§ DAL RAPPORTO SVIMEZ '85 NUOVI SEGNALI D'ALLARME PER IL MEZZOGIORNO

ANCORA BUIO PER I DESTINI DEL SUD




Claudio Alemanno



Il tradizionale appuntamento con la radiografia Svimez della condizione meridionale oltre a raccogliere un compendio di risultati ancora in negativo, è sembrato questa volta adagiarsi su una rassegnata visione terzomondista della realtà presa in esame. E la conseguenza dello smottamento progressivo del sistema socio-economico meridionale spinto sempre più ai margini dei meccanismi di sviluppo imposti dalla logica post-industriale. Conviene quindi soffermarsi sull'analisi e sulle valutazioni fornite dalla Svimez ma ancor più conviene concentrarsi sulle ipotesi di strategia economica che dovrebbero dotare il Mezzogiorno di uno schema di sviluppo non divaricante nel contesto generale del sistema.
Se il Sud si allontana progressivamente dal resto del Paese, oltre a riconoscere che gli obiettivi di risanamento e sviluppo dell'area acquistano valore pregiudiziale nell'avvio di una politica generale di riordino strutturale occorre elaborare direttrici d'intervento in tempi brevi dal momento che l'attuale situazione di stallo non consente programmi con caratura idonea a rendere ipotizzabile la riduzione del divario. Ciò vale sia sul fronte dell'intervento ordinario, sia su quello dell'intervento straordinario che stenta ad assumere veste organica nel contesto generale degli interventi finalizzati ad obiettivi di sviluppo. Che non si tratti di una querula richiesta ma di una necessità concreto emerge dai numerosi indicatori disponibili. Alcuni fotogrammi sono sufficienti a delineare il quadro critico d'assieme. Nell'84 il prodotto interno lordo è aumentato in termini reali del 2,6% e gli investimenti sono cresciuti del 7,7%. Al Sud invece si registrano incrementi pari rispettivamente all'1,7% ed al 5,7%. Al Sud ancora si è fatto più ricorso alla cassa integrazione con una quota degli occupati che versano in questa situazione calcolata sul totale dei dipendenti dell'industria pari all'11,5% contro il 9% del Centro-Nord. Anche il tasso di disoccupazione è in aumento. Mentre al Nord è pari al 10,8% nel Sud ha raggiunto il 15,7% (+0,5% rispetto all'83). Se a ciò si aggiunge la nota incidenza della maggiore domanda di prima occupazione presente nel Mezzogiorno si ha il senso e l'ampiezza delle considerazioni economiche che spostano con accresciuto interesse l'angolo di osservazione sulle regioni meridionali.
In sede di analisi si possono indicare almeno due temi di riflessione con cui valutare l'accresciuto aumento del divario. Anzitutto l'inflazione che in presenza di una economia dualistica determina inevitabili fenomeni di arricchimento per i ceti forti coi conseguente impoverimento dei ceti deboli. Questa iniqua distribuzione della ricchezza interessa l'intero territorio e finisce per accentrare nelle aree meglio dotate le forme d'investimento più rilevanti causando il progressivo trasferimento di ricchezza dalle aree a più basso reddito verso quelle a reddito più elevato.
Attenta considerazione merita inoltre quel complesso di istituti e norme che si vanno articolando sotto l'etichetta di riforma dello "Stato sociale" e che trovano punto di riferimento costante nelle leggi finanziarie di fine anno.
Infatti i provvedimenti adottati con l'intento di superare gli squilibri del bilancio pubblico devono essere in qualche modo finalizzati non solo a ragioni di mero riordino contabile ma a strategie puntuali di sviluppo. E poichè l'impegno per il superamento della condizione dualistica dell'economia italiana ha sempre rappresentato un punto fermo della volontà politica e non si vede come possa essere conseguito con le sole forze di mercato, occorre prendere atto dell'anomalia di tipo strutturale che penalizza l'intero sviluppo economico nazionale e predisporre interventi con cui apportare correttivi a beneficio delle aree deboli contestuali ai provvedimenti che vengono adottati per il risanamento del bilancio dello Stato. Dai fattori di disturbo citati emergono effetti negativi che si evidenziano nelle diseconomie di localizzazione degli investimenti. le vicende del 1984 sottolineano ad esempio che la ripresa degli investimenti produttivi (+ 11,7% nel Centro Nord; + 7,3% nel Mezzogiorno) ha fatto segnare la maggiore concentrazione nel Nord ed essendo destinati principalmente all'acquisto di macchine ed attrezzature, risultano orientati verso l'aumento di efficienza dell'apparato produttivo esistente. Sembra dunque non esservi spazio per investimenti in nuove unità produttive. Ma se oltre la riconversione non si persegue l'estensione della base produttiva ogni indirizzo di politica meridionalistica è destinato al naufragio. Quindi l'impegno a creare condizioni di convenienza per la localizzazione nel Mezzogiorno di nuove iniziative deve avere carattere prioritario nel contesto della strategia di governo del sistema. Iniziative che dovrebbero nascere non solo sotto il segno dell'imprenditoria nazionale ma anche di quella estera. Va sottolineato infatti che a fronte di un accresciuto interesse internazionale per il nostro Paese si è registrato un afflusso cospicuo di capitali esteri di cui scarse tracce sono rilevabili nel Mezzogiorno. Questa circostanza va evidenziata poichè non è pensabile di escludere il Sud dal processo di internazionalizzazione in atto.
