Sono
vent'anni che è finito il concilio. C'ero anch'io in quella già
rigida mattinata dell'8 dicembre 1965, alla cerimonia conclusiva, presieduta
da Paolo VI, il più grande papa dell'età moderna, con
un mare di gente e i duemila padri sotto un cielo nervoso, dove il sole
faceva fatica a vincerla sulle nuvole gonfie e resistenti; un cielo
che può essere preso a simbolo della vita del concilio e del
postconcilio, dove la crescita reale, incommensurabile, ha dovuto fare
i conti con resistenze e passività quasi incredibili. Ho ripreso
in mano i testi; hanno il sapore di cose nuove, mai udite e sono passati
solo vent'anni. Questi silenzi e queste lacune, pur nell'ossequio nominale,
fanno parte di quello che ho deciso di chiamare delitti della memoria.
L'azione e la crescita c'è stata, la storia degli effetti non
è mancata, si colgono stati adulti delle comunità soprattutto
nella coscienza dei laici e dell'appartenenza dell'autorità alla
comunità, ma rimane il rammarico di questa memoria pigra. Per
questo, intendo riprendere in considerazione alcuni punti che mi paiono
perennemente orientatori e che sembrano i più perduti nella coscienza,
anche se i più necessari alla crescita della società ecclesiale
e civile.
Inizio dal tema della libertà religiosa, il documento (ha nome
dalle prime parole Dignitatis humanae) più sofferto e contrastato,
iniziato a discutere il 20 novembre 1963 e promulgato proprio il giorno
prima della conclusione (7 dicembre 1965). Che vuoi dire libertà
religiosa?
Riducendo tutto all'osso direi: libertà religiosa vuoi dire che
nessun potere esterno o di singoli o di gruppi o di qualsiasi autorità
umana deve porre impedimenti al libero esercizio della vita religiosa.
E, nel suo versante positivo, vuol dire che ogni uomo ha il diritto,
e il dovere, di seguire la sua coscienza religiosa, seria, sofferta,
pensata, maturata e tenuta in onesta tensione verso la verità.
Un diritto da mantenere "entro debiti limiti" fissati dalla
morale comune e dalla stessa legge penale (n. 2). Non potrei consentirti
una libertà religiosa se questa comandasse, per esempio, l'uccisione
degli altri oppure la frenesia sensuale oppure il non soccorso medico.
I fondamenti per tale diritto: 1° "la dignità della
persona umana", che è la punta di diamante del creato; 2°
(questo è molto bello) il fatto "che nella società
va rispettata la norma secondo la quale agli esseri umani va riconosciuto
la libertà più ampia possibile" (n. 7).
Ma il fondamento di ogni fondamento è l'esempio di Gesù.
Dice il Concilio: "Cristo che è Maestro e Signore nostro
(Gv 13,13), mite e umile di cuore (Mt 11,29), ha invitato e attratto
i discepoli pazientemente" (cf. Mt 11, 28-29). "Conoscendo
che la zizzania è stata seminata con il grano, comandò
di lasciarli crescere tutti e due fino alla messe che avverrà
alla fine del tempo". "Non volendo essere un Messia politico
e dominare con la forza (Mt4, 8-10) preferì essere chiamato figlio
dell'Uomo che viene 'per servire e dare la sua vita in redenzione di
molti' (Mt 20, 28)" (n. 11). Molto diverso in questo dai "capi
delle nazioni", che "dominano su di esse" e dai grandi
che "esercitano su loro il potere".
L'icona
Voglio parlare oggi di un altro grande valore sostenuto dal Concilio
e preparato da "grandi cristiani" delle varie confessioni.
Il nome lo dirò alla fine; per ora vorrei introdurlo con qualche
ricordo personale. Leggendo e frequentando insonnemente gli scritti
dei due grandi russi, interpreti e continuatori di Gesù, Dostoevskij
e Tolstoj, mi sono molte volte incontrato coll'onnipresenza dell'icona
come aurea manifestazione, e non semplicemente simbolo, della presenza
di Dio. Florenskij, ha parlato delle icone come di "porte regali",
come dire aperture da cui passa e si rende prossima la manifestazione
di Dio. In ogni casa, in ogni isba c'è l'angolo delle icone.
