L'economia
italiana, dopo le trasformazioni degli anni '70 che hanno disegnato
sull'intero territorio nazionale - e nel Mezzogiorno - una nuova geografia
dello sviluppo, ha sperimentato nei primi anni '80 una fase di diffusa
involuzione.
Diminuzione del prodotto interno lordo, aumento della disoccupazione,
contrazione dei nuovi investimenti evidenziavano una situazione di crisi
nella quale le conseguenze della recessione internazionale si intrecciavano
con le carenze strutturali interne e gli squilibri del mercato del lavoro
si sommavano ai guasti della emergente disoccupazione tecnologica.
Le difficoltà della grande industria, ancora impegnata in una
vasta azione di recupero della propria centralità, e la riproposizione
della presenza della piccola e media impresa in termini selettivi ed
innovativi - manifestatesi proprio a cavallo tra gli anni '70 e gli
anni '80 - accentuavano nel sistema il negativo impatto del vincolo
estero - acuito dal l'approvvigionamento tecnologico sul mercato mondiale
- e scaricavano su di esso gli effetti del nuovo processo di riorganizzazione
dell'apparato produttivo che spingeva gli investimenti in direzione
del consolidamento del tessuto esistente piuttosto che verso un suo
ampliamento.
La crescente internazionalizzazione - sospinta dal sopraggiungere della
rivoluzione tecnologica mondiale - rilanciava il ruolo delle aree forti
dell'Italia centro-settentrionale, rivitalizzate dalla ristrutturazione
perseguita negli anni precedenti, mentre nel Mezzogiorno - ove pure
il "locailismo" aveva liberato notevoli energie imprenditoriali
e risorse finanziarie - prendeva consistenza il rischio di una rinnovata
emarginazione. All'insufficiente spessore del tessuto produttivo, alla
precarietà del sistema economico, al degrado delle aree metropolitane,
alle deficienze delle infrastrutture e dei servizi, si aggiungeva, quale
nuovo gravissimo elemento discriminante, il divario tecnologico.
La ripresa manifestatasi all'interno dell'economia italiana nel corso
del 1984 ha evidenziato i positivi risultati del processo di riorganizzazione
del sistema del Centro-Nord nonchè i persistenti rischi involutivi
del Mezzogiorno. Essa ha sottolineato, altresì, la gravità
dei ritardi strutturali che continuano a pesare sul sistema economico
nazionale.
La crescita dell'economia italiana, che ha registrato un incremento
del prodotto interno lordo di circa il 3%, non è stata sufficiente
e innescare processi di dilatazione dell'offerta nel mercato del lavoro.
Nonostante un leggero saldo positivo legato alla espansione del settore
terziario, che è riuscito a compensare le perdite dell'industria
e del l'agricoltura, il sistema nel suo complesso è apparso impotente
di fronte alla crescente domanda delle forze di lavoro inoccupate ormai
prossime alla quota di 2.500.000 unità, corrispondenti ad oltre
il 10% dell'intera popolazione attiva.
Il 1985 sembra confermare, in termini meno marcati per gli aspetti positivi
ed in termini più accentuati per quelli negativi, le tendenze
già manifestatesi nel precedente anno.
L'aumento del prodotto interno lordo (avviato ad attestarsi su valori
più bassi dell'anno precedente) appare legato essenzialmente
alla ritrovata proiezione innovativa, che ne aumenta potenzialità
e produttività, più che alla capacità di espansione
del sistema.
L'occupazione continua a decrescere, con particolare intensità
nella grande industria che denuncia un colo medio del 5-6%, mentre il
terziario non alimenta aspettative incoraggianti.
La bilancia commerciale, inoltre, evidenzia squilibri preoccupanti avviata
- come appare - verso un deficit record (dopo il disavanzo di 19.000
miliardi di lire del 1984) alimentato dagli approvvigionamenti agro-alimentare
ed energetico, ma, anche, tecnologici.
Il sistema economico nazionale stretto fra la necessità di perseguire
ritmi di crescita nel prodotto interno lordo del 2,5 - 3%, indispensabili
a garantire quanto meno - gli attuali livelli occupazionali, ed il rischio
di alimentare la spirale del vincolo estero rivela tutta la sua intrinseca
debolezza.
Questa rappresenta - oggettivamente - il pericolo più grave per
il Mezzogiorno.
Per contro la rivitalizzazione dell'economia meridionale costituisce
un passo obbligato per superare i persistenti squilibri e le contraddizioni
che minano la capacità del sistema italiano di reggere il confronto
con le sfide gli anni '90. In tale ottica, partendo dai processi evolutivi
degli anni '70, ma superando i limiti dello spontaneismo e della subordinazione
presenti nel localismo, dovranno essere creati nuovi presupposti che
stimolino e richiamino sufficienti energie e risorse e dovranno essere
introdotti nuovi meccanismi di sviluppo capaci di orientare la crescita
delle regioni meridionali in una prospettiva di integrazione nazionale
ed internazionale.
