§ I PROBLEMI DELLO SVILUPPO NEL MEZZOGIORNO

CRISI DEL LOCALISMO E RIDEFINIZIONE DEL SISTEMA ECONOMICO MERIDIONALE




Antonio Corvino



L'economia italiana, dopo le trasformazioni degli anni '70 che hanno disegnato sull'intero territorio nazionale - e nel Mezzogiorno - una nuova geografia dello sviluppo, ha sperimentato nei primi anni '80 una fase di diffusa involuzione.
Diminuzione del prodotto interno lordo, aumento della disoccupazione, contrazione dei nuovi investimenti evidenziavano una situazione di crisi nella quale le conseguenze della recessione internazionale si intrecciavano con le carenze strutturali interne e gli squilibri del mercato del lavoro si sommavano ai guasti della emergente disoccupazione tecnologica.
Le difficoltà della grande industria, ancora impegnata in una vasta azione di recupero della propria centralità, e la riproposizione della presenza della piccola e media impresa in termini selettivi ed innovativi - manifestatesi proprio a cavallo tra gli anni '70 e gli anni '80 - accentuavano nel sistema il negativo impatto del vincolo estero - acuito dal l'approvvigionamento tecnologico sul mercato mondiale - e scaricavano su di esso gli effetti del nuovo processo di riorganizzazione dell'apparato produttivo che spingeva gli investimenti in direzione del consolidamento del tessuto esistente piuttosto che verso un suo ampliamento.
La crescente internazionalizzazione - sospinta dal sopraggiungere della rivoluzione tecnologica mondiale - rilanciava il ruolo delle aree forti dell'Italia centro-settentrionale, rivitalizzate dalla ristrutturazione perseguita negli anni precedenti, mentre nel Mezzogiorno - ove pure il "locailismo" aveva liberato notevoli energie imprenditoriali e risorse finanziarie - prendeva consistenza il rischio di una rinnovata emarginazione. All'insufficiente spessore del tessuto produttivo, alla precarietà del sistema economico, al degrado delle aree metropolitane, alle deficienze delle infrastrutture e dei servizi, si aggiungeva, quale nuovo gravissimo elemento discriminante, il divario tecnologico.
La ripresa manifestatasi all'interno dell'economia italiana nel corso del 1984 ha evidenziato i positivi risultati del processo di riorganizzazione del sistema del Centro-Nord nonchè i persistenti rischi involutivi del Mezzogiorno. Essa ha sottolineato, altresì, la gravità dei ritardi strutturali che continuano a pesare sul sistema economico nazionale.
La crescita dell'economia italiana, che ha registrato un incremento del prodotto interno lordo di circa il 3%, non è stata sufficiente e innescare processi di dilatazione dell'offerta nel mercato del lavoro. Nonostante un leggero saldo positivo legato alla espansione del settore terziario, che è riuscito a compensare le perdite dell'industria e del l'agricoltura, il sistema nel suo complesso è apparso impotente di fronte alla crescente domanda delle forze di lavoro inoccupate ormai prossime alla quota di 2.500.000 unità, corrispondenti ad oltre il 10% dell'intera popolazione attiva.
Il 1985 sembra confermare, in termini meno marcati per gli aspetti positivi ed in termini più accentuati per quelli negativi, le tendenze già manifestatesi nel precedente anno.
L'aumento del prodotto interno lordo (avviato ad attestarsi su valori più bassi dell'anno precedente) appare legato essenzialmente alla ritrovata proiezione innovativa, che ne aumenta potenzialità e produttività, più che alla capacità di espansione del sistema.
L'occupazione continua a decrescere, con particolare intensità nella grande industria che denuncia un colo medio del 5-6%, mentre il terziario non alimenta aspettative incoraggianti.
La bilancia commerciale, inoltre, evidenzia squilibri preoccupanti avviata - come appare - verso un deficit record (dopo il disavanzo di 19.000 miliardi di lire del 1984) alimentato dagli approvvigionamenti agro-alimentare ed energetico, ma, anche, tecnologici.
Il sistema economico nazionale stretto fra la necessità di perseguire ritmi di crescita nel prodotto interno lordo del 2,5 - 3%, indispensabili a garantire quanto meno - gli attuali livelli occupazionali, ed il rischio di alimentare la spirale del vincolo estero rivela tutta la sua intrinseca debolezza.
Questa rappresenta - oggettivamente - il pericolo più grave per il Mezzogiorno.
Per contro la rivitalizzazione dell'economia meridionale costituisce un passo obbligato per superare i persistenti squilibri e le contraddizioni che minano la capacità del sistema italiano di reggere il confronto con le sfide gli anni '90. In tale ottica, partendo dai processi evolutivi degli anni '70, ma superando i limiti dello spontaneismo e della subordinazione presenti nel localismo, dovranno essere creati nuovi presupposti che stimolino e richiamino sufficienti energie e risorse e dovranno essere introdotti nuovi meccanismi di sviluppo capaci di orientare la crescita delle regioni meridionali in una prospettiva di integrazione nazionale ed internazionale.

