e Bruzii, Japigi e Calabri, Sanniti e Volsci, Piceni e Umbri, Veneti e Liguri: questi e altri nomi sono citati quando l'incontro con i Romani lo richiede, e solo in funzione di tale incontro. Tutto questo non è più possibile. Non si può più ignorare che i Messapi furono un popolo civile quanto gli Etruschi, con una lingua non ancora "decifrata", con ricco artigianato, con arte sviluppata, con contatti con i popoli mediterranei floridi e stabili. Roma penetrò nel Sud della penisola solo dopo avere sconfitto, in guerre terribili, i civilissimi Sanniti. Bruzii e Lucani ebbero una storia autonoma, e delle loro discordie e guerre civili approfittò Roma, avviando la conquista. Popoli eccentrici rispetto a Roma, si potrà dire. Ma poichè le scoperte sugli Italici si inseriscono naturalmente nel quadro delle regioni antiche, che in larga misura prefigurano quelle attuali, il discorso relativo verrà meglio a proposito dell'Italia regionale: una realtà centrale del nostro paese, che condiziona la nostra storia attraverso i millenni.
Dunque, parliamo di Corfinio, un piccolo centro abitato presso Sulmona. Un paesino abruzzese vuoto e silenzioso. Senza gli uomini di oggi, senza la loro voce, è più agevole rievocare l'immagine della gloria antica, che pochi conoscono, e che pochi conoscono, e che pure è determinante per la nostra storia. Perché qui, proprio qui, ebbe il suo centro la lega delle genti della penisola che, nel 91 avanti Cristo, si sollevarono contro Roma. E Corfinio coniò delle monete, indicando in esse, per la prima volta, nel senso politico del termine, il nome "Italia".
Che il concetto politico di Italia, sia nato solo nel 91 avanti Cristo, neppure riguardando tutta la penisola, fa riflettere. Non meno fa riflettere il fatto che anche in senso etnico e geografico il nome non sia antico né di vasta estensione: comincia ad essere attestato dal V secolo prima di Cristo, con riferimento a piccoli gruppi della Calabria; poi sale pian piano con gli sviluppi della storia. Insomma, non c'è dubbio che l'Italia come noi la intendiamo l'hanno fatta i Romani, conquistando e unificando la penisola. Ma prima, nei millenni che hanno preceduto questo evento, qual era la situazione? Ebbene, le regioni sono senza dubbio il determinatore primario del nostro passato. Appunto con i nomi di esse e dei loro popoli la penisola emerge alla luce della storia: non sono certo ovunque gli stessi di oggi, ma la coincidenza è notevole, maggiore di quella che a tanti anni di distanza si sarebbe potuta immaginare. Si aggiunga, e questo è essenziale, che le scoperte archeologiche più recenti danno a tali nomi una consistenza di realtà e di civiltà basilare. Ma va detto anche che i Romani stessi intesero bene questo stato di cose, tanto che Augusto organizzò l'Italia in regioni, i cui nomi e i cui confini sono per tutti noi illuminanti.
Ricordiamola per un momento, quest'articolazione augustea: ci sono già, anche se con qualche differenza di estensione, la Liguria e le Venezie, l'Emilia e l'Umbria, il Lazio e la Campania, la Puglia e la Lucania. Non sono ancora inquadrate nel sistema, ma hanno già piena autonomia, la Sardegna e la Sicilia. Certo, le differenze non mancano: c'è la Transpadana, non ancora il Piemonte e la Lombardia; l'Etruria occupa (e supera) lo spazio della futura Toscana; il Piceno anticipa le Marche, il Sannio anticipa l'Abruzzo e il Molise. Insomma, deve ancora venire il Medio Evo, che completerà e modificherà l'assetto regionale. Ma questo esiste, e come!