Localismo e
decentramento produttivo - gli anni '70.
Gli anni '70 hanno rappresentato per il sistema economico italiano
un periodo sicuramente di transizione caratterizzato da vaste trasformazioni
e segnato da forti tensioni sia interne che internazionali.
Entrato in fase involutiva già nel corso del decennio precedente,
il modello di sviluppo affidato alla espansione del tessuto produttivo
del triangolo industriale nord-occidentale ed imperniato sul ruolo
trainante della grande industria privata e pubblica alla quale veniva
affidato essenzialmente il compito di colmare - con il concorso dello
Stato - il sottosviluppo delle aree depresse, entrò definitivamente
in crisi nel decennio successivo. l'insorgere di virulenti fenomeni
internazionali, quali le crisi energetiche ed il manifestarsi in termini
patologici della spirale inflazionistica, misero a nudo la intrinseca
debolezza del modello italiano che denunciò una preoccupante
e progressiva perdita di velocità rispetto agli altri paesi
occidentali. Nel contempo mentre sulla scena mondiale irrompevano
i nuovi produttori internazionali che combinavano brillantemente le
potenzialità della innovazione tecnologica e le opportunità
di favorevoli condizioni interne, in Italia emergevano impellenti
esigenze di decentramento produttivo e di ristrutturazione dell'attività
industriale quali presupposti per recuperare competitività
ed eliminare il ritardo tecnologico.
Sulla spinta dei nuovi processi di dilatazione del tessuto produttivo,
il sistema economico italiano evidenziò nella "vitalità
lenticolare", espressasi nel fenomeno del localismo e manifestatasi
sull'intero territorio nazionale, un nuovo modello di sviluppo che
portava alla ribalta i sistemi di piccole e medie industrie ancorate
alla vocazione produttiva locale.
Propagatosi dapprima nelle aree nord-orientali, dove potenzialità
intrinseche e vicinanza con i mercati del centro-Europa costituivano
formidabili condizioni di richiamo, esso pervase l'intera penisola
ed attecchì, pur con diversa intensità, anche nel Mezzogiorno.
I risultati di un intenso programma di investimenti pubblici, le opportunità
offerte da un vasto sistema di agevolazioni finanziarie in favore
della industrializzazione meridionale e le possibilità aperte
dal metodo della "contrattazione programmata" fra Stato
ed industria privata in funzione della incentivazione alla localizzazione
di iniziative produttive nel Sud, determinarono infatti le condizioni
per una generale riorganizzazione del sistema economico e produttivo
meridionale.
Il notevole flusso di rimesse degli emigranti, la progressiva apertura
degli angusti confini territoriali degli innumerevoli mercati locali
disseminati nelle regioni del Sud, unitamente ad un oggettivo aumento
del benessere sociale, agirono peraltro positivamente sulle capacità
reattive dei vari comparti economici, ed in particolare del settore
secondario, favorendo la diffusione in esso dei processi evolutivi
manifestatisi precedentemente in altre aree.
Tuttavia la formazione del localismo nelle regioni meridionali, sostenuto
da interessanti processi di sviluppo autopropulsivo, è risultata
segnata altresì da fenomeni speculativi che hanno conferito
ad esso un elevato tasso di rischio. In effetti è possibile
isolare tra il 1970 e il 1980 nei sistemi produttivi delle regioni
meridionali un momento di crescita notevole alimentata dalla espansione
dei consumi locali e stimolato dalla domanda del mercato internazionale.
è peraltro facilmente verificabile che, accanto ad indubbie
espressioni di sviluppo autopropulsivo, il tessuto produttivo locale
è risultato amplificato e talora gonfiato, dagli effetti del
processo di graduale periferizzazione delle produzioni "mature"
a scarso contenuto tecnologico ed a forte incidenza del costo di manodopera,
in ossequio ad una logica che portava a scaricare all'esterno i costi
della razionalizzazione e ristrutturazione del sistema generale.
Localismo e
grande industria: gli anni '80
Dapprima le regioni centro e nord-orientali e successivamente le regioni
del meridione - e fra queste la Puglia - sperimentarono una spinta
evolutiva che sembrò innescare dei processi di crescita in
grado di modificare sostanzialmente i termini della impostazione dicotomica
- con un nord industriale e sviluppato da una parte e un Sud agricolo
e sottosviluppato dall'altra - che tradizionalmente aveva caratterizzato
il dualismo geografico italiano.
La vitalità del localismo meridionale, stimolato dalla espansione
delle attività tradizionali e supportato da condizioni socio-economiche
irripetibili, ha subito tuttavia durante i primi anni '80, la agguerrita
concorrenza dei paesi emergenti ed ha scontato gli effetti dei ritardi
e delle carenze strutturali accumulate dal sistema economico italiano
sin dagli anni '60 e manifestatisi con virulenza sotto i colpi della
recessione internazionale.