Localismo e decentramento produttivo - gli anni '70.
Gli anni '70 hanno rappresentato per il sistema economico italiano un periodo sicuramente di transizione caratterizzato da vaste trasformazioni e segnato da forti tensioni sia interne che internazionali.
Entrato in fase involutiva già nel corso del decennio precedente, il modello di sviluppo affidato alla espansione del tessuto produttivo del triangolo industriale nord-occidentale ed imperniato sul ruolo trainante della grande industria privata e pubblica alla quale veniva affidato essenzialmente il compito di colmare - con il concorso dello Stato - il sottosviluppo delle aree depresse, entrò definitivamente in crisi nel decennio successivo. l'insorgere di virulenti fenomeni internazionali, quali le crisi energetiche ed il manifestarsi in termini patologici della spirale inflazionistica, misero a nudo la intrinseca debolezza del modello italiano che denunciò una preoccupante e progressiva perdita di velocità rispetto agli altri paesi occidentali. Nel contempo mentre sulla scena mondiale irrompevano i nuovi produttori internazionali che combinavano brillantemente le potenzialità della innovazione tecnologica e le opportunità di favorevoli condizioni interne, in Italia emergevano impellenti esigenze di decentramento produttivo e di ristrutturazione dell'attività industriale quali presupposti per recuperare competitività ed eliminare il ritardo tecnologico.
Sulla spinta dei nuovi processi di dilatazione del tessuto produttivo, il sistema economico italiano evidenziò nella "vitalità lenticolare", espressasi nel fenomeno del localismo e manifestatasi sull'intero territorio nazionale, un nuovo modello di sviluppo che portava alla ribalta i sistemi di piccole e medie industrie ancorate alla vocazione produttiva locale.
Propagatosi dapprima nelle aree nord-orientali, dove potenzialità intrinseche e vicinanza con i mercati del centro-Europa costituivano formidabili condizioni di richiamo, esso pervase l'intera penisola ed attecchì, pur con diversa intensità, anche nel Mezzogiorno.
I risultati di un intenso programma di investimenti pubblici, le opportunità offerte da un vasto sistema di agevolazioni finanziarie in favore della industrializzazione meridionale e le possibilità aperte dal metodo della "contrattazione programmata" fra Stato ed industria privata in funzione della incentivazione alla localizzazione di iniziative produttive nel Sud, determinarono infatti le condizioni per una generale riorganizzazione del sistema economico e produttivo meridionale.
Il notevole flusso di rimesse degli emigranti, la progressiva apertura degli angusti confini territoriali degli innumerevoli mercati locali disseminati nelle regioni del Sud, unitamente ad un oggettivo aumento del benessere sociale, agirono peraltro positivamente sulle capacità reattive dei vari comparti economici, ed in particolare del settore secondario, favorendo la diffusione in esso dei processi evolutivi manifestatisi precedentemente in altre aree.
Tuttavia la formazione del localismo nelle regioni meridionali, sostenuto da interessanti processi di sviluppo autopropulsivo, è risultata segnata altresì da fenomeni speculativi che hanno conferito ad esso un elevato tasso di rischio. In effetti è possibile isolare tra il 1970 e il 1980 nei sistemi produttivi delle regioni meridionali un momento di crescita notevole alimentata dalla espansione dei consumi locali e stimolato dalla domanda del mercato internazionale. è peraltro facilmente verificabile che, accanto ad indubbie espressioni di sviluppo autopropulsivo, il tessuto produttivo locale è risultato amplificato e talora gonfiato, dagli effetti del processo di graduale periferizzazione delle produzioni "mature" a scarso contenuto tecnologico ed a forte incidenza del costo di manodopera, in ossequio ad una logica che portava a scaricare all'esterno i costi della razionalizzazione e ristrutturazione del sistema generale.