Liguria. Vediamo la consistenza delle remote civiltà alla luce delle più recenti scoperte. Consideriamo gli esempi più significativi e cominciamo dalla Liguria, dove sono riemerse città antiche e fiorenti, da Chiavari di cui si è scoperta la necropoli dell'VIII secolo a. C., a Genova di cui sono riaffiorate le case del VI secolo. Ritroviamo le fortezze interne nei "castellari", collocati sulle alture strategiche. Scopriamo un'arte enigmatica e monumentale nelle statue-stele della Lunigiana, finalmente raccolte nel nuovo museo di Pontremoli: una visita da non perdere.
Venezie. Conoscevamo da tempo la civiltà di Este, con la sua straordinaria capacità di lavorare il bronzo in figurine e in vasi riccamente ornati; ma sembrava un fenomeno locale, isolato. Oggi un'analoga produzione d'arte riemerge in altre località variamente collocate, da Montebelluna a Lagole nel Cadore; ma soprattutto si rivela la più antica Padova, che a partire dell'VIII secolo sviluppa un'arte fiorente, anch'essa nei bronzi, e poi nelle stele figurate. Che cosa indicano tutte queste scoperte se non un denominatore non più cittadino ma regionale, una civiltà che può definirsi come quella degli antichi Veneti?
Lazio. Pareva la civiltà di un solo e grande centro, Roma. Oggi, invece, è un fiorire di scoperte che illuminano una serie di abitato intorno a quella che sarà poi la capitale; abitati non inferiori, quando compaiono inizialmente (intorno all'VIII secolo a.C.), a Roma che nasce più o meno nello stesso tempo; abitati che Roma sottometterà poi a uno a uno, ma che ciò nondimeno si qualificano per una civiltà rigogliosa. L'esempio più evidente è Lavinio, di cui la recente mostra ha rivelato l'arte, specie nelle grandi statue. Né mancano le rivelazioni che si legano alle più suggestive leggende: sono state appena riscoperte Antenne e Crustumerio, le città sabine, alle quali i Romani rubarono le future mogli.
Marche. La regione non si chiamava così, ma, lo abbiamo detto, corrispondeva approssimativamente all'antico Piceno. Opere d'arte scultorea, come una testa di guerriero di Numana, e alcune stele incise da Novilara, insieme a cospicui oggetti ornamentali in bronzo e in ferro, prefiguravano la capacità artigianale e l'alto livello di vita dei suoi abitanti. Oggi una serie di nuove scoperte, tra cui spiccano gli avori figurati di Pitino (presso San Severino Marche), mostrano un ricco orizzonte culturale che si collega all'Oriente per la via, sempre più rilevatrice, del commercio adriatico.
Abruzzo e Molise. Fino ad alcuni anni fa, una splendida opera scultorea, il guerriero di Capestrano, spiccava quasi isolata a indicare le capacità artistiche dei Sanniti. Oggi una serie di scoperte in varie necropoli, tra le quali emerge Campovalano, presso Teramo, rivelano un'arte quanto mai ricca e articolata, centrata su due generi di produzione: gli ornamenti e le armi. Si aggiungano le ceramiche figurate, spesso in forme umane di elegante stilizzazione. Tutta quest'arte può essere visitata in un museo modello di recente sistemazione, quello archeologico di Chieti.
Basilicata. Specialmente nell'area di Melfi, ma anche altrove, le ricerche nei depositi dei musei e sul terreno hanno riportato alla luce ricche necropoli, donde sono riemerse opere d'arte lavorate in bronzo (armi e oggetti vari), ceramiche figurate, ambre in forma umana di altissimi pregio: i nuovi musei di Melfi, di Potenza e di Policoro consentono di ammirare quest'arte. Ma la novità maggiore sui Lucani è costituita dalle pitture funerarie scoperte a Paestum, nell'attuale Campania, risalenti all'epoca dell'occupazione lucana nella zona. Centinaia di lastre dipinte, oggi conservate e ben esposte in un apposito museo locale, raffigurano la vita nell'aldilà, affiancandosi alle testimonianze di Tarquinia nel rivelare la nascita della pittura in Italia.