I processi di ristrutturazione e di riconversione e la emergente massiccia
diffusione della innovazione a livelli di crescente sofisticazione
finalizzata al recupero di elevati livelli di produttività
imposti dalla pressante concorrenza internazionale, ridussero drasticamente
i margini di operatività di gran parte del tessuto di piccole
e medie imprese nelle aree periferiche, frenandone nel contempo il
processo di espansione in precedenza alimentato sia dalla spinta autopropulsiva
che dalla localizzazione di insediamenti esterni.
Nuove e più ampie forme di aggregazione strutturale e di integrazione
funzionale in un'ottica di consolidamento del sistema e di diversificazione
delle attività, richiedevano qualità manageriali, capacità
finanziarie, potenzialità tecnologiche e disponibilità
di know-how che difficilmente potevano esprimersi in un contesto di
recente formazione e tuttora alla ricerca di una propria attimale
dimensione.
La perdita di velocità del sistema produttivo meridionale,
emersa in termini inequivocabili nella prima parte degli anni '80
(1), va collegata alla contraddittorietà di una crescita spesso
subordinato ad interessi esterni nonchè ai limiti evidenziati
da un processo di sviluppo spontaneo non supportato da adeguati interventi
di programmazione e di sostegno e rimasto estraneo, in larga misura,
alla esplosione della rivoluzione tecnologica.
Essa è coincisa con il prepotente ritorno della grande industria
nazionale soprattutto quella privata - che proprio in vista degli
anni '90 ripropone la sua presenza a livelli di ritrovata competitività
e torna a segnare nuovamente il solco del divario nord-sud.
Protagonista nel bene. (incremento dei PIL e della produttività)
e nel male (contrazione della occupazione) della nuova realtà
quale è andata delineandosi negli anni '80 - soprattutto in
quelli più recenti 84-85 - la grande industria è tornata,
dopo l'appuntamento, la crisi e la ristrutturazione degli anni '70,
a proporsi quale elemento decisivo del sistema economico nazionale.
L'impresa minore
fra arretratezza strutturalo e rischi di involuzione.
La piccola e media industria protagonista - a sua volta - fra il 1970
e il 1980 di un processo di espansione eccezionale che sostanziò
il modello di sviluppo localistico propagatosi sull'intero paese e
sostenne il peso della crisi nazionale, appare al contrario soprattutto
nel Mezzogiorno - attraversata da una tendenza al rallentamento del
proprio dinamismo che potrebbe preludere ad un pericoloso e definitivo
ridimensionamento.
Il processo di crescita che ne determinò l'affermazione, legato,
in larga misura, al processo di ristrutturazione della grossa industria
oltre che alla trasformazione del sistema economico interno e ad una
indubbia espansione della domanda internazionale, ma altresì
connesso alla capacità di crescita autopropulsiva delle realtà
locali, sembra aver esaurito i contenuti evolutivi. Dopo essersi espressi
nel passato con forti connotazioni pionieristiche, esso appare ormai
sempre più legato, per il prossimo futuro, al perseguimento
di un progetto di integrazione nel più ampio e complesso contesto
nazionale ed internazionale.
Un obiettivo, quest'ultimo, che potrà rilanciare in termini
innovativi il processo di superamento del divario nord-sud, ma che
al momento appare fuori dalla portata delle singole realtà
produttive e decisamente subordinato alla capacità di programmazione
e di intervento di tutti i soggetti, in primo luogo Stato e Regioni
ma altresì enti ed organismi pubblici e privati, preposti allo
sviluppo del territorio.
In effetti il divario fra la struttura produttiva del Mezzogiorno
e quello del centro-nord si presentava, ancora all'inizio degli anni
'80, profondamente marcato. Nonostante i grossi progressi compiuti
in diverse regioni rispetto ai decenni precedenti - ed al 1971 - il
rapporto globale fra addetti all'industria manifatturiera e popolazione
nel 1981 era ancora di 41,2 addetti su 1000 abitanti nell'Italia meridionale
rispetto ai 132,9 addetti su 1000 abitanti nell'Italia centro settentrionale
(tavola 1).
La complessità e le difficoltà del processo di integrazione
del due sub-sistemi nazionali in un'ottica tradizionale, appare in
tutta la sua evidenza.
La constatazione che "i meccanismi che hanno agito sulla crescita
dell'industria meridionale all'inizio degli anni '80 sembrano, comunque,
non più capaci di garantire l'ulteriore espansione"(2)
sottolinea l'epilogo di una esperienza, fra l'altro contraddistinta
dall'intervento straordinario attuato attraverso la cassa per il Mezzogiorno,
che ha caratterizzato un trentennio di storia economica nazionale
ed ha impresso una spinta notevole al processo di superamento del
divario nord-sud. Essa tuttavia non appare più riproponibile.