Localismo e grande industria: gli anni '80
Dapprima le regioni centro e nord-orientali e successivamente le regioni del meridione - e fra queste la Puglia - sperimentarono una spinta evolutiva che sembrò innescare dei processi di crescita in grado di modificare sostanzialmente i termini della impostazione dicotomica - con un nord industriale e sviluppato da una parte e un Sud agricolo e sottosviluppato dall'altra - che tradizionalmente aveva caratterizzato il dualismo geografico italiano.
La vitalità del localismo meridionale, stimolato dalla espansione delle attività tradizionali e supportato da condizioni socio-economiche irripetibili, ha subito tuttavia durante i primi anni '80, la agguerrita concorrenza dei paesi emergenti ed ha scontato gli effetti dei ritardi e delle carenze strutturali accumulate dal sistema economico italiano sin dagli anni '60 e manifestatisi con virulenza sotto i colpi della recessione internazionale.
I processi di ristrutturazione e di riconversione e la emergente massiccia diffusione della innovazione a livelli di crescente sofisticazione finalizzata al recupero di elevati livelli di produttività imposti dalla pressante concorrenza internazionale, ridussero drasticamente i margini di operatività di gran parte del tessuto di piccole e medie imprese nelle aree periferiche, frenandone nel contempo il processo di espansione in precedenza alimentato sia dalla spinta autopropulsiva che dalla localizzazione di insediamenti esterni.
Nuove e più ampie forme di aggregazione strutturale e di integrazione funzionale in un'ottica di consolidamento del sistema e di diversificazione delle attività, richiedevano qualità manageriali, capacità finanziarie, potenzialità tecnologiche e disponibilità di know-how che difficilmente potevano esprimersi in un contesto di recente formazione e tuttora alla ricerca di una propria attimale dimensione.
La perdita di velocità del sistema produttivo meridionale, emersa in termini inequivocabili nella prima parte degli anni '80 (1), va collegata alla contraddittorietà di una crescita spesso subordinato ad interessi esterni nonchè ai limiti evidenziati da un processo di sviluppo spontaneo non supportato da adeguati interventi di programmazione e di sostegno e rimasto estraneo, in larga misura, alla esplosione della rivoluzione tecnologica.
Essa è coincisa con il prepotente ritorno della grande industria nazionale soprattutto quella privata - che proprio in vista degli anni '90 ripropone la sua presenza a livelli di ritrovata competitività e torna a segnare nuovamente il solco del divario nord-sud.
Protagonista nel bene. (incremento dei PIL e della produttività) e nel male (contrazione della occupazione) della nuova realtà quale è andata delineandosi negli anni '80 - soprattutto in quelli più recenti 84-85 - la grande industria è tornata, dopo l'appuntamento, la crisi e la ristrutturazione degli anni '70, a proporsi quale elemento decisivo del sistema economico nazionale.

L'impresa minore fra arretratezza strutturalo e rischi di involuzione.
La piccola e media industria protagonista - a sua volta - fra il 1970 e il 1980 di un processo di espansione eccezionale che sostanziò il modello di sviluppo localistico propagatosi sull'intero paese e sostenne il peso della crisi nazionale, appare al contrario soprattutto nel Mezzogiorno - attraversata da una tendenza al rallentamento del proprio dinamismo che potrebbe preludere ad un pericoloso e definitivo ridimensionamento.
Il processo di crescita che ne determinò l'affermazione, legato, in larga misura, al processo di ristrutturazione della grossa industria oltre che alla trasformazione del sistema economico interno e ad una indubbia espansione della domanda internazionale, ma altresì connesso alla capacità di crescita autopropulsiva delle realtà locali, sembra aver esaurito i contenuti evolutivi. Dopo essersi espressi nel passato con forti connotazioni pionieristiche, esso appare ormai sempre più legato, per il prossimo futuro, al perseguimento di un progetto di integrazione nel più ampio e complesso contesto nazionale ed internazionale.
Un obiettivo, quest'ultimo, che potrà rilanciare in termini innovativi il processo di superamento del divario nord-sud, ma che al momento appare fuori dalla portata delle singole realtà produttive e decisamente subordinato alla capacità di programmazione e di intervento di tutti i soggetti, in primo luogo Stato e Regioni ma altresì enti ed organismi pubblici e privati, preposti allo sviluppo del territorio.
In effetti il divario fra la struttura produttiva del Mezzogiorno e quello del centro-nord si presentava, ancora all'inizio degli anni '80, profondamente marcato. Nonostante i grossi progressi compiuti in diverse regioni rispetto ai decenni precedenti - ed al 1971 - il rapporto globale fra addetti all'industria manifatturiera e popolazione nel 1981 era ancora di 41,2 addetti su 1000 abitanti nell'Italia meridionale rispetto ai 132,9 addetti su 1000 abitanti nell'Italia centro settentrionale (tavola 1).
La complessità e le difficoltà del processo di integrazione del due sub-sistemi nazionali in un'ottica tradizionale, appare in tutta la sua evidenza.


La constatazione che "i meccanismi che hanno agito sulla crescita dell'industria meridionale all'inizio degli anni '80 sembrano, comunque, non più capaci di garantire l'ulteriore espansione"(2) sottolinea l'epilogo di una esperienza, fra l'altro contraddistinta dall'intervento straordinario attuato attraverso la cassa per il Mezzogiorno, che ha caratterizzato un trentennio di storia economica nazionale ed ha impresso una spinta notevole al processo di superamento del divario nord-sud. Essa tuttavia non appare più riproponibile. Si impone infatti una fase evolutiva moderna negli obiettivi e negli strumenti e destinata ad essere sostanziata dalla presenza di una molteplicita di soggetti nuovi e diversi e finalizzata al perseguimento di un più difficile, ampio e complesso decollo.

