GLI "ANNALI" TRA SOMMERSO ED EMIGRAZIONE




Consuelo Milo



Ad Amalfi, nell'anno Mille, i tassi (d'interesse) erano animali: agnelli, quaglie; e qualche volta vegetali (legumi). Si dovevano corrispondere al creditore in proporzione alla somma prestata. Nella Sicilia del Quattrocento, i mercanti di panni si facevano pagare generalmente in frumento e in formaggio. Il re di Napoli, Ferrante, retribuiva impiegati e stallieri con grano e con stoffe. Nel 1559, un contratto stipulato tra il Duca di Sessa e il banchiere genovese Leonardo Spinola prendeva un mutuo di 250 mila scudi, 180 mila dei quali in contanti, e 70 mila in drappi: rasi, damaschi e velluti.
Non è necessario risalire tanto indietro nei secoli. La pratica di scambi in natura, senza ricorso alla moneta, è diffusa anche in tempi recenti, e si prolunga, in certe forme, fino ai giorni nostri. Basta pensare ai braccianti del Polesine, che nei patti agrari dei primi del Novecento venivano pagati in parte con sacchi di frumento; o agli operai della Cantoni, della Marelli o della Breda, che nella Milano degli Anni Venti potevano integrare il loro magro salario con i fagioli borlotti, con il riso camolino o con il concentrato di pomodoro in vendita (a prezzi calmierati) negli spacci aziendali.
Economia naturale ed economia monetaria sono due dimensioni inseparabili di quelli che lo storico francese Fernand Braudel chiama "i giochi dello scambio": due dimensioni che si ritrovano, in dosi e proporzioni diverse, in tutte le latitudini e in tutte le epoche storiche. L'avvento della moneta e delle forme più moderne di pagamento non ha cancellato neppure oggi le vestigio della società del baratto e dell'autoconsumo, che anzi fiorisce negli interstizi del sistema, per aggirarne le strettoie fiscali, per sfuggire alle taglie inflazionistiche e a quelle corporative.
A questo intreccio, e alle sue manifestazioni attraverso i secoli nella realtà italiano, è dedicato il sesto volume degli Annali della storia d'Italia, di Einaudi, ("Economia naturale, economia monetaria", di circa ottocento pagine), a cura di Ruggiero Romano e di Ugo Tucci. "E' un volume un po' rompiscatole - spiega Romano - che ricorda fenomeni troppo spesso dimenticati o sottovalutati dalla storiografia ufficiale. Economia naturale ed economia monetaria non corrispondono a stadi successivi della storia e dell'organizzazione sociale, non sono due opposti che si negano a vicenda. In tutti i Paesi europei, e in particolare in Italia, si possono rintracciare in ogni epoca delle sopravvivenze, dei residui di scambi effettuati al di fuori del mercato, senza l'intervento di strumenti monetari o creditizi. Ma certi storici preferiscono non parlarne".
Una polemica tra addetti ai lavori, dunque; una schermaglia accademico?
"Niente affatto - replica Romano -. Da storici, crediamo di aver fatto un libro che contiene non soltanto una lezione storica, ma un messaggio politico: consente di mettere a fuoco alcune costanti del passato che si prolungano nel presente. Pensiamo all'economia sommersa: che cos'è, se non una forma di economia naturale? I coadiuvanti familiari, nelle campagne o negli esercizi commerciali, le mogli che fanno da segretarie o i nonni baby-sitter, sono tutti lavoratori non retribuiti, che non rientrano nei circuiti dell'economia monetaria. Eppure, hanno un ruolo fondamentale nell'organizzazione sociale e nel processo di formazione del reddito, e sarebbe un errore non tenerne conto. Uno storico del futuro, che pretendesse di scrivere la storia economica dell'Italia nella secondo metà del ventesimo secolo basandosi sulle statistiche ufficiali, non capirebbe un bel nulla".
Allievo di Braudel, Ruggiero Romano condivide con il suo maestro e con tutta la scuola francese degli "Annales" una visione della storia, e del lavoro dello storico, che più degli avvenimenti "pubblici", delle cifre e dei dati macroeconomici, tende a privilegiare le strutture del quotidiano, gli stili di vita delle popolazioni, gli aspetti antropologici, i riti e gli usi collettivi. Fedele a questa impostazione, Romano ha cercato di redigere un inventario delle forme, a volte curiose e pittoresche, assunte nelle varie epoche dal binomio economia naturale-economia monetaria: quasi una ricognizione, a ritroso nel tempo, di quelli che potrebbero essere definiti i primordi dell'economia sommersa. Una correlata lunga un millennio, che parte dai "casati" e dai capi-mansi delle abbazie medioevali, per arrivare fino agli avventiti del Polesine, mezzi braccianti e mezzi operai delle ferrovie, a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del nostro secolo.