Il rapporto Svimez costituisce l'ultimo ma non l'unico grido d'allarme sulla condizione meridionale. Ricordiamo tra le voci più autorevoli e preoccupate quelle del Governatore della Banca d'Italia e del Presidente del Consiglio. Tuttavia l'impegno per eliminare nel concreto i dislivelli di produttività e predisporre infrastrutture funzionali per la crescita industriale delle aree deboli implica una strategia complessa se si vuole uno schema di sviluppo globale, che passa attraverso scelte legislative ed amministrative necessariamente interrelate. Invece si assiste ad una palese incongruità tra obiettivi e strategie; mezzi e fini; impegni assunti ed esercizio quotidiano di governo e di proposte. L'ultimo evento significativo è emblematico. Mentre il meridionale imperfetto, per l'ansia atavica di dover convivere con un destino precario e subalterno, tira un sospiro di sollievo per i pallidi brandelli di speranza offerti con il varo del primo piano triennale, il meridionalista distaccato ed attento al dinamico evolversi delle regole che governano l'economia contemporanea deve registrare in quei brandelli di speranza un momento di sconfitta, un'altra testimonianza della sua solitaria presenza nel panorama politico e culturale italiano. ti documento approvato dal Cipe non si discosta dalla logica tradizionale seguita nella gestione dell'intervento straordinario. Alla genericità degli obiettivi e dei contenuti si aggiunge in negativo anche l'incertezza sui centri d'imputazione degli oneri di finanziamento. Si attendeva su questo versante snellezza di procedure e flessibilità di manovra; si raccolgono invece nuove offerte di amorevole impegno disseminate lungo tracciati guidati da una stagnante e granitica burocrazia.
C'è da chiedersi se il "verbo" meridionalista che per il dopo - Cassa sollecitava una deregolamentazione normativa come condizione preliminare per una nuova gestione dell'intervento straordinario non sia ormai aria fritta da consumare solo nei cenacoli di un Sud separato. Questa esperienza poco edificante implica nuovi impegni di lavoro per quella razza di solitari soloni che tenta di promuovere il decollo della realtà economica meridionale. Impegni colati tutti nella cultura dell'impresa e del "buongoverno" e quindi dialetticamente orientati a produrre occasioni dì riflessione e di dialogo con il management del Nord ed i laboratori di decisioni politiche. Per rimuovere anzitutto il sistema delle secche di una geografia di potere che a tutti i livelli ha ritenuto di gestire la questione meridionale con l'impegno prevalente se non esclusivo dell'intervento straordinario. Perpetuare questa linea significa sancire il continuismo della logica nordista nelle decisioni d'impresa e di governo.