Disoccupazione e crisi del localismo
L'esaurimento delle capacità di crescita del modello localistico sollevano, in termini drammatici, il problema della occupazione e ripropongono in maniera non procrastinabile, quello delle prospettive di sviluppo nelle regioni meridionali.
Durante gli anni '70 la propagazione degli effetti del decentramento espressi dal sistema produttivo del nord ed i risultati della crescita autopropulsiva dispiegatisi in molte aree del sud avevano rappresentato altrettante occasioni di incontro fra i flussi della domanda e dell'offerta di lavoro, determinando la formazione di un qualche equilibrio - sia pure a livelli di persistente precarietà - nel mercato del lavoro delle regioni meridionali.
A differenza degli anni'60 durante i quali soltanto poco più del 10% della nuova occupazione nell'industria manifatturiera si localizzò nel Mezzogiorno, negli anni '70 la percentuale della nuova occupazione espressa dalle regioni meridionali raggiunse valori pari a circa il 30% del totale (3).
La involuzione manifestatasi nel sistema produttivo meridionale nel corso dei primi anni '80 - e tuttora in atto - ha compromesso il precario equilibrio precedentemente formatosi fra domanda e offerta di lavoro nelle regioni meridionali.
La interruzione dei flussi di nuovi investimenti al sud - compressi dai processi di riorganizzazione del sistema industriale italiano, che resta concentrato essenzialmente nelle regioni del centro-nord - hanno riportato drammaticamente in primo piano la piaga della disoccupazione nel Mezzogiorno.
In esso il tasso di disoccupazione - pari complessivamente al 14% delle forze di lavoro - è ben più elevato di quello nazionale - attestatosi nel 1984 al 10,4% - mentre in alcune aree particolarmente congestionate raggiunge punte superiore al 19% a fronte di un tasso medio riscontrabile nelle regioni centro-settentrionali assai più basso del 10% (8,7%) e talora prossimo a valori "fisiologici" del 5-6% sulla popolazione attiva (tavola 2).
Il dirompente squilibrio fra domanda e offerta di lavoro riapre l'argomento delle prospettive di sviluppo delle regioni meridionali.
L'approccio ad un simile argomento non può prescindere dall'analisi di alcuni aspetti dei fenomeni evolutivi manifestatisi negli anni'70, la cui comprensione è impensabile per la formulazione di possibili ipotesi.
E' fuori discussione che il sistema economico delle regioni meridionali presenta attualmente un grado di complessità e di maturità impensabile sino ad un decennio addietro. La crescita del sistema si è espressa peraltro essenzialmente nella espansione delle attività manifatturiere tradizionali del settore secondario che hanno raggiunto in molte realtà dimensioni ragguardevoli esprimendo potenzialità produttive e capacità imprenditoriali di fondamentale importanza, senza tuttavia incidere efficacemente sulla evoluzione degli altri comporti e segnatamente sul l'agricoltura, sul turismo, sui servizi, che hanno contuato a scontare - in largo misura situazioni di assoluto degrado. la crescita del tessuto produttivo è avvenuta nelle regioni meridionali sulla scia di un processo di propagazione dell'apparato industriale "maturo" dal centro verso la periferia e si è concretizzata sulla base di schemi, strumenti e obiettivi in larga misura funzionali agli interessi del sistema dominante e comunque tali da comportare evidenti rischi di pericolosi ridimensionamenti in un'epoca - quale l'attuale - caratterizzata da una vera e propria rivoluzione nella organizzazione della produzione e nella gestione del mercato.