Chiunque entra, in segno di pace con chi lo riceve, cerca con lo sguardo
l'angolo delle icone, vi si rivolge, le guarda e le saluta, poi sarà
tutto più facile per il contatto con gli altri, purificato
e tutelato da questa presenza discreta, doppiamente fiammeggiante
per la luce di Dio che l'investe, e i fondi dorati esaltano la cosa,
e per le tremule fiammelle accese dalle mani della gente. Chi potrà
dimenticare la grande icona di Rublèv che rappresenta la Trinità
angelica? Negli stessi romanzi e racconti ti colpisce la figura del
pellegrino, solo apparentemente vagabondo, ma in realtà spirito
libero che il territorio russo sconfinato sottrae ai poteri e alle
loro violenze, sia ecclesiastiche che civili. Chi potrà dimenticare
il Grisa dell'infanzia di Tolstoj? Sentite come il grande scrittore
se ne accomiata: "Molta acqua è passata da quel tempo,
molti ricordi hanno perduto per me il loro significato e sono diventati
visioni confuse; anche Grisa, il vagabondo, da un pezzo ha terminato
il suo ultimo viaggio; ma l'impressione che egli mi fece e che risvegliò
in me, non moriranno mai nella mia memoria. O Grisa, grande cristiano!
La tua fede era così forte che tu sentivi la vicinanza di Dio,
il tuo amore era così grande, che le parole fluivano spontanee
dalle tue labbra; tu non le affidavi al ragionamento ... " (cap.
12).
Stando una domenica nel cuore di Sofia, dopo aver visto dalla finestra
il pallido rito di migliaia di bimbi in ginocchio attorno al sacrario
del partigiano, entrai nella cattedrale ortodossa: che potenza d'organo
e di corale, che sfulgerìo dalla parete delle icone, che ieratica
fierezza negli archimandriti e, l'ispida faccia dei diaconi turibolanti:
una liturgia che durava ore, ma che ti entrava nel segno del servizio
divino! Non sono che tenui aspetti della grande confessione ortodossa,
cui anche il concilio riconosce questi meriti, e altri come il monachesimo,
la teologia prodotta quasi sempre da laici, e la trasparenza teologica
dei segni.
Ero solito fare la Pasqua ortodossa a Corfù; cade una settimana
dopo la nostra. Una volta potei viverla in una famiglia amica. All'alba,
l'incontro con ogni persona della casa avvenne con il saluto Christòs
anèsti, Cristo è risorto, mentre si toccavano e quindi
schiacciavano sbattute fra di loro due uova sode tutte dipinte di
rosso.
L'avete capito, parlo di una grande confessione cristiana, e della
linea ecumenica, che la vuole riconoscere, onorare, metterne in risalto
gli aspetti positivi, e lasciar cadere incomprensioni storiche e sviamenti
linguistici che scavano solchi più del necessario. Il documento
conciliare sull'ecumenismo che si intitola Unitatis redintegratio
ha scritto queste importanti parole, che sono un reale tributo alla
munificenza di Dio e alla sconfinata ricchezza della sua rivelazione:
"Non fa meraviglia, è detto, che alcuni aspetti del mistero
siano talvolta percepiti in modo più adatto e posti in miglior
luce" nelle confessioni non cattoliche. Questo non vale solo
per la grande confessione ortodossa, la più vicina alla confessione
cattolica, ma anche per la confessione protestante.
In principio
era la Parola...
Davvero non è piccolo il riconoscimento che il Vaticano Il
riserva alla confessione evangelica, detta nel linguaggio comune protestante.
A essa, come alla confessione ortodossa, si rivolge il movimento ecumenico
perché la comune appartenenza alla sequela di Cristo e al riconoscimento
del Kerygma riassorbe nell'unità sostanziale quelle divisioni
che storia e costume hanno inciso più di quanto la lettera
e lo spirito delle dottrine comporti. Il concilio ha impresso un grande
ottimismo militante a questo movimento ecumenico, ora impigliato tra
le rete della risacca, tanto che lo stesso papa Giovanni Paolo Il
ha denunciato la "minaccia" del "disfattismo"
e ha chiesto di condurlo coraggiosamente avanti "senza sfiducia
e senza esitazioni e ritardi" (Reconciliatio et paenitentia,
n. 25). Il concilio ha introdotto la bella dizione di "fratelli
separati" al posto di quelle infamanti delle guerre di religione,
non ancora del tutto scomparse dalla faccia della terra; e ha riconosciuto
che anche presso questi fratelli separati, l'amore per Cristo e per
il suo vangelo ha raggiunto i gradi eroici del martirio.