Ma ciò conduce a tenere la crescita al passo di chi vuole occuparsi dell'esistente, scrollandosi di dosso impegni di lavoro e strategie dì risanamento di lungo periodo. Ai meridionalisti incombe l'onere di un solido impegno in quest'ultima direzione al fine di promuovere strumenti concreti per l'organizzazione di un possibile mercato nazionale unitario. La provocazione va quindi indirizzata lungo precise direttrici connesse alla gestione dell'intervento straordinario che, al di là dei fattori dì efficienza e semplificazione che pure reclama, deve comunque risultare interrelata con gli obiettivi di una non più procrastinabile politica generale di risanamento e di crescita nel cui contesto vanno situate le linee d'azione del riequilibrio Nord-Sud. Ne consegue che l'analisi delle aree d'intervento diventa più complessa rispetto al passato imponendo indagini comparate e modelli econometrici non più circoscritti ad ipotesi di "studio stanziale" che implicano di fatto l'isolamento del sistema economico meridionale. Alla luce dei dati forniti dal rapporto Svimez un quadro di sintesi delle direttrici lungo le quali muovere con carattere prioritario il procedimento di riordino delle strutture interne merita comunque di essere delineato in vista della individuazione delle aree che si vogliono attrezzare con obiettivi di sviluppo reale. Naturalmente occorre riconoscere che per una parte estesa del territorio meridionale e per un periodo certo non breve l'industrializzazione non potrà più fare affidamento sui grandi impianti. Ciò non significa negare l'esigenza di un'industrializzazione diffusa ma semplicemente riconoscere che questa non si identifica solo con la localizzazione di impianti ma richiede la nascita e la diffusione dì imprese. Impegno più difficile da assolvere in un contesto ambientale non sviluppato secondo logiche d'insediamento industriale. Di queste difficoltà sia il sistema di incentivi finora praticato, sia quello disegnato per il futuro non sembra tenere conto. Non è alla dimensione dei fattori impegnati nella produzione o al loro rapporto dì combinazione che possono imputarsi le difficoltà di sviluppo dell'impresa nel Mezzogiorno. Esse attengono più direttamente alla natura ed alla dimensione del suo mercato ed al ritmo con cui si esplica il processo di riconversione e d'innovazione produttiva. Certo è difficile immaginare come un sistema di incentivi, pur perfezionato e snellito, possa compensare la carenza di condizioni ambientali idonee che solo le regioni industrializzate possono offrire. Perciò tra le opzioni possibili sembra opportuno avviare nell'immediato azioni dirette allo sviluppo di servizi di supporto all'attività d'impresa nelle principali città meridionali predisponendo metodiche d'integrazione tra queste città e le grandi aree-mercato nazionali ed europee e progetti di diffusione sul territorio circostante di adeguate economie di urbanizzazione. Uno schema globale all'interno del quale svolgere azioni coordinate dunque s'impone. la questione urbana assume, più che nel passato, rilievo essenziale nell'assetto dell'economia meridionale poichè l'auspicato sviluppo delle imprese è condizionato dalla presenza nell'area di servizi e funzioni ad esso complementari. Esigenza questa che nelle regioni a forte industrializzazione è stata già spontaneamente soddisfatta in parallelo con la crescita graduale dello spazio-mercato.
Sarebbe fondamentale sotto questo profilo lo sviluppo di programmi triangolari (Regione - Università - Imprese) che in un primo approccio potessero affidarsi ad una domanda di ricerca e di formazione proveniente dal settore pubblico. Questa domanda potrebbe anche avere dimensioni cospicue qualora si decidesse di realizzare programmi di riorganizzazione delle strutture pubbliche in vista di un'efficiente offerta dì servizi e più in generale di costituire strutture atte ad utilizzare capacità tecnico-scientifiche e manageriali necessarie per assolvere responsabilità di programmazione, gestione e controllo che i processi di decentramento amministrativo costantemente sollecitano. Questa ipotesi di lavoro, cara tra l'altro a Saraceno, a Cafiero ed ai principali collaboratori della Svimez, nel sollecitare la richiesta di coordinamento dei propositi di riforma nei settori della casa, della sanità, della scuola, della ricerca e dei trasporti con l'obiettivo programmatico dell'organizzazione e dell'ampliamento del mercato meridionale giustamente propone stimoli per l'unificazione economica del Paese più concreti rispetto al modello di welfare state finora praticato. Se la logica assistenziale che contraddistingue questo modello viene usata ancora nel futuro non si potrà che consolidare il dualismo e dare risposte effimere solo alle esigenze immediate di controllo della congiuntura.