Si impone infatti una fase evolutiva moderna negli obiettivi e negli
strumenti e destinata ad essere sostanziata dalla presenza di una
molteplicita di soggetti nuovi e diversi e finalizzata al perseguimento
di un più difficile, ampio e complesso decollo.
Disoccupazione
e crisi del localismo
L'esaurimento delle capacità di crescita del modello localistico
sollevano, in termini drammatici, il problema della occupazione e
ripropongono in maniera non procrastinabile, quello delle prospettive
di sviluppo nelle regioni meridionali.
Durante gli anni '70 la propagazione degli effetti del decentramento
espressi dal sistema produttivo del nord ed i risultati della crescita
autopropulsiva dispiegatisi in molte aree del sud avevano rappresentato
altrettante occasioni di incontro fra i flussi della domanda e dell'offerta
di lavoro, determinando la formazione di un qualche equilibrio - sia
pure a livelli di persistente precarietà - nel mercato del
lavoro delle regioni meridionali.
A differenza degli anni'60 durante i quali soltanto poco più
del 10% della nuova occupazione nell'industria manifatturiera si localizzò
nel Mezzogiorno, negli anni '70 la percentuale della nuova occupazione
espressa dalle regioni meridionali raggiunse valori pari a circa il
30% del totale (3).
La involuzione manifestatasi nel sistema produttivo meridionale nel
corso dei primi anni '80 - e tuttora in atto - ha compromesso il precario
equilibrio precedentemente formatosi fra domanda e offerta di lavoro
nelle regioni meridionali.
La interruzione dei flussi di nuovi investimenti al sud - compressi
dai processi di riorganizzazione del sistema industriale italiano,
che resta concentrato essenzialmente nelle regioni del centro-nord
- hanno riportato drammaticamente in primo piano la piaga della disoccupazione
nel Mezzogiorno.
In esso il tasso di disoccupazione - pari complessivamente al 14%
delle forze di lavoro - è ben più elevato di quello
nazionale - attestatosi nel 1984 al 10,4% - mentre in alcune aree
particolarmente congestionate raggiunge punte superiore al 19% a fronte
di un tasso medio riscontrabile nelle regioni centro-settentrionali
assai più basso del 10% (8,7%) e talora prossimo a valori "fisiologici"
del 5-6% sulla popolazione attiva (tavola 2).
Il dirompente squilibrio fra domanda e offerta di lavoro riapre l'argomento
delle prospettive di sviluppo delle regioni meridionali.
L'approccio ad un simile argomento non può prescindere dall'analisi
di alcuni aspetti dei fenomeni evolutivi manifestatisi negli anni'70,
la cui comprensione è impensabile per la formulazione di possibili
ipotesi.
E' fuori discussione che il sistema economico delle regioni meridionali
presenta attualmente un grado di complessità e di maturità
impensabile sino ad un decennio addietro. La crescita del sistema
si è espressa peraltro essenzialmente nella espansione delle
attività manifatturiere tradizionali del settore secondario
che hanno raggiunto in molte realtà dimensioni ragguardevoli
esprimendo potenzialità produttive e capacità imprenditoriali
di fondamentale importanza, senza tuttavia incidere efficacemente
sulla evoluzione degli altri comporti e segnatamente sul l'agricoltura,
sul turismo, sui servizi, che hanno contuato a scontare - in largo
misura situazioni di assoluto degrado. la crescita del tessuto produttivo
è avvenuta nelle regioni meridionali sulla scia di un processo
di propagazione dell'apparato industriale "maturo" dal centro
verso la periferia e si è concretizzata sulla base di schemi,
strumenti e obiettivi in larga misura funzionali agli interessi del
sistema dominante e comunque tali da comportare evidenti rischi di
pericolosi ridimensionamenti in un'epoca - quale l'attuale - caratterizzata
da una vera e propria rivoluzione nella organizzazione della produzione
e nella gestione del mercato.
La diffusione della innovazione tecnologica nel processo produttivo
e l'avvento dell'informatica nei servizi segnano infatti il trapasso
del sistema all'epoca postindustriale.
Il processo di espansione del tessuto produttivo, che aveva favorito
la crescita del secondario nelle regioni meridionali si va smorzando
e l'avvento della rivoluzione tecnologica che rilancia le potenzialità
dell'apparato del centro-nord, mette a nudo la fragilità diffusione
del l'industrializzazione delle aree meridionali.
Emergono, i limiti del localismo e con essi la necessità di
ripensare un modello si sviluppo globale capace di attraversare i
diversi comporti del sistema economico.
In tale ottica è necessario superare i confini del localismo
pur partendo dal consolidamento delle potenzialità produttive
e delle capacità imprenditoriali da esso liberate nella nuova
geografia dello sviluppo che si è venuta configurando nelle
regioni meridionali nell'arco dì un decennio.
