Il
"sistema Italia" vive ormai due realtà separate. Come
una grande montagna che col tempo si è spaccata a metà:
da un lato vive un sottosistema sociale, dinamico e in continua metamorfosi;
dall'altro vegeta un sottosistema politico, rigido e incurante degli
interessi collettivi. In mezzo non c'è più nulla. Nessuno
che riesca a saldare i due lati della montagna. Nessuno che governi
la complessità.
Finora è stata la società civile a tenere a galla le sorti
del paese. E questo fatto non ha certo invogliato la classe politica
a formulare una linea di sviluppo al passo con i tempi. Anzi: il crescente
deterioramento della sua forza rischia oggi di avere effetti perversi.
A questo punto, "l'alibi della forza permanente del vitalismo spontaneo"
non regge più. Non si può, con esso, sperare di risolvere
i complessi problemi-sistema e compensare così l'inettitudine
della classe politica. Il vitalismo stesso ha bisogno di essere razionalizzato.
In caso contrario, le energie sprigionate dalla società andranno
per lo più disperse o, comunque, alimenteranno una spirale di
forme e processi degenerativi. E' questo il monito con cui il Censis,
nel 19° apporto sulla situazione sociale del paese, preannuncio
il suo cambiamento di rotta. Da sempre del parere che la politica fosse
qualcosa di superfluo, incapace di influire sui processi di rinnovamento
della società, giunge ora alla constatazione che solo una ristrutturazione
pubblica potrà assicurare la sana crescita del paese. Fino a
questo momento le imprese hanno reagito da sole alla crisi. Da sole
si sono risanate. Ma lo sviluppo è diventato un fatto privato
e tende al consolidamento dell'esistente. E così mentre solo
alcune imprese avanzano, nel complesso il paese ristagna.
Lasciati a se stessi i problemi-sistema non fanno che aggravarsi. Dalla
spesa pubblica alla riforma dello stato sociale, al rafforzamento della
sicurezza collettiva: le decisioni non sono decisioni. A meno che per
decidere non s'intenda stabilire cose che non si verificheranno mai.
Qualche politico ha detto che il vero nemico da abbattere è il
catastrofismo. Sarà. Resta il fatto che i mancati interventi
del governo sulla spesa pubblica e sullo stato assistenziale stanno
portando al degrado del sistema democratico. E, in questa realtà,
ci riesce difficile intravedere qualcosa di positivo o, comunque, di
meno catastrofico.
Positiva è la vitalità dei soggetti semplici. Ma questo
non ha niente a che vedere con l'intervento politico. Anzi, proprio
la mancanza di decisioni di parte politica ha indotto aziende e famiglia
a elaborare strategie sempre più sofisticate atte a svincolarle
dalla morsa statale; e a sostituirsi allo Stato nella creazione di quei
servizi che esso non riesce più a dare.
Vitalità
dei soggetti semplici
Naturale che si tratti della vittoria degli egoismi e dei particolarismi.
Ma come biasimarla? I soggetti semplici sono stati gli unici a rispondere
con efficienza all'inefficienza. Da essi trae forza e sostegno tutto
l'apparato parassitario statale. Così è sempre stato.
E' vero: la mobilità comporta una lunga serie di devianze,
di illeciti. E l'illecito non ha mai una giustificazione. Ma si tratta
di ingiustizie che nascono da altre ingiustizie: quelle di un "pubblico"
che non sa (o non vuole più) svolgere la sua parte. Che preferisce
dibattere animatamente su "questioni specifiche di basso livello"
(sull'ora di religione, per esempio), mentre i problemi (quelli veri)
lo sovrastano, difficili da abbattere ormai. A questo punto, ogni
moralismo è fuori posto. E' incoerente lasciarsi turbare dal
sommerso e, nel contempo, ignorare le cause che favoriscono il suo
moltiplicarsi. Così come diventa assurdo continuare a pagare
allo Stato il costo dei servizi precari e molte volte inesistenti
quando, essendo ormai scomparsa la fiducia nel pubblico, anche i meno
abbienti si rivolgono al privato per ottenere prestazioni di qualità.
Nella vitalità dei soggetti semplici il Censis individua una
corso all'individualismo, alle scelte autonome e quindi incondizionate.
Basta una più attenta riflessione per scoprire che così
non è. E che il vitalismo si è trasformato in spirito
di conservazione, lotta per la sopravvivenza. Il dirigismo in atto
è tutto volto a impedire la crescita del microcapitalismo.