Accettare l'obiettivo meridionalistico significa inoltre accettare le conseguenze che ne derivano sul fronte di una politica industriale necessariamente condizionata dalla questione occupazionale. Su questo tema circolano due documenti autorevoli e di sicuro interesse: il Rapporto Rebecchini, conclusivo dell'indagine conoscitiva condotta dalla Commissione Industria del Senato, con cui si traccia una strategia industriale per allentare il vincolo estero che condiziona lo sviluppo economico italiano ed il Piano decennale per l'occupazione predisposto dal Ministero del lavoro. Ognuno di questi documenti segue una logica diversa ed in ciò è ravvisabile un primo limite del poderoso lavoro svolto. Il Rapporto Rebecchini sottolinea in particolare l'intreccio tra squilibri strutturali e sviluppo industriale e formula proposte di transizione verso scenari in rapido mutamento che pur apprezzabili in sè, lasciano tuttavia in ombra gli aspetti sociali di una crescita industriale coordinata con le tematiche del l'occupazione. Prospettare uno scenario di politica industriale in senso meridionalista vuoi dire anzitutto bloccare gli effetti devastanti della degenerazione delle università concepite come fabbriche di titoli che creano aspettative di "status" proprie di società stratificate e stagnanti. Per questa via viene immesso sul mercato del lavoro un crescente numero di persone che per cultura acquisita non sono disponibili al lavoro salariato e per istruzione inidonea non sono utilizzabili per le carriere direttive. Si viene così a creare un esercito di candidati al lavoro esecutivo che finisce per premere sulle burocrazie pubbliche e parapubbliche dando luogo a fenomeni di ampliamento di organi che accentuano proprio quelle caratteristiche di pletoricità ed inefficienza che si ritiene di dover superare in sede di riordino delle strutture amministrative. Sarebbe invece di importanza decisiva, molto più che nel Nord industrializzato, l'affermarsi di una istituzione universitaria concepita come struttura di ricerca ed assistenza tecnica, sostanzialmente aperta al collegamento con organismi ed operatori economici. Sotto questo profilo torna in evidenza la problematica sulla questione urbana per le connessioni che inevitabilmente si presentano con le esigenze di un moderno sviluppo industriale. In quest'ottica vanno anche considerati i problemi posti dalle condizioni di insediamento e di mobilità territoriale in rapporto alle capacità di attrazione esercitato dai maggiori bacini di manodopera.
In ordine alle proposte di politica industriale in senso proprio occorre approfondire in sede preliminare le indagini sul livello e sulle potenzialità d'industrializzazione presenti nelle diverse aree del Mezzogiorno, tenendo conto che la localizzazione di imprese va sempre integrata con interventi coordinati sul territorio.
Altro problema è poi quello di individuare i settori in cui orientare la maggiore diffusione di attività imprenditoriali e predisporre gli incentivi idonei per il loro insediamento operativo. è difficile proporre un solo obiettivo come è difficile ignorare la presenza di gruppi strategici e di aziende già impegnate nei settori tradizionali (meccanico, tessile, manifatturiero). Certo occorre guardare al di là dei fenomeni di ristrutturazione in atto che interessano tanto il settore pubblico quanto quello privato, partendo da un'analisi che tenga conto della competitività complessiva dei sistema industriale. Proprio sulla base dell'evoluzione più recente si può affermare che l'apparato industriale risulta meno impegnato nei settori a tecnologia innovativo (microelettronica, robotica, farmaceutica, chimica specialistica, biotecnologie) e sottodimensionato per grado e qualità di internazionalizzazione. Inoltre la nascita di nuove imprese avviene in prevalenza nei settori tradizionali a differenza di esperienze estere (ad esempio negli USA) dove la componente innovativa pone le imprese minori in prima fila nel promuovere il mercato delle nuove tecnologie. Gli spazi che si aprono all'attività d'impresa nel Mezzogiorno vanno quindi coniugati con queste esigenze di generale potenziamento dell'apparato industriale.
Ma una politica di stimolo all'innovazione in aree non sviluppate implica decisioni macroeconomiche che investono la sfera dell'impegno finanziario, dell'organizzazione e localizzazione delle attività di ricerca, delle relazioni industriali, nei rapporti Università-Industria, della dimensione internazionale del mercato interessato ai prodotti e servizi offerti.
Tuttavia se l'impegno nelle nuove tecnologie non diviene fattore aggregante di una politica industriale per il Mezzogiorno sarà difficile evitare la dispersione degli obiettivi e degli interventi. Sotto questo profilo l'azione pubblica, sia con l'impegno ordinario, sia con l'impegno straordinario, denuncia ritardi e forme d'intervento episodico e casuale in netto contrasto con la gravità dei problemi che si vanno accumulando. Emerge perciò la necessità di introdurre nell'esercizio quotidiano della funzione decisionale, a qualunque livello svolta, una forte aliquota di presenza meridionalista orientato ad elaborare strategie di sviluppo di sicuro interesse generale. è difficile in fondo immaginare per il Paese un destino diverso da quello che si riuscirà a costruire per il Mezzogiorno.


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