La diffusione della innovazione tecnologica nel processo produttivo e l'avvento dell'informatica nei servizi segnano infatti il trapasso del sistema all'epoca postindustriale.
Il processo di espansione del tessuto produttivo, che aveva favorito la crescita del secondario nelle regioni meridionali si va smorzando e l'avvento della rivoluzione tecnologica che rilancia le potenzialità dell'apparato del centro-nord, mette a nudo la fragilità diffusione del l'industrializzazione delle aree meridionali.
Emergono, i limiti del localismo e con essi la necessità di ripensare un modello si sviluppo globale capace di attraversare i diversi comporti del sistema economico.
In tale ottica è necessario superare i confini del localismo pur partendo dal consolidamento delle potenzialità produttive e delle capacità imprenditoriali da esso liberate nella nuova geografia dello sviluppo che si è venuta configurando nelle regioni meridionali nell'arco dì un decennio.
Ispessimento e diversificazione del tessuto produttivo in termini di accesso alla innovazione tecnologica, di formazione di un nuovo background basato sulla acquisizione di know-how e sullo sviluppo delle funzioni terziarie nelle strutture aziendali, diffusione dì attività nei settori moderni rappresentano obiettivi indispensabili per restituire nuovo dinamismo al processo di espansione del secondario nelle regioni meridionali, ma sicuramente non sono sufficienti a costruire una strategia di sviluppo nel Mezzogiorno che invece dovrà possedere un respiro di più vaste proporzioni.
Il crollo registrato dopo la espansione del decennio compreso tra il 1970 e il 1980 (ed in particolare fra il 1976 e il 1980), dal tasso di crescita delle nuove iniziative industriali nel quadriennio 1980-84, sottolinea, accanto alle difficoltà di una ulteriore riproposizione, i limiti ed i rischi di un modello incentrato esclusivamente sullo sviluppo - spesso spontaneo e subordinato - delle attività secondarie.
Soltanto il 2,2% degli stabilimenti ubicati nel Mezzogiorno è stato in effetti realizzato fra il 1980 ed il 1983 rispetto al 41,2% realizzato fra il 1970 e il 1980(4).
Alla caduta delle nuove iniziative industriali si aggiunge un deciso aumento del tasso di mortalità: ben 2186 stabilimenti per 67.548 addetti hanno cessato l'attività fra il 1980 ed il 1983 a fronte di 2.817 nuovi stabilimenti per 70.286 addetti (favola 3).
Il processo di generale arretramento osservato nelle dinamiche interne rivela ulteriori gravi motivi di preoccupazione sulle potenzialità delle attività secondarie.
Accanto allo scarso dinamismo dei settori moderni - che in alcuni casi evidenziano addirittura chiare propensioni al ripiegamento - anche i settori maturi, tradizionalmente punto di forza del localismo meridionale , mostrano significative tendenze involutive (tavola 3).

Dinamico e composizione delle forze di lavoro nel sub-sistema meridionale.
La espansione del tessuto delle attività secondarie nelle dimensioni medio-piccole sull'intero territorio nazionale, la diffusione della terziarizzazione e la scolarizzazione di massa da un lato, il processo di ristrutturazione della industria grande e medio-grande e la riorganizzazione dell'apparato produttivo dall'altro, produssero, all'interno del mercato del lavoro, fenomeni recanti in sè elementi di rilevante contraddizione.
Il tasso di attività, caduto nel 1972 al 35,5% (rispetto al 41,6% del 1962) registrò un graduale ma costante recupero risalendo al 38,9% nel 1977, al 40,3% nel 1981 ed al 40,9% nel 1984. Contemporaneamente l'incidenza dei disoccupati sulle forze di lavoro conobbe una preoccupante accentuazione: 7,2% nel 1977, 8,4% nel 1981, 10,4% nel 1984 (tav. 4).
L'ingresso nel mercato del lavoro di intere generazioni scolarizzate e la dilatazione dell'apparato produttivo particolarmente rilevante nei settori maturi ad alta intensità di manodopera - spesso femminile - alimentarono e stimolarono la offerta, mentre dapprima la crisi e la riproposizione in termini innovativi della grande industria e quindi la riorganizzazione dell'intero sistema agirono sulla domanda determinandone una progressiva contrazione.
I fenomeni rilevati evidenziano una differenziata intensità nei due sub-sistemi che insistono sul territorio nazionale.
Nel centro-nord l'incremento del tasso di attività, pari al 41,2% già nel 1977 e salito al 42,6% nel 1981 ed al 43,2% nel 1984, appare collegato ad una prospettiva dinamica dell'apparato economico che, pur attraversato da profondi processi di riorganizzazione, esprime nuove opportunità e mantiene l'aumento della disoccupazione entro limiti fisiologici. Dal 1977 al 1984 il tasso di attività è infatti cresciuto di 2,9 punti percentuali così come il tasso di disoccupazione che è passato dal 5,8% sulle forze di lavoro del 1977 al 6,7% nel 1981, all'8,7% nel 1984 (tav. 4).

Nel Mezzogiorno l'incremento del tasso di attività, che permane comunque a livelli notevolmente inferiori rispetto a quelli del Centro-Nord essendo passato dal 34,6% al 1977 al 36,0% del 1981 al 36,6% del 1984, solo marginalmente può essere collegato ad un processo di espansione dell'apparato economico che peraltro, proprio fra il 1981 ed il 1984, ha denunciato una secca perdita di velocità. Il trascurabile incremento delle forze di lavoro in questo ultimo periodo (solo lo 0,6% contro l'1,4% del periodo 1977-1981) ed il contemporaneo consistente aumento del tasso di disoccupazione salito al 14,0% sul totale della popolazione attiva presente nel Mezzogiorno (nel 1977 esso era pari al 10,1% e nel 1981 al 12,2%) rilevando infatti i segni di un pericoloso processo involutivo (tav. 4).
L'andamento della disoccupazione nel Mezzogiorno - in assenza di elementi nuovi che inneschino vasti processi di rivitalizzazione dell'intero sistema economico -subirà probabilmente anche in una prospettiva di medio termine una ulteriore accelerazione. I ritmi di crescita delle forze di lavoro, alimentati sin nel recente passato anche dalla emigrazione di ritorno, appaiono infatti destinati ad essere sostenuti per il prossimo decennio da una crescita demografica ancora in netta progressione.