Ma questo porto solo al rafforzamento del "gene egoista"
dei soggetti semplici, e allora, occhio per occhio, dente per dente:
i depredati diventano predatori. Così famiglie e imprese spogliano
lo Stato delle "provvidenze", per ottenere le quali lo Stato
continua a depredare famiglie e imprese. Sembra un gioco di parole.
E', invece, un circolo vizioso e ingiusto. Nel senso che solo i più
furbi se ne avvantaggiano. Ne viene che la prosperità di taluni
si basa sul malessere di altri. E che i ricchi diventano sempre più
ricchi; i poveri sempre più poveri.
La famiglia
E' il soggetto semplice per eccellenza. Reagisce alla crisi del Welfare
State trasformandosi (diventa "lunga"), cambiando le sue
scelte (diventa "combinatoria"), proteggendo i suoi membri
(diventa "tutelatrice").
Quello della famiglia lunga è un fenomeno insolito e finora
inesplorato. Giovani e meno giovani preferiscono restare più
a lungo con i genitori. Vivono, infatti, con la famiglia di origine
il 31 % delle persone di età compresa tra i 25 e 34 anni, nonché
il 54% dei laureati. Non si tratta - dice il Censis - solo di una
questione di necessità: il 55% di resta in famiglia ha già
un lavoro.
Ma il ruolo di questo soggetto non si ferma qui. Esso reagisce al
problema della disoccupazione tramandando il lavoro del padre al figlio.
Da sempre esistente nei settori dell'artigianato tradizionale, delle
attività imprenditoriali ed autonome e delle libere professioni,
il fenomeno si sta estendendo anche al lavoro dipendente. In molte
aziende pubbliche è stato già istituzionalizzato e,
quindi, reso oggetto di contrattazioni sindacale. Nelle altre si manifesta
attraverso contrattazioni informali.
Altro aspetto interessante: la famiglia agisce secondo la logica sistemica
tipica dell'azienda. Tutte le scelte sono volte a ottenere le migliori
prestazioni. Combina, quindi, convenientemente, servizi pubblici e
servizi privati, mostrando di privilegiare questi ultimi soprattutto
nei settori sanitario e formativa.
Ma è nella gestione del risparmio che la voglia di capitalismo
della famiglia si manifesta in tutta la sua forza. Gli investimenti
in Bot e Cct si sono rivelati una vera manna per i risparmiatori.
Alti tassi di interesse e totale esenzione fiscale sono le condizioni
offerte per il loro acquisto. Difficile resistere. E così,
circa un terzo del risparmio familiare è andato a ingrossare
le casse statali. Un affare? Per la nostra economia non è che
l'ennesima burla di un'amministrazione - quella pubblica - fin troppo
allegra. Ma nessuno ride più. Quantità enormi di risorse
sono stare sottratte alle forze attive del paese per finanziare le
spese improduttive dello Stato. Un'operazione, questa, che, al di
là di egoistici interessi individuali, costa cara a tutti.
Soprattutto alle imprese, che sono costrette a pagare il denaro il
triplo dei loro concorrenti stranieri. Ma anche alla pubblica amministrazione
che, se non ci sarà un'inversione di tendenza, tra pochi anni
dovrà destinare l'intero gettito Irpef al pagamento degli interessi
su titoli.
Comunque, c'è un fatto positivo da rilevare: ed è che,
nonostante la fortissima tentazione rappresentata dai titoli di Stato,
le famiglie hanno finanziato le imprese più di quanto non avessero
mai fatto prima: il 28% del risparmio familiare risulta, infatti,
investito in azioni di imprese produttive.
Le Imprese
Il dinamismo delle imprese emerge dalla velocità con cui esse
hanno saputo rinnovarsi. E' un dinamismo tuttora presente. Tuttavia,
non si può fare a meno di notare la scissione che si è
verificata, all'interno dell'apparato produttivo italiano, tra coloro
che hanno avviato un profondo processo di ristrutturazione e coloro
che non sono riusciti ad attuare alcun rinnovamento. Nel triennio
82/84 il 6,4% delle aziende non si è rinnovato; mentre, ben
il 50% di esse ha cambiato in profondità i suoi assetti.
Nel difficile processo di ristrutturazione le imprese hanno seguito
sentieri autonomi. Ne derivano comportamenti differenziati: il 16,4%
di esse ha realizzato un solo tipo di innovazione; il 30,4% ne ha
effettuate due; il 29,8% ne ha introdotte tre; mentre, il 17% ha operato
quattro e più nuove realizzazioni tecnologiche.