Ogni inquadratura si sofferma in dettaglio sulle interconnessioni tra economia monetaria ed economia naturale, nel tentativo di cogliere i meccanismi che ne permettono la coesistenza, in quel particolare contesto, e in quello specifico momento storico. Molto spesso, la linea di demarcazione è la stessa che separa il mercato interno delle esportazioni: "Per molti secoli, i mercati locali erano regolati da sistemi di scambi in natura, e solo il rapporto col mondo esterno richiedeva l'impiego di mezzi monetari", spiega Romano. "E questo vale ancora oggi per certi Paesi sottosviluppati, come quelli dell'America Latina".
L'economia naturale è dunque un sintomo di arretratezza, un retaggio feudale del quale occorre sbarazzarsi per essere promossi al rango di Paesi industrializzati?
Non necessariamente. Il pagamento in natura della manodopera agricola nelle aree più povere delle regioni meridionali, o l'evasione contributiva e fiscale da parte di certe aziende artigianali e protoindustriali, sono senza dubbio manifestazioni di economia naturale, di cui non si può certo andar fieri. Ma economia naturale è anche lo sconto sulla bolletta o sulle ferrovie, concesso a certe categorie di lavoratori dipendenti, o l'auto, la casa, il viaggio pagato dalla ditta, o tutte le altre forme di finge benefits di cui godono molti quadri e molti dirigenti pubblici e privati. Ed è pure economia naturale l'autoconsumo, l'orto o il pollaio ad uso familiare, insieme con le marmellate e con le conserve, che da fenomeno proprio dei ceti emarginati sta diventando una moda delle classi agiate, una risorsa per difendersi dall'inflazione e per migliorare la qualità della vita nelle grandi città.
E' un tipo di attività che, come nota Corrado Barberis nel suo saggio, è ancora poco diffuso in Italia, ma che non potrà non prendere sempre più piede, sulla scia dei popoli più evoluti.
La civiltà monetaria è anche la civiltà del carovita e del fiscal drag, e se non si trovassero delle valvole di sfogo nell'economia naturale, i redditi in moneta rischierebbero di essere polverizzati. D'altro canto, è sempre stato così. Ogni volta che nella storia il denaro (metallico o cartaceo) ha subito un deprezzamento, l'economia naturale ha allargato il suo ombrello protettivo. Nel Ducato di Parma, tra il Sette e l'Ottocento, i "salariati" delle compagne erano considerati privilegiati rispetto ai "giornalieri", perché la loro paga era costituita per il sessantacinque per cento da derrate, il che li metteva al riparo dell'erosione della moneta. E anche oggi i lavoratori più "invidiati" sono coloro i quali arrotondano lo stipendio con voci che non figurano in busta-paga o nel celebre modello "101".
Nel bene e nel male, dice Romano, l'economia naturale è una compagna di viaggio inevitabile di tutti i sistemi. E' inutile tentare di esorcizzarla, o di rimuoverla. Tanto vale prendere atto che esiste. Tanto vale combatterne le degenerazioni, ma anche sfruttarne le potenzialità positive.
"Di lavoro sommerso, di pensionati che si "arrangiano" è piena l'Italia. Però non se ne parla: mentre il dibattito sulle forme di lavoro va avanti in tutta Europa, da noi l'argomento sembra ancora tabù. Invece, un grado maggiore di flessibilità sul mercato, che vuoi dire anche più libertà nelle scelte personali, sarebbe auspicabile". Così si esprime Corrado Paracone, responsabile della ricerca, spiegando perché la Fondazione Agnelli ha scelto di "indagare" i terreni del part-time e del pensionamento.
In Italia, le statistiche ufficiali parlano di un milione di lavoratori part-time, concentrati soprattutto nei settori della distribuzione e del terziario. Di questi, la maggioranza interpreta il part-time semplicemente come un "mezzo lavoro", quattro ore invece di otto, come unico impiego nel corso della giornata. Ma in Gran Bretagna si parla di quattro milioni di persone, mentre in Danimarca la percentuale si aggira attorno al 20 per cento degli occupati e negli Stati Uniti i "mezzo tempo" sono dodici milioni. Non basta: le previsioni parlano per la fine degli anni '80 di un fenomeno che coinvolgerà il 50 per cento della popolazione attiva.