Il rapporto tra flusso potenziale di entrata e flusso potenziale di uscita nel mercato del lavoro evidenzia nelle regioni meridionali una decisa prevalenza a favore del primo (tav. 5). Questa è destinata peraltro a protrarsi ben oltre il 1991, anno in cui è previsto a livello nazionale - in conseguenza del calo demografico delle regioni del Centro-Nord - un regresso della popolazione al di sotto della soglia del 1981 (tav. 6)(5).
Entro il 1991 - secondo le proiezioni di Futurama - per mantenere nel Mezzogiorno, che avrà in quell'anno una popolazione di 21.322.700 unità (contro i 20.355.400 del 1981), il tasso di disoccupazione ai livelli attuali sarà necessario creare 554.542 nuovi posti di lavoro.
Nel Centro-Nord, dove la popolazione prevista ammonterà a 35.466.000 unità(contro i 36.784.900 del 1981) i nuovi posti di lavoro necessari a mantenere gli attuali livelli di disoccupazione dovranno essere al contrario 106.312 (tav. 7).

Ancora più sconfortante e sature di forti preoccupazioni appaiono le previsioni nel medio periodo elaborate nell'ipotesi della piena occupazione.
Per raggiungere tale obiettivo nel Mezzogiorno le proiezioni di Futurama fissano nel numero di 1.511.950 i nuovi posti da creare entro il 1991 a fronte di 1.128.948 di nuovi posti necessari per il Centro-Nord (tav. 8).
I dati sull'andamento - attuale e futuro - delle forze di lavoro sono sufficienti a chiarire che le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno, pur dovendo necessariamente muovere dalla ricostituzione delle condizioni e dei presupposti per la ripresa del processo di espansione, del tessuto industriale, devono superare il momento della crescita esclusivamente del secondario. Esse devono legarsi ad un processo di riqualificazione, oltre che di crescita, dell'intero sistema economico-produttivo e infrastrutturale che stimoli il dinamismo all'interno dei vari settori, solleciti la formazione e l'impiego di adeguate risorse finanziarie ed imprenditoriali locali e richiami l'interesse di quelle esterne in un disegno globale che superi lo spontaneismo e punti a creare le condizioni per una progressiva modernizzazione.
La esigenza di perseguire il duplice obiettivo della riqualificazione e della crescita globale dell'apparato economico meridionale emerge in maniera assai chiara dalla osservazione della distribuzione degli occupati nelle diverse branche di attività (tav. 9).

Ad una persistente asfissia, denunciata dai ritmi di crescita del tasso di disoccupazione, si accompagno infatti, nel sub sistema meridionale, una precarietà diffusa che mette a nudo la intrinseco debolezza di tutti i settori.
Sia l'agricoltura, con un indice di addetti sulle forze di lavoro occupate pari al 19,4% contro l'8,3% del centro-nord e l'11,8% della media nazionale, sia l'industria, con un indice di addetti pari al 25,0% contro il 38,2% del centro-nord ed il 34,1% della media nazionale, sia infine le altre attività, con il 55,8% degli addetti rispetto al 53,5% del centro-nord ed il 54,1% della media nazionale, tradiscono un sistema pericolosamente avvitato su sè stesso.
L'eccessivo carico di manodopera agricola infatti nasconde una situazione di persistente degrado dell'agricoltura meridionale compressa fra la difficoltà di reggere il mercato e la incapacità di puntare decisamente ad un processo di industrializzazione che si sviluppi a monte e a valle delle produzioni agricole. Lo scarso peso della occupazione industriale costituisce la riprova della perdurante debolezza di un settore che tuttavia rimane fondamentale per qualsiasi progetto di rilancio e sviluppo del Mezzogiorno. Dopo aver prodotto uno sforzo intenso proponendosi, negli anni '70, quale autentica occasione di decollo per molte aree del Mezzogiorno, attualmente esso subisce gli effetti di un ridimensionamento che, se non rimosso, si ripercuoterà sempre più pesantemente sulla prospettiva di crescita dell'intero apparato economico meridionale.
Il settore terziario infine, pur evidenziando un carico di addetti, addirittura superiore (55,6%) a quello del centro-nord (53,5%) e dell'Italia (54,1%) costituisce il punto molle del subsistema meridionale.
Tuttora rifuguio per eccellenza, esso esprime soltanto nella pubblica amministrazione una componente quantitativamente solida e rilevante mentre presenta una situazione di diffusa precarietà all'interno delle altre attività.