Si tratta, peraltro, di una ristrutturazione ottenuta attraverso l'impiego
di lavoro più qualificato e di capitale più efficiente,
nonché tramite un'intensificazione del grado di sfruttamento
dei fattori produttivi. In questo modo è stato privilegiato
l'obiettivo della redditività e resa molto modesta la crescita
del potenziale produttivo.
Il processo di razionalizzazione della struttura industriale ha avuto
un enorme merito: l'aver elevato la base qualitativa dei prodotti
cosiddetti tradizionali, per i quali si è così verificata
una diminuzione dell'elasticità di prezzo delle esportazioni
e un aumento di quella delle importazioni.
Altro aspetto rilevante dell'industria italiano è la sua attività
multinazionale. Dal 1980 al 1984 gli investimenti nazionali in paesi
stranieri sono cresciuti del 442,6%. Notevole è anche il flusso
di capitali stranieri in Italia; flusso generalmente diretto all'acquisto
di imprese già operanti sul mercato.
Critico lo stato occupazionale. C'è da dire, comunque che l'espulsione
delle tute blu non è ancora iniziata, ad eccezione del settore
delle macchine utensili, dove il 61,9% delle imprese espelle manodopera.
In molti settori vi è sostanziale stabilità. Crescono
gli occupati (+ 144 mila unità); ma crescono anche, e in misura
maggiore, le persone in cerca di prima occupazione (+ 152 mila unità).
Un dato preoccupante: sono un milione 808 mila i giovani in cerca
di lavoro, dei quali ben 687 mila sono forniti di laurea o di diploma
di scuola media superiore.
Calano gli addetti all'industria del 2,2%. Anche l'agricoltura continua
a sopprimere inesorabilmente posti di lavoro (-3%). Aumenta invece,
anche se in misura decrescente rispetto allo scorso anno, l'occupazione
nel terziario (+3,2%).
Il dinamismo dell'impresa ha sentenziato la crisi del sindacato. Dice
il Censis: "Di fatto, il sindacato è escluso da ogni possibilità
di incidere in tutta la tematica dell'innovazione, su cui, in realtà,
si gioca il futuro". In questo campo, infatti, le imprese che
decidono da sole sono il 74,5%. Le cose non migliorano quando si tratta
di contrattare le mansioni o la gestione del personale (il 50% delle
imprese non vuole intermediari). Solo per quanto riguarda i licenziamenti
e cassa integrazione i sindacati possono ancora dire la loro, anche
se il loro campo di azione è notevolmente limitato, non potendo
fare altro che salvare il salvabile.
Purtroppo i risultati raggiunti dalle imprese sono fragili. Su di
essi pesa una situazione generale molto preoccupante. Infatti:
a) l'alta inflazione, aumentando i costi di produzione e, quindi,
i prezzi delle merci, rende meno competitivi i nostri prodotti rispetto
a quelli dei paesi concorrenti. Per poter vendere le merci nazionali
agli stessi prezzi praticati dagli altri paesi, le nostre imprese
sono costrette a rinunciare agli alti profitti, pregiudicando così
il loro futuro. Si produce infatti una bassa accumulazione che porta
lentamente, ma inesorabilmente, al degrado della nostra base produttiva;
b) gli alti tassi di interesse di Bot e Cct, come abbiamo già
detto, esasperano la situazione. Le banche, infatti, per reggere la
concorrenza del Tesoro, sono costrette ad offrire compensi più
alti a chi presta loro denaro. Per coprire questo maggior costo, aumentano
i tassi di interesse sui finanziamenti concessi alle aziende. Ecco
perché le imprese, ristrutturandosi, hanno dovuto trovare condizioni
di profittabilità a livelli di produzione quantitativamente
più bassi; e oggi producono e occupano molto meno di prima,
con gravi effetti (diretti) sulla produzione totale e (di ritorno)
sulle stesse imprese.
Apparato statale
Il dubbio è forte: esiste ancora uno Stato?
Quasi si stenta a riconoscerlo. Eppure c'è. Trasformato in
una enorme buco nero che attrae e disperde ogni energia positiva.