Ispessimento e diversificazione del tessuto produttivo in termini
di accesso alla innovazione tecnologica, di formazione di un nuovo
background basato sulla acquisizione di know-how e sullo sviluppo
delle funzioni terziarie nelle strutture aziendali, diffusione dì
attività nei settori moderni rappresentano obiettivi indispensabili
per restituire nuovo dinamismo al processo di espansione del secondario
nelle regioni meridionali, ma sicuramente non sono sufficienti a costruire
una strategia di sviluppo nel Mezzogiorno che invece dovrà
possedere un respiro di più vaste proporzioni.
Il crollo registrato dopo la espansione del decennio compreso tra
il 1970 e il 1980 (ed in particolare fra il 1976 e il 1980), dal tasso
di crescita delle nuove iniziative industriali nel quadriennio 1980-84,
sottolinea, accanto alle difficoltà di una ulteriore riproposizione,
i limiti ed i rischi di un modello incentrato esclusivamente sullo
sviluppo - spesso spontaneo e subordinato - delle attività
secondarie.
Soltanto il 2,2% degli stabilimenti ubicati nel Mezzogiorno è
stato in effetti realizzato fra il 1980 ed il 1983 rispetto al 41,2%
realizzato fra il 1970 e il 1980(4).
Alla caduta delle nuove iniziative industriali si aggiunge un deciso
aumento del tasso di mortalità: ben 2186 stabilimenti per 67.548
addetti hanno cessato l'attività fra il 1980 ed il 1983 a fronte
di 2.817 nuovi stabilimenti per 70.286 addetti (favola 3).
Il processo di generale arretramento osservato nelle dinamiche interne
rivela ulteriori gravi motivi di preoccupazione sulle potenzialità
delle attività secondarie.
Accanto allo scarso dinamismo dei settori moderni - che in alcuni
casi evidenziano addirittura chiare propensioni al ripiegamento -
anche i settori maturi, tradizionalmente punto di forza del localismo
meridionale , mostrano significative tendenze involutive (tavola 3).
Dinamico e
composizione delle forze di lavoro nel sub-sistema meridionale.
La espansione del tessuto delle attività secondarie nelle dimensioni
medio-piccole sull'intero territorio nazionale, la diffusione della
terziarizzazione e la scolarizzazione di massa da un lato, il processo
di ristrutturazione della industria grande e medio-grande e la riorganizzazione
dell'apparato produttivo dall'altro, produssero, all'interno del mercato
del lavoro, fenomeni recanti in sè elementi di rilevante contraddizione.
Il tasso di attività, caduto nel 1972 al 35,5% (rispetto al
41,6% del 1962) registrò un graduale ma costante recupero risalendo
al 38,9% nel 1977, al 40,3% nel 1981 ed al 40,9% nel 1984. Contemporaneamente
l'incidenza dei disoccupati sulle forze di lavoro conobbe una preoccupante
accentuazione: 7,2% nel 1977, 8,4% nel 1981, 10,4% nel 1984 (tav.
4).
L'ingresso nel mercato del lavoro di intere generazioni scolarizzate
e la dilatazione dell'apparato produttivo particolarmente rilevante
nei settori maturi ad alta intensità di manodopera - spesso
femminile - alimentarono e stimolarono la offerta, mentre dapprima
la crisi e la riproposizione in termini innovativi della grande industria
e quindi la riorganizzazione dell'intero sistema agirono sulla domanda
determinandone una progressiva contrazione.
I fenomeni rilevati evidenziano una differenziata intensità
nei due sub-sistemi che insistono sul territorio nazionale.
Nel centro-nord l'incremento del tasso di attività, pari al
41,2% già nel 1977 e salito al 42,6% nel 1981 ed al 43,2% nel
1984, appare collegato ad una prospettiva dinamica dell'apparato economico
che, pur attraversato da profondi processi di riorganizzazione, esprime
nuove opportunità e mantiene l'aumento della disoccupazione
entro limiti fisiologici. Dal 1977 al 1984 il tasso di attività
è infatti cresciuto di 2,9 punti percentuali così come
il tasso di disoccupazione che è passato dal 5,8% sulle forze
di lavoro del 1977 al 6,7% nel 1981, all'8,7% nel 1984 (tav. 4).
Nel Mezzogiorno
l'incremento del tasso di attività, che permane comunque a
livelli notevolmente inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord essendo
passato dal 34,6% al 1977 al 36,0% del 1981 al 36,6% del 1984, solo
marginalmente può essere collegato ad un processo di espansione
dell'apparato economico che peraltro, proprio fra il 1981 ed il 1984,
ha denunciato una secca perdita di velocità. Il trascurabile
incremento delle forze di lavoro in questo ultimo periodo (solo lo
0,6% contro l'1,4% del periodo 1977-1981) ed il contemporaneo consistente
aumento del tasso di disoccupazione salito al 14,0% sul totale della
popolazione attiva presente nel Mezzogiorno (nel 1977 esso era pari
al 10,1% e nel 1981 al 12,2%) rilevando infatti i segni di un pericoloso
processo involutivo (tav. 4).