Puglia. La grande novità di questa regione sono le stele del Gargano, alcune migliaia di lapidi in pietra, intere o frammentarie, sulle quali ignoti artisti riprodussero a incisione, con originale schematicità, le scene dell'esistenza ultraterrena: dalla guerra alle cerimonie religiose, dalla caccia alla pesca, dai banchetti all'amore, con una quantità di esseri mostruosi e fantastici, come si conviene a un mondo che non è il nostro. La datazione va al VII-VI secolo a.C., quando l'influenza greca era già diffusa; ma qui non sembra affatto giunta, tant'è che si presuppone un'autonomia dell'arte garganica quasi assoluta. A Sud dalla penisola pugliese, l'arte messapica continuo a rivelare i suoi tesori, in parte dispersi per le rapine degli scavatori clandestini: il mercato sotterraneo dei reperti messapici è fiorente in tutta la penisola.
Sicilia e Sardegna. La conoscenza delle nostre isole nell'epoca che precede o fiaccheggia l'occupazione greca e fenicio-punica si arricchisce giorno per giorno. In Sicilia riemerge con i luoghi di culto, la ceramia e le iscrizioni la gente enigmatica degli Elimi, vissuti all'estremità occidentale dell'isola. In Sardegna la civiltà dei nuraghi, caratterizzata dalle torri e dai bronzetti, si è arricchita recentemente di grandi statue in pietra scoperte a Monti Prama, presso Oristano.
Dal rapidissimo, e ovviamente incompleto, panorama delle più recenti scoperte fin qui condotto, emerge con chiarezza la grande quantità e l'elevata qualità dei nuovi dati che si acquisiscono sulle singole regioni: dati che, senza esaurire ciascuno tutta l'area relativa, sono peraltro caratterizzanti, perché rivelano elevate culture a denominatore più vasto delle città. Quando si considera che l'unificazione romana è un fatto temporaneo rispetto al lunghissimo corso delle autonomie, si giunge alla conclusione che le regioni sono davvero una condizione essenziale della nostra storia.
Passiamo ora ad altre scoperte, rivelatrici per la nostra storia.
La scoperta di Sora è tanto recente quanto straordinaria. Mentre la cittadina moderna si raccoglie ai piedi della montagna, le mura antiche si irradiano a ben più vasto raggio, girano intorno alla vetta e la includono. Sono fatte di grandi blocchi sovrapposti, che affiorano in più punti, sì da consentire la ricostruzione dell'intero circuito. Ma un circuito così ampio, così grandioso, che cosa significa? Forse anche la città era altrettanto ampia, sì da superare di molto quella attuale?
Basta con i punti interrogativi, occorre rispondere. Ma per rispondere, si deve prima dire quanto torna di prepotenza alla memoria, cioè che questo fenomeno non è isolato. Nella regione circostante, anzitutto: la Ciociaria ha vari casi di tal genere, e per farmene un'idea basta una visita, per esempio, alla vicina Arpino. Il caso è chiarissimo: vi sono due colli vicini, la Civita Falconiera e la Civita Vecchia; l'abitato è insediato sulla prima, le mura antiche inglobano l'una e l'altra con un circuito vastissimo.
Ma il fenomeno è ancora più diffuso, e una serie di scoperte recenti sta a confermarlo. Nel Molise, una grande cinta muraria protegge il Monte Vairano, presso l'attuale Campobasso; e un'altra sta venendo in luce a Pescalanciano, sul corso di un grande tratturo antico e moderno. In Puglia, Arpi, Salapia, Lucera, Canosa, e altre località rivelano cinte amplissime, che superano di molto quelle delle città attuali: le mura dell'antica Arpi si estendono per tredici chilometri, laddove ad esempio il perimetro dell'odierna Foggia è appena di sette.
Una vasta area dell'Italia centromeridionale (ma qualche indizio non esclude casi al Settentrione), con prevalenza nelle zone interne, e montuose, è dunque interessata dal fenomeno. Ciò vuoi dire che si tratta di un fatto generale dell'Italia antica, di un problema basilare per comprenderne la storia: quello della concezione della città, o almeno di un certo tipo di città. Ora possiamo tornare agli interrogativi e chiederci in primo luogo se sia valida l'ipotesi più semplice, anche se non agevole: quella che le città antiche fossero più grandi delle città moderne.