Ma c'è. Affatto avaro, abbonda nei finanziamenti a fini di
sviluppo. E non sa che esso stesso, con tutti i suoi cavilli, è
barriera, orami difficilmente valicabile, a tale sviluppo. Nessuno
più si chiede dove sia andato a finire il suo ruolo di guida,
di raccordo delle decisioni della collettività: "II potere
è il luogo che bisogna avere il coraggio di non occupare mai".I
politici rifuggono dalle loro responsabilità e, di fronte alle
difficoltà che il riordino di uno Stato "gonfio ed eccedentario
" comporta, cercano sempre più di separare il loro destino
da quello, appunto, dello Stato. E a chi si chiede se esiste ancora
una classe politica, essi rispondono dando prova di grande fermezza
in materia di politica estera o esercitando poteri di veto su realtà
sociali ormai più veloci di loro.
Servizi pubblici
a) Sanità
Siamo il paese che ha una percentuale di personale sanitario pubblico
fra le più alte nel mondo: 17 medici e 51 infermieri ogni 100
posti letto. Ma siamo anche il paese che, in tema di mortalità
infantile, supera di due punti la media Cee; in cui aumento la mortalità
per motivi cardiocircolatori; e in cui crescono smisuratamente i decessi
per disturbi psichici. Il motivo è semplice: assoluta mancanza
di personale specializzato. Perché non è chi ha una
specializzazione che può accedere alle Usi, ma solo chi è
dotato di benemerenze politiche. Logica disumana, trattandosi di un
settore tanto vitale. La riforma delle Usi resta un sogno. Stesso
fine è toccata alla miniriforma , che alcune forze politiche
hanno bloccato perché ritenevano costituisse un tentativo di
snaturamento delle Usi. E si chiedeva solo di allentare un po' la
presa dei politici sulla sanità. Difficile riconoscere proprio
in quei partiti da sempre schierati in prima fila contro le spartizioni
politiche gli artefici della mancata miniriforma. Eppure, congelando
la legge, essi hanno detto no alla proposta di commissariare le Usi
più sprecone; no alla richiesta di revisori di conti professionali;
no ancora alla creazione dì una maggioranza che governa e di
una minoranza che controlla. Di conseguenza, e in questo andando contro
ogni loro dichiarato principio, hanno acconsentito ai clientelismi,
alla deresponsabilizzazione. Per quanto ancora?
I primi a lamentarsi sono i medici. Chiedono che la struttura Usi
sia divisa in due livelli: quello politico, da assegnare ai comitati
di gestione, e quello operativo, da affidare agli esperti. In attesa,
le famiglie cambiano le loro abitudini: si pagano i servizi privati,
dotati di prestazioni dì alta qualità e ripiegano sul
medico delle Usi solo per i disturbi più lievi.
b) Previdenza
Lo sfascio dell'Inps è noto. Ma forse è utile ricordare
alcune assurdità di gestione: nessuno sa quanti siano esattamente
i crediti accumulati verso i contribuenti morosi (giusta ricompensa
per una politica troppo permissiva nella concessione di dilazioni
di pagamento). Si parla di 15 mila miliardi. Nessun dato certo però,
poiché caratteristica dell'Inps è l'assoluta incapacità
di compiere verifiche. E così si giunge oggi alla constatazione
che se l'Inps è nei guai, non è solo perché sperpera
troppo e inutilmente, ma anche perché incasso troppo poco.
Altra sua colpa è non aver perseguito l'evasione. Inutile lamentarsi,
allora, se il 43% delle aziende e degli artigiani sfuggono totalmente
al pagamento dei contributi (i contributi evasi si aggirano intorno
i 13 mila miliardi).
Altri dati: l'Italia è ancora un paese di pensionati poveri
(e, questo, nonostante le pensioni di vecchiaia liquidate negli ultimi
anni si siano attestate su livelli soddisfacenti anche rispetto alla
media europea): infatti, il 65% delle pensioni che l'Inps paga ai
lavoratori dipendenti e il 99% di quelle che paga agli autonomi sono
pensioni minime e uguali per tutti.
c) Scuola
Le anomalie del sistema scolastico sono enormi. Manca soprattutto
il necessario coordinamento scuola-formazione-mondo del lavoro. Esiste
invece tutto un groviglio di competenze (nella gestione della scuola,
della ricerca, della formazione) che appesantisce il sistema, rendendolo
insensibile alle esigenze poste dalla realtà sociale. Nessuna
cultura dell'innovazione viene perseguita. Dal rapporto Censis emerge
inoltre una diminuzione della spesa da destinare alla scuola rispetto
alla spesa totale dello Stato, é vero: un aumento reale c'è
stato (del 34,5% dal '77 all'84). Ma è bene ricordare che questo
viene assorbito quasi completamente dalle spese per il personale.