L'andamento della disoccupazione nel Mezzogiorno - in assenza di elementi
nuovi che inneschino vasti processi di rivitalizzazione dell'intero
sistema economico -subirà probabilmente anche in una prospettiva
di medio termine una ulteriore accelerazione. I ritmi di crescita
delle forze di lavoro, alimentati sin nel recente passato anche dalla
emigrazione di ritorno, appaiono infatti destinati ad essere sostenuti
per il prossimo decennio da una crescita demografica ancora in netta
progressione.
Il rapporto tra flusso potenziale di entrata e flusso potenziale di
uscita nel mercato del lavoro evidenzia nelle regioni meridionali
una decisa prevalenza a favore del primo (tav. 5). Questa è
destinata peraltro a protrarsi ben oltre il 1991, anno in cui è
previsto a livello nazionale - in conseguenza del calo demografico
delle regioni del Centro-Nord - un regresso della popolazione al di
sotto della soglia del 1981 (tav. 6)(5).
Entro il 1991 - secondo le proiezioni di Futurama - per mantenere
nel Mezzogiorno, che avrà in quell'anno una popolazione di
21.322.700 unità (contro i 20.355.400 del 1981), il tasso di
disoccupazione ai livelli attuali sarà necessario creare 554.542
nuovi posti di lavoro.
Nel Centro-Nord, dove la popolazione prevista ammonterà a 35.466.000
unità(contro i 36.784.900 del 1981) i nuovi posti di lavoro
necessari a mantenere gli attuali livelli di disoccupazione dovranno
essere al contrario 106.312 (tav. 7).
Ancora più
sconfortante e sature di forti preoccupazioni appaiono le previsioni
nel medio periodo elaborate nell'ipotesi della piena occupazione.
Per raggiungere tale obiettivo nel Mezzogiorno le proiezioni di Futurama
fissano nel numero di 1.511.950 i nuovi posti da creare entro il 1991
a fronte di 1.128.948 di nuovi posti necessari per il Centro-Nord
(tav. 8).
I dati sull'andamento - attuale e futuro - delle forze di lavoro sono
sufficienti a chiarire che le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno,
pur dovendo necessariamente muovere dalla ricostituzione delle condizioni
e dei presupposti per la ripresa del processo di espansione, del tessuto
industriale, devono superare il momento della crescita esclusivamente
del secondario. Esse devono legarsi ad un processo di riqualificazione,
oltre che di crescita, dell'intero sistema economico-produttivo e
infrastrutturale che stimoli il dinamismo all'interno dei vari settori,
solleciti la formazione e l'impiego di adeguate risorse finanziarie
ed imprenditoriali locali e richiami l'interesse di quelle esterne
in un disegno globale che superi lo spontaneismo e punti a creare
le condizioni per una progressiva modernizzazione.
La esigenza di perseguire il duplice obiettivo della riqualificazione
e della crescita globale dell'apparato economico meridionale emerge
in maniera assai chiara dalla osservazione della distribuzione degli
occupati nelle diverse branche di attività (tav. 9).
Ad una persistente
asfissia, denunciata dai ritmi di crescita del tasso di disoccupazione,
si accompagno infatti, nel sub sistema meridionale, una precarietà
diffusa che mette a nudo la intrinseco debolezza di tutti i settori.
Sia l'agricoltura, con un indice di addetti sulle forze di lavoro
occupate pari al 19,4% contro l'8,3% del centro-nord e l'11,8% della
media nazionale, sia l'industria, con un indice di addetti pari al
25,0% contro il 38,2% del centro-nord ed il 34,1% della media nazionale,
sia infine le altre attività, con il 55,8% degli addetti rispetto
al 53,5% del centro-nord ed il 54,1% della media nazionale, tradiscono
un sistema pericolosamente avvitato su sè stesso.
L'eccessivo carico di manodopera agricola infatti nasconde una situazione
di persistente degrado dell'agricoltura meridionale compressa fra
la difficoltà di reggere il mercato e la incapacità
di puntare decisamente ad un processo di industrializzazione che si
sviluppi a monte e a valle delle produzioni agricole. Lo scarso peso
della occupazione industriale costituisce la riprova della perdurante
debolezza di un settore che tuttavia rimane fondamentale per qualsiasi
progetto di rilancio e sviluppo del Mezzogiorno. Dopo aver prodotto
uno sforzo intenso proponendosi, negli anni '70, quale autentica occasione
di decollo per molte aree del Mezzogiorno, attualmente esso subisce
gli effetti di un ridimensionamento che, se non rimosso, si ripercuoterà
sempre più pesantemente sulla prospettiva di crescita dell'intero
apparato economico meridionale.
Il settore terziario infine, pur evidenziando un carico di addetti,
addirittura superiore (55,6%) a quello del centro-nord (53,5%) e dell'Italia
(54,1%) costituisce il punto molle del subsistema meridionale.