Organizzazione economico, formazione delle risorse e andamento degli investimenti nel sub-sistema meridionale.
Lo scarso peso di attività moderne, all'interno delle varie branche economiche, la carenza della cultura dell'innovazione unita alla insufficiente comprensione (e diffusione) dei servizi reali alla produzione intesi quali strumenti di supporto per lo sviluppo del sistema economico segnano profondamente la realtà delle regioni meridionali.
Il degrado delle aree metropolitane totalmente prive di qualsiasi ruolo direzionale e la precarietà delle infrastrutture pubbliche rappresentano inoltre altrettante strozzature che alimentano i rischi di involuzione presenti nel modello localistico meridionale e impediscono il superamento del processo evolutiva "spontaneo" ritardando l'avvio della fase dello sviluppo guidato.
Le sfide poste al sistema economico dall'attuale momento storico non tollerano impostazioni improvvisate nè lasciano margini a soluzioni spontaneiste. Il processo di ristrutturazione basato sul decentramento produttivo dell'industria settentrionale ed europea che tanta parte ebbe nell'alimentare il localismo meridionale è stato ormai definitivamente soppiantato da un processo di ristrutturazione basato sulla innovazione tecnologica interno che ha condotto ad un rapido inaridimento dei flussi di investimento per nuovi insediamenti, indispensabili per l'espansione del tessuto produttivo e dell'intero sistema economico delle aree meridionali.


L'andamento del valore aggiunto al costo dei fattori (tav. 10) e l'andamento degli investimenti lordi per settore di utilizzazione (tav. 11) nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord fra il 1974 e il 1983 (analizzato dalla SVIMEZ nel rapporto 1984) evidenziano in termini macroscopici la persistenza del divario fra i due sub-sistemi mentre le variazioni percentuali fra il 1974 ed il 1983 riferite ai due parametri confermano in linea generale la scarsa accelerazione della crescita del Mezzogiorno (che - non bisogna dimenticare - muove da valori notevolmente più bassi rispetto a quelli riscontrabili nel centro-nord) rispetto al centro-nord che peraltro registra una prevalenza netta degli investimenti nel settore industriale (tav. 12).
La tendenza di lungo termine riscontrata fra il 1974 ed il 1983 trova altresì conferma nel raffronto fra andamento del valore aggiunto e andamento degli investimenti nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord nel 1982 e nel 1983 (tav. 13).
Mentre il maggiore incremento di valore aggiunto registrato dalle regioni meridionali rispetto a quelle settentrionali nei diversi settori produttivi appare comunque insufficiente - considerati i valori assoluti di partenza - ed alimentare prospettive di immediato superamento del divario esistente, suscita gravi preoccupazioni l'andamento degli investimenti.
Se lo scarso incremento degli investimenti nell'agricoltura meridionale e nei servizi - entrambi notoriamente relegati in posizioni di assoluta marginalità - appare decisamente lontano da livelli necessari a perseguire obiettivi di riorganizzazione e di efficienza, il crollo degli investimenti nell'industria meridionale (-2,2% nel 1983 rispetto al 1982) allontana qualsiasi illusione circa le reali possibilità di una crescita rapida e consistente e sostenuta essenzialmente da un processo di crescita autopropulsivo.

Localismo e sviluppo
Nonostante la trentennale esperienza dell'intervento straordinario perseguito attraverso l'opera della Cassa per il Mezzogiorno che ha alimentato - e stimolato - un notevole flusso di risorse finanziarie nelle regioni meridionali il divario nord-sud non solo non appare colmato ma si ripropone in termini macroscopici sulla base di un crescente divario tecnologico che strozza gli investimenti ed emargina - complice un apparato di infrastrutture e servizi insufficiente e precario - il sistema produttivo meridionale innescando pericolose spinte involutive.

 