No, questo non è vero. E basta a dimostrarlo il fatto che, se così fosse, la ricognizione e i sondaggi di scavo mostrerebbero tracce di abitazioni su tutta l'area recintata dalle mura. Poiché questo non è, poiché vi sono vaste zone di terreno vergine, la spiegazione dev'essere un'altra, cioè una concezione della città diversa, diversa dalla nostra. La cinta muraria doveva includere, per volontà di coloro che la costruirono, non solo l'abitato vero e proprio, ma anche i terreni a coltura agricola e a pascolo che ne dipendevano. Nei momenti di pericolo, confluivano dentro le mura, per trovarvi difesa, anche i contadini e i pastori, con il patrimonio armentizio a cui era legata in gran parte la sopravvivenza delle comunità.
Chi e quando costruì le possenti cinte murarie! In Ciociaria si parla di "città ciclopiche"; e non a torto, per quanto attiene alle dimensioni delle mura, che appaiono davvero maestose nei blocchi che le compongono, tanto imponenti da far pensare che, a tagliarli e a trasportarli, dovessero essere stati i giganteschi Ciclopi. Ma poiché tutti sanno che i Ciclopi sono esseri favolosi, ecco fiorire l'ipotesi dei Pelasgi.
Niente ciclopi, niente Pelasgi. L'indagine archeologica fa giustizia di queste teorie, dimostrando che le mura sono abbastanza recenti, risalgono per lo più al IV-III secolo avanti Cristo. Ma allora: chi le costruì, e per quale ragione? Siamo al tempo dell'irradiazione di Roma nelle aree del Centro-Sud: l'ipotesi più ragionevole è che le cinte murarie fossero realizzate dalle popolazioni locali (Volsci, Sanniti, Dauni e altri ancora) per resistere alla pressione romana. In altre parole, un risultato, più che una premessa delle guerre che portarono da ultimo all'unificazione sotto Roma dell'Italia Cispadana.
Questa concezione delle antiche città della penisola italiana, appena riscoperta nella sua natura e nel suo significato, non è certamente esclusiva. Restano, ad esempio, i grandi centri portuali, (da Palermo a Cagliari, da Napoli a Genova), dove le mura servono a recintare l'abitato specialmente dalla parte interna, dal momento che da quella esterna c'è la difesa del mare. E restano anche i grandi centri fluviali (Roma ne è l'esempio maggiore) e quelli ai crocevia delle strade (Milano in primo luogo), dove le mura debbono racchiudere per intero l'abitato e non c'è interesse o convenienza ad estenderle oltre, perché la posizione in pianura non farebbe altro che, aumentare i rischi. Ma la lezione delle "città ciclopiche" (chiamiamole ancora così, perché il nome è molto espressivo) rimane un'acquisizione nuova ed essenziale, di straordinaria importanza per la piena comprensione della nostra storia e del nostro passato.
Si dice ancora oggi: la verità è in fondo al pozzo. L'adagio, per banale che sia, torna insistente alla memoria contemplando a Santa Cristina, presso Oristano, un capolavoro dell'antica architettura sorda, una tra le conquiste più recenti dell'archeologia. Nella frazioncina di Paulilatino, la sorgente profonda da cui sgorga l'acqua, portatrice di vita, fu circondato fin qui da quasi mille anni prima di Cristo con un duplice recinto: quello esterno circolare, quello interno a "toppa di chiave". Ma soprattutto, per arrivare al fondo del pozzo, fu costruita una scala a imbuto di perfetta fattura, con i gradini di pietra che si restringono scendendo.