Tuttora rifuguio per eccellenza, esso esprime soltanto nella pubblica
amministrazione una componente quantitativamente solida e rilevante
mentre presenta una situazione di diffusa precarietà all'interno
delle altre attività.
Organizzazione
economico, formazione delle risorse e andamento degli investimenti
nel sub-sistema meridionale.
Lo scarso peso di attività moderne, all'interno delle varie
branche economiche, la carenza della cultura dell'innovazione unita
alla insufficiente comprensione (e diffusione) dei servizi reali alla
produzione intesi quali strumenti di supporto per lo sviluppo del
sistema economico segnano profondamente la realtà delle regioni
meridionali.
Il degrado delle aree metropolitane totalmente prive di qualsiasi
ruolo direzionale e la precarietà delle infrastrutture pubbliche
rappresentano inoltre altrettante strozzature che alimentano i rischi
di involuzione presenti nel modello localistico meridionale e impediscono
il superamento del processo evolutiva "spontaneo" ritardando
l'avvio della fase dello sviluppo guidato.
Le sfide poste al sistema economico dall'attuale momento storico non
tollerano impostazioni improvvisate nè lasciano margini a soluzioni
spontaneiste. Il processo di ristrutturazione basato sul decentramento
produttivo dell'industria settentrionale ed europea che tanta parte
ebbe nell'alimentare il localismo meridionale è stato ormai
definitivamente soppiantato da un processo di ristrutturazione basato
sulla innovazione tecnologica interno che ha condotto ad un rapido
inaridimento dei flussi di investimento per nuovi insediamenti, indispensabili
per l'espansione del tessuto produttivo e dell'intero sistema economico
delle aree meridionali.
L'andamento del valore aggiunto al costo dei fattori (tav. 10) e l'andamento
degli investimenti lordi per settore di utilizzazione (tav. 11) nel
Mezzogiorno e nel Centro-Nord fra il 1974 e il 1983 (analizzato dalla
SVIMEZ nel rapporto 1984) evidenziano in termini macroscopici la persistenza
del divario fra i due sub-sistemi mentre le variazioni percentuali
fra il 1974 ed il 1983 riferite ai due parametri confermano in linea
generale la scarsa accelerazione della crescita del Mezzogiorno (che
- non bisogna dimenticare - muove da valori notevolmente più
bassi rispetto a quelli riscontrabili nel centro-nord) rispetto al
centro-nord che peraltro registra una prevalenza netta degli investimenti
nel settore industriale (tav. 12).
La tendenza di lungo termine riscontrata fra il 1974 ed il 1983 trova
altresì conferma nel raffronto fra andamento del valore aggiunto
e andamento degli investimenti nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord nel
1982 e nel 1983 (tav. 13).
Mentre il maggiore incremento di valore aggiunto registrato dalle
regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali nei diversi settori
produttivi appare comunque insufficiente - considerati i valori assoluti
di partenza - ed alimentare prospettive di immediato superamento del
divario esistente, suscita gravi preoccupazioni l'andamento degli
investimenti.
Se lo scarso incremento degli investimenti nell'agricoltura meridionale
e nei servizi - entrambi notoriamente relegati in posizioni di assoluta
marginalità - appare decisamente lontano da livelli necessari
a perseguire obiettivi di riorganizzazione e di efficienza, il crollo
degli investimenti nell'industria meridionale (-2,2% nel 1983 rispetto
al 1982) allontana qualsiasi illusione circa le reali possibilità
di una crescita rapida e consistente e sostenuta essenzialmente da
un processo di crescita autopropulsivo.
Localismo e
sviluppo
Nonostante la trentennale esperienza dell'intervento straordinario
perseguito attraverso l'opera della Cassa per il Mezzogiorno che ha
alimentato - e stimolato - un notevole flusso di risorse finanziarie
nelle regioni meridionali il divario nord-sud non solo non appare
colmato ma si ripropone in termini macroscopici sulla base di un crescente
divario tecnologico che strozza gli investimenti ed emargina - complice
un apparato di infrastrutture e servizi insufficiente e precario -
il sistema produttivo meridionale innescando pericolose spinte involutive.
Dopo i fenomeni
di crescita e diffusione del localismo industriale che, negli anni
'70, hanno proposto, in maniera più o meno definita, una nuova
geografia dello sviluppo nelle regioni meridionali, è andata
emergendo prepotentemente la esigenza di un processo evolutivo diverso,
più ampio e complesso. Partendo dalle risorse liberate dal
localismo, esso dovrà superare i limiti e interessare le diverse
branche del sistema economico, ma soprattutto dovrà passare
attraverso il recupero ad un ruolo dinamico delle aree metropolitane,
centri nevralgici, della organizzazione sociale ed economica del Mezzogiorno,
e la riproposizione delle infrastrutture sul territorio e del territorio
stesso - nelle sue molteplici potenzialità - quali irrinunciabili
presupposti e occasioni - di sviluppo.