Dopo i fenomeni di crescita e diffusione del localismo industriale che, negli anni '70, hanno proposto, in maniera più o meno definita, una nuova geografia dello sviluppo nelle regioni meridionali, è andata emergendo prepotentemente la esigenza di un processo evolutivo diverso, più ampio e complesso. Partendo dalle risorse liberate dal localismo, esso dovrà superare i limiti e interessare le diverse branche del sistema economico, ma soprattutto dovrà passare attraverso il recupero ad un ruolo dinamico delle aree metropolitane, centri nevralgici, della organizzazione sociale ed economica del Mezzogiorno, e la riproposizione delle infrastrutture sul territorio e del territorio stesso - nelle sue molteplici potenzialità - quali irrinunciabili presupposti e occasioni - di sviluppo.
Accanto alla valorizzazione ed al corretto uso delle risorse la diffusione della terziarizzazione e la crescita delle attività di servizi a supporto della produzione costituiscono altrettante condizioni di rivitalizzazione del sistema.
Infatti il localismo ebbe come soggetto fondamentale la piccola e media impresa manifatturiera che nelle aree periferiche sembrava svilupparsi evidenziando un'accentuata subordinazione esterna e denunciando spesso una totale rinuncia all'uso delle funzioni terziarie.
Mentre le attività manifatturiere espandevano la propria presenza nel secondario, i servizi continuavano a subire l'intasamento di attività precarie e l'agricoltura e il turismo - a dispetto delle grandi potenzialità - scontavano antichi ritardi e persistenti strozzature.
Sul territorio la domanda di servizi - ma anche la richiesta di dignità e attenzione - espressa dagli emergenti centri di dimensioni piccole e medie, cresciuti per effetto del localismo industriale, si perdeva nella stagnazione delle grandi aree metropolitane e veniva frustrata dal degrado delle infrastrutture - sia quelle relative ai trasporti che alle comunicazioni - divenute ormai un decisivo - quanto intollerabile - elemento di discriminazione e di emarginazione.
L'esplosione della rivoluzione tecnologica non solo ha mutato radicalmente i termini della organizzazione dei fattori della produzione ed i metodi di approccio al mercato, ma ha altresì imposto una nuova, più complessa organizzazione del sistema economico.
Accentuato contenuto tecnologico nel processo produttivo e sofisticazione del prodotto - sia esso bene d'investimento o bene di consumo - caratterizzano le attività secondarie mentre la espansione del terziario, con la riproposizione del ruolo delle infrastrutture come strumento di supporto ed esaltazione del processo di sviluppo, la lievitazione dei servizi alla produzione, l'affermazione del management come tecnica elaborata di direzione aziendale, l'informatizzazione come tecnica di controllo, programmazione e gestione del processo produttivo e come strumento di approccio e conoscenza del mercato, permea - tutto intero - il sistema economico.
Nella nuova realtà il ritardo del sub-sistema meridionale nei confronti di quello centro-settentrionale dovrà essere superato attraverso imprescindibili processi di trasformazione e di riorganizzazione dell'intero apparato economico ed infrastrutturale.
Le prospettive di crescita del Mezzogiorno - e di salvaguardia del tessuto in esso radicatosi nell'ultimo decennio - appaiono legate fondamentalmente alla triplice possibilità di innescare ed alimentare un vasto processo innovativo che attraversi tutti i settori, di restituire alle aree metropolitane una funzione terziaria di supporto al sistema economico, di recuperare in un'ottica di sviluppo i servizi e le infrastrutture sul territorio ed il territorio stesso.

Conclusioni
Gli obiettivi posti dalle sfide degli anni '90 richiedono uno sforzo eccezionale di carattere finanziario che passa attraverso la riproporzione dell'intervento straordinario e la formulazione di una severa programmazione da parte dello stato ma presuppongono altresì il perseguimento di un disegno più ampio finalizzato a restituire dinamismo all'intero sistema economico nazionale.
Intervento straordinario e programmazione costituiscono lo strumento e il metodo di una strategia che combinandosi, a livello locale, con la capacità di guida dei soggetti istituzionali, principalmente dell'istituto regionale, e con l'impegno dei nuovi soggetti economico-sociali cresciuti nell'ultimo decennio, dovrà consentire di legare la crescita dei sistemi locali ad un progetto di sviluppo globale saldamente ancorato al contesto nazionale ed internazionale.
Il risanamento del sistema economico nazionale ed il ripristino delle condizioni funzionali ad una nuova fase di espansione dello stesso, che consenta di produrre ricchezza e liberare risorse, rappresenta infine la condizione necessaria per garantire risultati positivi all'azione di superamento del divario Nord-Sud.
In tal senso riformulazione dell'intervento straordinario a favore del Mezzogiorno e risanamento del sistema economico possono essere considerati due aspetti di un unico problema: quello di proiettare l'intero paese verso le posizioni di testa dello sviluppo mondiale.


NOTE
1) IASM "Rapporto Mezzogiorno-industria 1983". In tal senso cfr il capitolo su "dinarnica dell'industria meridionale e dei suoi settori" p. 99-116.
2) IASM "Rapporto Mezzogiorno- Industria 1983" p. 105.
3) Mariano D'Antonio: "Il Mezzogiorno negli anni'80: dallo sviluppo imitativo allo sviluppo autecentrato" Franco Angeli Editore - Milano '85 p. 15
4) IASM: "Rapporto Mezzogiorno Industria 1983" p. 102.
5) Fondazione G. Agnelli: "Atlante di Futurama" - Torino 1984. Cfr. Cap. I e Cap. II p. 49-96.


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