Ci si interroga sul perché di una sperequazione tanto grande tra Italia e altri Paesi. Si danno generalmente due tipi di risposta. Prima: sulle forme di lavoro diverse dal tempo pieno in Italia si discute poco. Lavorare in forme più flessibili è stata una tendenza accentuata nella seconda metà degli anni '70, legata però a una teoria rivelatasi scarsamente fondata, quella del "rifiuto del lavoro". Poi, è arrivata la crisi e ha travolto tutto. Non si è trattato più di "come rendere appetibile il lavoro", ma di "come trovarne uno". Le indagini compiute dalla Fondazione ci dicono che in realtà le forme di lavoro "spezzate" sono numerose. Si parla di tre milioni di persone impegnate in doppi lavori, in "spezzoni" di lavoro, ecc. Allora la situazione non è poi così diversa da quella del resto d'Europa; si tratta solo di farla emergere e di riaprire il dibattito.
Su questo tema la Fondazione, che tra le righe giudica un po' "pigri" gli imprenditori e arretrate le organizzazioni sindacali, ha un preciso punto di vista. Lavorare a part-time, e non semplicemente a metà, ma con l'adozione di un monte-ore settimanale, mensile o addirittura annuale, con la divisione del lavoro tra due persone, ad esempio un anziano alle soglie della pensione e un neoassunto, può introdurre una notevole flessibilità nel sistema produttivo, soprattutto per quanto riguarda il servizio sul territorio e le piccole imprese. E, nello stesso tempo, risponde alle esigenze dei singoli, "che esistono, e non si vede perché vadano ignorate": il giovane che vuole continuare a studiare iniziando a guadagnare, le donne. Su quest'ultimo punto la posizione del sindacato, che vuole impedire il part-time come realtà esclusivamente femminile, viene ritenuta "giustificata": "Ma, si obietta, oggi moltissime donne sono uscite di fatto dal mercato, magari semplicemente perché hanno avuto dei figli. E un lavoro a tempo pieno non rappresenta la soluzione ottimale".
In Francia, un'indagine del Ministero del lavoro ha dimostrato che moltissime persone, attualmente impegnate a tempo pieno, "accetterebbero una diminuzione del salario per poter lavorare di meno e seguire altri interessi, dalla cultura al volontariato". E in Italia, guarda caso, i volontari a vario titolo sono tre milioni.
Una ricerca condotta dalla Fondazione parla di una "generazione eccedente" di 1.700.000 ragazzi, nati tra il '59 e il '66. Queste persone sono "in più" rispetto alla tendenza naturale del mercato. E allora: perché respingere quello che può essere uno strumento di ripartizione della "torta occupazionale"?
I risultati parlano di una trasformazione economica, ma anche culturale, che ha prodotto una generazione di giovani francesi "mai occupata a tempo pieno e mai disoccupata". E il fenomeno, dicono gli esperti, è destinato a diffondersi e a durare nel tempo.
A impedire il successo del part-time in Italia ci sono norme giuridiche "dai meccanismi talmente complicati da scoraggiare gli imprenditori". E le nuove proposte sono ancora così "garantistiche", che è facile prevedere il rischio della non-applicazione, com'è avvenuto per l'occupazione giovanile. Senza individuare soluzioni precise, ma dando alla ricerca un "taglio" estremamente "mirato", la Fondazione Agnelli ha lanciato il sasso. Da quale parte arriverà la prossima opinione?
Quanti vecchi e nuovi emigrati italiani e meridionali si possono riconoscere nel dramma personale e collettivo degli immigrati in Italia, provenienti dal Terzo e dal Quarto Mondo? E avrebbero mai immaginato, i nostri emigranti, che le difficoltà, le maledizioni contro le quali si sono affannati all'estero per generazioni sarebbero divenute le stesse che si abbattono contro altri emigranti che arrivano da noi? In fondo, sembra quasi incredibile: ai nostri emigranti all'estero va persino meglio. Questi che arrivano in Italia sono costretti a sopravvivere tra le angherie del potere ufficiale, che ne ignora l'esistenza, e quelle di una galassia di ottocenteschi padroni delle ferriere, che li sfruttano impunemente, facendo con loro buoni affari esentasse. Perciò le prime parole che i coloreds imparano da noi sono due: polizia, espulsione.