A costo di screditarci, dobbiamo dire che questa scala, al primo vederla, ci è sembrata moderna per la sua perfezione. Ma poi ci siamo dovuti arrendere all'evidenza archeologica, ammirando l'opera degli antichi architetti. I quali, certo, diedero alla sorgente una grande importanza, ne fecero un luogo di culto verso cui dovevano convergere le genti delle vicinanze. Del resto, il santuario non restò isolato, ma tutt'intorno sorse un villaggio con le sue case, la sua torre, le sue mura di cinta. Quanto al culto delle acque, esso è evidente dai doni votivi ritrovati nel pozzo e all'intorno: figurine di bronzo, vasi di terracotta in forme di busti femminili, bracciali, anelli, lucerne, monete.
Si può comprendere che l'acqua fosse per le genti sarde uno strumento primario di vita, e quindi un oggetto di particolare venerazione. Lo testimoniano altri santuari analoghi in Sardegna, tra i quali citeremo almeno quello imponente di Santa Vittoria, a Serri. Ma solo in Sardegna?
Le scoperte degli ultimi tempi allargano il discorso, rivelano santuari delle acque in più punti della penisola, fanno di essi una caratteristica dominante. Per fornire alcuni esempi, trasferiamoci anzitutto in Basilicata, dove sulla montagna che sovrasta Potenza è stato scoperto un santuario del genere a Rossano di Vaglio.
L'edificio consta di un grande sagrato, al cui centro sorgeva un lungo altare, mentre ambienti sussidiari erano collocati sui fianchi. Così come ci appare, la costruzione è senza dubbio ispirata a modelli greci, sicché la datazione scende intorno al IV secolo a.C. Anche i doni votivi (specialmente le terrecotte figurate) sono in parte di quest'epoca; ma in parte la precedono, e dunque dimostrano che il culto era anteriore, quali che ne fossero (o non ne fossero) le strutture in vista. Su I l'attribuzione del luogo sacro v'è un'indicazione incontrovertibile, quella delle iscrizioni. Menzionano la Dea Mefite, specificamente legata al culto delle acque salutari. Non meno significativo è il fatto che la venerazione delle acque ha in questa zona una continuità millenaria, il cui ultimo esito è l'odierno culto della Madonna di Rossano e del suo santuario. In realtà, tutto suggerisce che nell'epoca antica, come in quella moderna, il luogo sacro fosse il punto di convergenza e d'incontro per le genti che venivano da tutta l'area circonvicina: un "santuario federale", dunque, un inizio di forma aggregativa che dal piano religioso non poteva non passare a quello politico.
Un'ampia serie di santuari delle acque è stata scoperta recentemente in un'altra regione d'Italia, il Lazio, e più precisamente in Ciociaria. I luoghi coincidono in parte con quelli delle "città ciclopiche"; ma i santuari non sono urbani, bensì rurali, segnano i punti di sosta lungo le vie dei pastori dalla montagna alla pianura. Italia dei tratturi: ecco un altro denominatore delle nuove ricerche, un'altra caratteristica di tanto parte del nostro Paese, che dovrà pur essere posta in luce!
Tra i santuari delle acque in Ciociaria citeremo almeno quello scoperto nei pressi di Casamari: è evidente che l'attuale abbazia ne continua in nuova forma l'antica funzione. Ovunque si trovano in gran numero i doni votivi lasciati dai fedeli, per lo più in terracotta: teste e busti, figurine umane e animali complete, parti del corpo come mani e piedi che indicano gli organi colpiti dai mali e risanati per l'intervento divino. Non mancano alcuni bronzetti e qualche moneta, preziosa per la datazione.
Questa deve collocarsi tra il IV e il I secolo a. C. Ed è significativa, perché indica che il materiale accompagna e segue, piuttosto che precedere, la penetrazione romana. Ciò è confermato dagli studi recenti sulla transumanza: essi mostrano, infatti, che il fenomeno si sviluppò su larga scala con la pace sociale portata da Roma. Ma la componente indigena della cultura non è per questo meno evidente: basta guardare i doni votivi per rendersi conto, ad esempio, nelle teste e nei busti, di quanto le connotazioni locali abbiano viva parte.