Il non piccolo riconoscimento conciliare è questo: "l'amore
e la venerazione e quasi il culto della sacra Scrittura conduce i
nostri fratelli al costante e diligente studio della sacra Scrittura"
(Unitatis Redintegratio, n. 4).In questa esperienza di fede cristiana,
diventa davvero il primo assoluto e il principio di tutto la prima
parola del vangelo di Giovanni: in principio era la Parola. Parola
non come un po' di vento articolato che esce dalla bocca, ma Parola
viva, creativa, che è anche evento, è anche comunità,
è anche comandamento. Questo rigore dell'assolutezza della
fede, per un verso, soddisfa la signoria di Dio, e la alza in una
trascendenza incatturabile e non manipolabile, ma, per questo innalzamento,
lascia spazio e laicità alle cose terrene come altre, e assolutamente
altre, delle cose celesti. La violenza del sacro, che rischia di assolutizzare
cose terrene, è qui vinta dalla separatezza del Santo che parla
e ti si rivolge, senza nessun pericolo che ti blocchi con la gonfiata
terrestrità, quando viene investita da surrogati teologici.
Io ho respirato a pieni polmoni questo doppio vento del teologico
vero nelle fluviali pagine di Karl Barth, il più grande genio
religioso dopo Lutero e dopo Schleirmacher: la signoria di Dio e il
libero cammino dell'uomo per le strade del mondo.
E Dietrich Bonhoeffer ci ha insegnato l'acre svuotamento nella sequela,
la grazia a caro prezzo, e la testimonianza di Cristo presso i fratelli,
fino alla sostituzione completa in vece loro e dei loro peccati, fino
alla consumazione nel martirio. La cappelletta che ricorda la morte
nel campo di concentramento di Flossenbürg porta incise queste
parole: "testimone di Cristo tra i suoi fratelli". Delio
Cantinori, storico valdese delle cose cristiane, lo ha definito "la
punta di diamante" della resistenza tedesca. E' lui che ha chiamato
la morte "festa suprema": festa, perché non si tratta
di una morte fine a se stessa, ma sofferta espiazione per altri; suprema
perché non c'è amore più grande di quello che
dà la vita per i fratelli.
Religioni non
cristiane
Molti anni fa, più giovane e irrequieto, era solito passare
le vacanze di capodanno nelle terre intorno a Cartagine in Tunisia;
terre dove la presenza cristiana era testimoniata dalla memoria dei
grandi vescovi come Cipriano e Agostino; dai grandi polemisti che
hanno creato il latino cristiano come Tertuiliano; dalle presenze
discrete di suorine bianche sepolte nei villaggi come fermento nella
pasta; e anche, se pur in modo più implicito, dallo straziante
grido del muezzin, che ubriacava la sera con la domanda di Dio. Avevo
conosciuto un giovane che portava anche nel nome l'impronta di Allah,
come quasi sempre tra loro. Un giorno gli domando: "Tu credi
in Allah?" Fa cenno di no, non crede. "Come, replico, Allah
non esiste?" "Ah sì, risponde, Allah è là",
e indica con la mano come si indica un oggetto concreto. Non aveva
la fede, aveva di più: aveva la presenza, l'essere di Dio.
Islam è questo tipo di fede e confonde la nostra religione
incerta.
Un anno arrivo e viene a prendermi all'aeroporto. Chiedo della famiglia
e mi dice che ci sono due sorelline in più.
"Come?", replico incredulo, non avendole mai vedute. "Sì,
mi spiega, è morta una vicina di casa e le ha lasciate sole.
Ora sono con noi". "Signor mio, due in un colpo?" Risposta
definitiva: "il faut avoir de la pitié". Ecco un
altro tratto dell'islam, il rigore morale.
Lo ha riconosciuto anche il Concilio Vaticano Il quando parla delle
religioni non cristiane (Nostra aetate). Dopo aver affermato che Ma
chiesa cattolica nulla rigetta di quanto è vero e santo in
queste religioni".
Vero e santo nell'islam: "adorare l'unico Dio, vivente e sussistente,
misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che
ha parlato agli uomini [ ... ] Hanno in stima la vita morale".
Vero e santo nell'induismo: "gli uomini scrutano il mistero divino
e lo esprimono con la inesauribile fecondità dei miti e con
i penetranti tentativi della filosofia".