Accanto alla valorizzazione ed al corretto uso delle risorse la diffusione
della terziarizzazione e la crescita delle attività di servizi
a supporto della produzione costituiscono altrettante condizioni di
rivitalizzazione del sistema.
Infatti il localismo ebbe come soggetto fondamentale la piccola e
media impresa manifatturiera che nelle aree periferiche sembrava svilupparsi
evidenziando un'accentuata subordinazione esterna e denunciando spesso
una totale rinuncia all'uso delle funzioni terziarie.
Mentre le attività manifatturiere espandevano la propria presenza
nel secondario, i servizi continuavano a subire l'intasamento di attività
precarie e l'agricoltura e il turismo - a dispetto delle grandi potenzialità
- scontavano antichi ritardi e persistenti strozzature.
Sul territorio la domanda di servizi - ma anche la richiesta di dignità
e attenzione - espressa dagli emergenti centri di dimensioni piccole
e medie, cresciuti per effetto del localismo industriale, si perdeva
nella stagnazione delle grandi aree metropolitane e veniva frustrata
dal degrado delle infrastrutture - sia quelle relative ai trasporti
che alle comunicazioni - divenute ormai un decisivo - quanto intollerabile
- elemento di discriminazione e di emarginazione.
L'esplosione della rivoluzione tecnologica non solo ha mutato radicalmente
i termini della organizzazione dei fattori della produzione ed i metodi
di approccio al mercato, ma ha altresì imposto una nuova, più
complessa organizzazione del sistema economico.
Accentuato contenuto tecnologico nel processo produttivo e sofisticazione
del prodotto - sia esso bene d'investimento o bene di consumo - caratterizzano
le attività secondarie mentre la espansione del terziario,
con la riproposizione del ruolo delle infrastrutture come strumento
di supporto ed esaltazione del processo di sviluppo, la lievitazione
dei servizi alla produzione, l'affermazione del management come tecnica
elaborata di direzione aziendale, l'informatizzazione come tecnica
di controllo, programmazione e gestione del processo produttivo e
come strumento di approccio e conoscenza del mercato, permea - tutto
intero - il sistema economico.
Nella nuova realtà il ritardo del sub-sistema meridionale nei
confronti di quello centro-settentrionale dovrà essere superato
attraverso imprescindibili processi di trasformazione e di riorganizzazione
dell'intero apparato economico ed infrastrutturale.
Le prospettive di crescita del Mezzogiorno - e di salvaguardia del
tessuto in esso radicatosi nell'ultimo decennio - appaiono legate
fondamentalmente alla triplice possibilità di innescare ed
alimentare un vasto processo innovativo che attraversi tutti i settori,
di restituire alle aree metropolitane una funzione terziaria di supporto
al sistema economico, di recuperare in un'ottica di sviluppo i servizi
e le infrastrutture sul territorio ed il territorio stesso.
Conclusioni
Gli obiettivi posti dalle sfide degli anni '90 richiedono uno sforzo
eccezionale di carattere finanziario che passa attraverso la riproporzione
dell'intervento straordinario e la formulazione di una severa programmazione
da parte dello stato ma presuppongono altresì il perseguimento
di un disegno più ampio finalizzato a restituire dinamismo
all'intero sistema economico nazionale.
Intervento straordinario e programmazione costituiscono lo strumento
e il metodo di una strategia che combinandosi, a livello locale, con
la capacità di guida dei soggetti istituzionali, principalmente
dell'istituto regionale, e con l'impegno dei nuovi soggetti economico-sociali
cresciuti nell'ultimo decennio, dovrà consentire di legare
la crescita dei sistemi locali ad un progetto di sviluppo globale
saldamente ancorato al contesto nazionale ed internazionale.
Il risanamento del sistema economico nazionale ed il ripristino delle
condizioni funzionali ad una nuova fase di espansione dello stesso,
che consenta di produrre ricchezza e liberare risorse, rappresenta
infine la condizione necessaria per garantire risultati positivi all'azione
di superamento del divario Nord-Sud.
In tal senso riformulazione dell'intervento straordinario a favore
del Mezzogiorno e risanamento del sistema economico possono essere
considerati due aspetti di un unico problema: quello di proiettare
l'intero paese verso le posizioni di testa dello sviluppo mondiale.
NOTE
1) IASM "Rapporto Mezzogiorno-industria 1983". In tal senso
cfr il capitolo su "dinarnica dell'industria meridionale e dei
suoi settori" p. 99-116.
2) IASM "Rapporto Mezzogiorno- Industria 1983" p. 105.
3) Mariano D'Antonio: "Il Mezzogiorno negli anni'80: dallo sviluppo
imitativo allo sviluppo autecentrato" Franco Angeli Editore -
Milano '85 p. 15
4) IASM: "Rapporto Mezzogiorno Industria 1983" p. 102.
5) Fondazione G. Agnelli: "Atlante di Futurama" - Torino
1984. Cfr. Cap. I e Cap. II p. 49-96.