Chi sono? I filippini, appena una goccia in un oceano sconosciuto; i capoverdiani, una minoranza; gli eritrei, una folla, come gli egiziani; i marocchini e i tunisini, un'intera colonia. Clandestini, s'intende; o, come ormai li chiamano, "imboscati". A parte le domestiche, per la maggior parte tutelate da un rapporto di lavoro regolare, e gli studenti, con regolare permesso di soggiorno, (ma molti giungono in Italia come studenti, poi, appunto, si "imboscano" e non si sa dove vadano a finire, né che cosa facciano), per gli altri si tratta di lavoro illegale in cambio della sopravvivenza. A chi rubano il lavoro? Dice il segretario della Cisl di Roma, Benito Ciucci: "A nessuno. Salvo casi limitati, i lavori svolti dagli immigrati sono quelli rifiutati dagli italiani per motivi sociali ed economici. I clandestini sono funzionali all'economia sommersa". Tutto ridotto, ufficialmente, a un problema di ordine pubblico.
Quanti sono? Sempre ufficialmente, si parla di 3-400 mila; ma stime più attendibili vanno al di là dei 750 mila. E c'è chi parla di circa un milione e 200 mila unità. Due volte la popolazione della Basilicata.
In quali settori o attraverso quali interventi si può aumentare l'occupazione del nostro Paese? Su questo interrogativo lavorano forze politiche e sociali. Ma la stessa domanda se la pongono, forse in modo più concreto e spesso preoccupato, alcuni milioni di famiglie italiane all'interno delle quali ci sono uno o più membri che cercano un lavoro sufficientemente stabile per vivere almeno dignitosamente. Nei primi nove mesi dell'83 le persone in cerca di occupazione erano circa due milioni e 300 mila. Il 75,5 per cento, mediamente, rappresentato da giovani in età fra i 14 e i 29 anni; il 13,5 per cento non munito di licenza media inferiore. E' ancora interessante notare carne, sul totale delle persone in cerca di occupazione, il 76,2 per cento ha tentato almeno una volta di ottenere un lavoro sicuro. La massa di persone che preme è ingente, e non diminuirà certo per tutti gli anni Ottanta, dal momento che nel prossimo futuro entreranno in età di lavoro le prolifiche leve giovanili degli anni '60 e dei primi anni '70, nei quali si respirava aria di espansione facile e quasi scontato. Occorre perciò cercare risposte immediate e praticabili, che non aggravino oltre misura le condizioni della nostra economia. Ma un ricordo massiccio alla distribuzione di posti di Stato sarebbe un errore molto grave, sia per le conseguenze della finanza pubblica, sia per il degrado e la demotivazione professionale di migliaio di giovani dopo gli anni del precariato diffuso e selvaggio in settori e in servizi pubblici. Il problema è dunque quello di dirigere azioni e sforzi verso la ricerca (creazione) di posti di lavoro produttivi, tali cioè da rafforzare il tono e il peso del nostro apparato economico.
Ma come rispondono i giovani? Vi sono, ad esempio, interi settori e comparti economici nei quali molte imprese segnalano continuamente la loro difficoltà a reperire manodopera. E' il caso dell'agricoltura, che sta conoscendo un cospicuo ritorno di investimenti e di imprenditori, oltreché un'intensa trasformazione colturale e tecnologica. Molte imprese agricole non riescono a reperire sul mercato addetti per le diverse fasi della produzione o per la gestione aziendale e del mercato. Analogamente, scarsa reperibilità in molti comparti dell'artigianato (tessile, meccanico, mobili e legno): pochi o nessuno disposto a I l'apprendistato per acquisire professionalità preziose nel ciclo produttivo e sempre ben pagate.
Ma anche l'industria manifatturiera, in non poche aree del Paese, non riesce a reperire addetti per il marketing, progettisti, saldatori, elettricisti, e persino impiegato per la contabilità.
Sembra paradossale, ma è questa la nostra situazione: secondo stime prudenti, vi sono circa 200 mila posti di lavoro già disponibili che non trovano la persona giusta, né quella disposta ad inserirsi, modificando le proprie aspettative.
Così come, attraverso incentivi e politiche di settore più efficaci e costanti nel tempo, si potrebbe accelerare l'espansione in campi di attività ancora oggi sottodimensionati: dal turismo ai servizi, all'informatica.
Da almeno venticinque anni, milioni di famiglie italiane hanno trasferito sui figli tutte le aspettative e i sogni dei genitori, dando vita così a molte generazioni di giovani che attendono ciò che i padri "hanno per loro sognato - come scrive Michele Dau - ma che non sono riusciti a costruire". Governo e forze sociali ed economiche devono porsi con attenzione questo tipo di problemi e cercare nuovi strumenti e canali che favoriscano una minore distanza tra ciò che il Paese davvero può dare e ciò che la gente si aspetta.

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