Dalla Sardegna alla Lucania, al Lazio. Le nuove scoperte si affiancano ad altre già note, ma non per questo meno rilevanti. Valga per tutti l'esempio di Reitia, dea delle acque, con un santuario rinvenuto presso Este, nel Veneto, con un corredo straordinario di bronzetti figurati che vi furono deposti in dono. E non è forse vero che le acque salutari sono una caratteristica di questa zona, fino alle attuali terme di Abano? Così, la riscoperta del passato illumina il presente. Ma quanto rimane ancora da scoprire nelle diverse aree della penisola? Un calcolo puramente quantitativo è impossibile. Stando alle sole fonti classiche, ci sono decine di città, di centri abitati da riportare alla luce: da quelli liguri a quelli illirico-veneti, degli Etruschi, dei Volsci, dei Sanniti, dei Piceni, dei Calabro-Bruzii, dei Lucani, dei Peuceti-Dauni, degli Irpini, dei Messapi, dei popoli indigeni e dei colonizzatori delle isole, anche minori, dall'Elba alle Eolie.
Si sta cercando dappertutto, e ne sono testimonianza le scoperte o le riscoperte di cui abbiamo parlato, e altre che per tirannia di spazio non possiamo descrivere. Ma di alcune cose possiamo dar notizia. Ad esempio, di recente, sulla Maiella, lungo un costone roccioso a circa ottocento metri di altitudine, è stata localizzato una grossa serie di pitture rupestri: guerrieri a cavallo e a piedi (con in testa un elmo di fattura italica, sormontato da un altissimo pennacchio), un'imbarcazione, un serpente, arnesi da caccia, e poi labirinti, altri simboli non facilmente decifrabili, pittogrammi, il tutto per la bella estensione di un centinaio di metri, tracciato con una sorta di matitone primitivo. Se i pittogrammi risultassero proprio dei nostri progenitori appenninici, (le uniche manifestazioni d'arte rupestre conosciute fino a poco fa in Abruzzo erano quelle di Pacentro), la scoperta sarebbe di quelle che fanno scalpore nel mondo. E i dubbi sull'autenticità sono ridotti a zero. Ci troviamo di fronte a manifestazioni analoghe a quelle della Valcamonica e di Porto Badisco, tanto per intenderci. Qui, le figure si susseguono l'una all'altra, come in un gigantesco murale, e corrono ad altezza d'uomo normale lungo tutta la parete rocciosa, che è di pietra rosa, liscia e delicata come carta; si cammina come per la gradinata di uno stadio, sulla quale pendono protesi gli spuntoni che determinano contro il cielo la cresta della montagna. Siamo tra le alte solitudini abruzzesi, in una gola severa, in fondo alla quale scorre il fiume Orto, sommerso nel verde. Unica traccia di vita animale, i falchi che s'incurvano verso la non lontana cima del Morrone. Questo è luogo di eremiti, e da questi silenzi non riuscì a separarsi Celestino quinto. Anche l'uomo della preistoria era un eremita. Qui ci si sente al sicuro e si domina il paesaggio. Nessuno avrebbe osato avventurarsi nell'angusta valle, dove al tramonto si possono ancora sorprendere i cervi all'abbeverata; sembra impossibile che potessero inoltrarvisi l'elefante o il mammut, e il cavallo era forse il ricordo di una migrazione indoeuropea. L'età? Tra i secoli del ferro, dicono; forse anche del bronzo. Un sottile velo stalagmitico copre queste figure. Sapremo la verità dopo l'esame al carbonio.
Passiamo in Molise. Quello che viene comunemente definito l'antenato d'Europa, l'Homo Aeserniensis del quale i paleontologi hanno sinora trovato numerose tracce indirette, ma non un teschio, non un frammento, tra i materiali di scavo della "Pineta" di Isernia ha ormai conquistato fama internazionale. Un calco ricavato da paleosuolo su cui sorgeva il villaggio neolitico scoperto per caso tra il '78 e il '79 sotto un terrapieno della nuova superstrada Napoli-Vasto, è finito addirittura al Museo dell'Uomo, di Parigi. E sul cacciatore misterioso, vissuto ai margini d'un fiume sconosciuto, sparito negli abissi del tempo, forse un milione di anni fa, è stato scritto addirittura un libro, quello di Natalino Paone "L'antenato d'Europa", Rufus-Campobasso, nel quale si narra, in tre lingue e con l'aiuto di grafici e di fotografie, la straordinaria vicenda.