Vero e santo nel buddismo: "viene riconosciuta la radicale insufficienza
di questo mondo materiale e insegna una via per la quale gli uomini,
con amore devoto e confidente, siano capaci di conquistare la liberazione
perfetta".
Fuori di questa lista, in una congiunzione spirituale straordinaria,
stanno gli ebrei. Di essi vien detto che hanno "un grande patrimonio
spirituale" con i cristiani. Ci voleva solo l'efferatezza del
nazismo per proibire nelle scuole il Vecchio Testamento come se non
fosse la radice e il tronco su cui si è innestato Gesù,
figlio di questo popolo. E così si parlò di deicidio.
"Quanto è stato commesso durante la passione di Gesù,
non può essere imputato né indistintamente a tutti gli
Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo".
Non è poco, è tantissimo: la scintilla dell'odio antiebraico
si è sempre accesa di qui, dall'accusa di aver ucciso Dio fatto
uomo. Peccato che la scultoreità del testo si sia attenuata
nell'ultima redazione, quando è stato tolta la parola deicidio,
che avrebbe reso più concreta l'indicazione da cui liberarci.
L'ateismo
Lunghi studi e rifacimenti ha richiesto al concilio la trattazione
sull'ateismo, che pure è una componente vistosa dell'età
moderna. La questione delle difficoltà può essere ridotta
a tanto: l'ateismo allo stato puro non esiste, l'ateo puro non esiste.
Chi scrive è un esperto di cose filosofiche: ebbe io posso
dire che in tutta la storia del pensiero non esiste una dimostrazione
dell'ateismo come tale, se Dio è travolto è travolto
sempre come conseguenza di un altro discorso negativo. Ragioni contro
Dio ce ne sono, ma sono pur sempre contro Dio, un soggetto che resiste
nonostante tutte le negazioni. L'ateismo, più che una teoria,
è una educazione o una politica o un sentimento o una ribellione
oppure una conseguenza del cattivo uso della teologia, quella che
nelle Provinciali Pascal chiama "abominevole teologia".
Eppure le pagine che il concilio dedica all'ateismo nella Gaudium
et Spes (n. 19) sono molto ben fatte, non tanto, o soltanto, nella
descrizione del fenomeno, ritenuto Ara le cose più gravi del
nostro tempo", quanto per la denuncia delle responsabilità
che anche il credente porta nella creazione di una cultura e di un
atteggiamento atei. E' detto: "l'ateismo considerato nella sua
interezza, non è qualcosa di originario, bensì deriva
da cause diverse, e tra questa va annoverata anche una reazione critica
contro le religioni, e in alcune regioni, proprio anzitutto contro
la religione cristiana". E in realtà, cari amici, quanti
di noi e in quanti di noi, il vero volto di Dio è occultato
e non manifestato?
Eppure non sarebbe difficile dimostrare teoricamente che la vera realtà
di Dio "non si oppone in alcun modo alla dignità dell'uomo";
che "la speranza dell'al di là non diminuisce l'importanza
degli impegni terreni"; che "gli enigmi della vita e della
morte, della colpa e del dolore trovano in Dio la soluzione",
che in altre ideologie, pur grandi e consentite, rimangono senza risposta.
Ma tant'è: la coerenza interpretativa e la cogenza pratica
mettono in crisi queste cose e fanno pensare a Dio come un nemico
dell'uomo, lui che invece sta dalla parte della vita.
Quando penso alla mia fede in Dio trovo di aver fatto la migliore
delle scelte, la più vantaggiosa delle scommesse: perché
1) sono in coerenza con il mio pensiero che presenta, vero portento
della ragione, questo schema della possibilità teologica; 2)
prendo sul serio la storia, dentro la quale è conficcato come
un masso indissolvibile il fatto della rivelazione; 3) sono nella
linea delle aspirazioni umane, che hanno "il presentimento"
(Kant) di queste cose; 4) trovo motivazioni forti per i fronti di
lotta, le convergenze etiche, le battaglie per l'alleggerimento della
terra; 5) mi trovo inserito in una morale dignitosa e altruista, che
contempera le ragioni mie con quelle degli altri; 6) se vinco, guadagno
tutto e non ci perdo nulla: perché quello su cui scommetto
e voglio perdere sono le mie "passioni impestate".
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