Tutto ebbe inizio quando, nel corso di scavi alla periferia di Isernia, emersero fra le lame delle ruspe certe insolite forme somiglianti a crani pietrificanti di bisonte e a zanne di elefante. I lavoratori di sterro furono interrotti, giunsero tecnici e studiosi, si cominciò a studiare l'area. Fu così individuato addirittura il pavimento di una capanna preistorica composta di teschi di bisonti e di resti di altri animali. Se ne parlò a lungo, poi venne il silenzio. Perché gli studi specifici comportano sempre lavori di lungo termine, ma soprattutto perché il "giacimento" di Isernia e di ben ventiquattromila metri quadrati, e finora si è esplorata solo una minima parte, intorno a duecento metri quadrati, in due successive compagne di scavo. Si tratta di una vera e propria staffetta archeologica, che però finora ha dato risultati sorprendenti. Ecco i principali: il villaggio paleolitico sorgeva presso le rive di un fiume, in un paesaggio che, secondo le analisi del polline, doveva essere "a morfologia dolce", privo cioè di alberi di alto fusto o di grossi ostacoli nel terreno. L'assetto dell'area era qualcosa di mezzo tra le odierne savana e steppa. Il fiume non aveva degli argini precisi, ma nel suo scorrere creava, con le anse, ampie pozze d'acqua e piccole isole. Qui si aggiravano gli animali che costituivano l'obiettivo della caccia della tribù: ippopotami, bisonti, orsi, rinoceronti, qualche cervo. I cacciatori (l'Homo Aeserniensis doveva essere alto tra un metro e mezzo e un metro e sessanta centimetri) avevano stabilito il loro insediamento ai margini della zona umida. Conoscevano il fuoco (tra il materiale repertato c'è anche qualche traccia di argilla con segni di fiamma), sapevano lavorare la pietra e ricavarne strumenti ed utensili, avevano costituito una rudimentale organizzazione sociale. C'era anche una specie di officina artigianale, nella quale si lavoravano e si conservavano gli attrezzi (e ne sono stati rinvenuti in grande quantità, pietre di fiume scheggiate dalla mano dell'uomo), casi che, in caso di necessità, ci si potesse rifornire. E avevano costruito capanne.
Quella con il pavimento di techi di bisonte e ossa grandi di altri animali, aveva le pareti costituite da zanne di elefante infisse al suolo; il tetto doveva essere costituito da fasci di frasche.
Tutto ciò fa pensare a uno stadio di vita organizzata avanzato. La stessa attività di caccia, fondamentalmente nel Paleolitico, era condotta secondo criteri particolari, in quanto è stata accertata, ad esempio, la presenza di "depositi" di ossa, conservate per un certo scopo, e di "immondezzai" per frammenti non necessari alla tribù.
La comunità non aveva vita agevole. Il fiume di tanto in tanto e sondava, (e sono stati registrati nel terreno due strati corrispondenti e altrettante invasioni di sabbia e di limo). In una delle inondazioni, probabilmente mentre la tribù era altrove, impegnata a seguire una mandria, dovette verificarsi un'alluvione disastrosa: il villaggio venne travolto dai detriti. Le sabbie (tutto è "scritto" tra le pieghe rossastre del terreno finora esplorato) seppellirono l'insediamento. La tribù fu costretta a trasferirsi verso Nord. E alla Pineta tutto giace sotto strati di terra, mentre il fiume si è aperto lentamente un altro corso, all'ombra dell'antico vulcano di Rocca Morfina, dal quale piovevano ceneri. Per un milione di anni.

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