Il Rapporto individua anche una vitalità del tutto endogena
al sistema scolastico, invisibile all'esterno. Vitalità fortemente
limitata, però; poiché si basa su un impegno volontario
degli insegnanti e si sviluppa solo nelle aree forti.
Fino a qualche anno fa, le famiglie reagivano cercando nel privato
ciò che non ottenevano dal pubblico (soprattutto per quel che
riguarda l'insegnamento delle lingue straniere e le attività
sportive). Oggi le proteste studentesche rivelano il cambiamento di
tendenza. Nel senso che tornano di moda le scuole statali. Ad esse
si richiede completezza nell'insegnamento, efficienza. Ed è
dire basta all'arte di arrangiarsi. E, naturalmente, basta agli sprechi.
d) Ferrovie
Il sistema ferroviario costa oggi allo Stato ben 10 mila miliardi
l'anno. Troppo, se si considera che il servizio interessa appena l'8%
delle persone e l'11 % delle merci. Questo significa che, nel settore,
domanda e offerta sono lungi dall'incontrarsi: lo Stato continua a
investire nel trasporto ferroviario; e i privati continuano a preferire
il trasporto su gomma.
Dei cosiddetti "rami secchi" sono stati individuati ben
8 mila nell'agosto dell'85. Solo 975 saranno eliminati. Tutti gli
altri continueranno ad alimentare l'enorme disavanzo dell'azienda
ferroviaria (basti pensare che ogni passeggero che sale su una di
queste linee viene a costare alle ferrovie un po' più di un
milione di lire).
e) Caso
"Nausea del mattone" la chiama il Censis.
L'investimento in edilizia non conviene più. Il mercato è
saturo: il 70% di coloro che cercano caso possiede già l'abitazione
(la domanda diventa dunque sempre più sofisticato). I soldi
investiti all'inizio del 1983 nell'acquisto della caso, hanno reso
fino all'85 solo il 2,5% in termini monetari (ossia hanno perso il
25% in termini reali); mentre Bot e Cct hanno reso quasi il 50% e
le azioni addirittura il 100%.
Fallisce, così, anche la politica edilizia pubblica: il Piano
decennale '77/'87, che doveva realizzare 100.000 alloggi l'anno, chiederà
il suo ciclo con al massimo 500.000 nuove unità, la metà,
cioè, di quanto programmato.
Pessimo affare anche il condono edilizio. Si prevedono basse oblazioni
per gli abusivi: 1 milione e 300 mila lire (opportunamente dilazionate)
è la multa di cui lo Stato si accontenta per sanare un alloggio
di 100 metri quadri. Il condono dovrebbe fruttare allo Stato una somma
compresa tra i 6.300 e i 9.700 miliardi. Ma, scopre il Censis, più
dello Stato incesseranno i tecnici e i professionisti incaricati di
curare le pratiche del condono: infatti, per ogni 100 lire di oblazione,
essi ne riceveranno ben 115. Per non parlare delle manutenzioni straordinarie,
il cui costo istruttorio supera del 20% l'oblazione stessa.
Produttività
del settore pubblico
La produzione del settore è del tutto inadeguata a compensare
lo spreco delle risorse sottratte al paese. Questo fatto finisce per
condizionare la produttività media di tutto il sistema, riducendo
la sua concorrenzialità nei confronti del resto del mondo.
Eppure, la necessità di provvedimenti atti ad incrementare
la produttività del settore statale viene puntualmente ignorato.
Così nella legge finanziaria; dove, invece, sono contemplate
molte disposizioni volte ad aumentare la pressione tributaria. Errore
colossale, se si considera la struttura del nostro sistema tributario:
un sistema che, privilegiando i tributi sul reddito guadagnato rispetto
a quelli sul reddito consumato, penalizza gravemente la propensione
al risparmio. Un aumento del prelievo fiscale non può che alimentare
consumi, di certo non investimenti, accelerando così la perdita
di competitività della nostra economia.
Il prezzo da
pagare
Diceva Keynes: "Non riuscirete mai a mettere a posto il bilancio
pubblico usando misure che penalizzano l'economia".
Di fronte a una dilatazione inammissibile della spesa pubblica, due
sono le alternative: ridurre le spese o aumentare le entrate. E si
è sempre optato per la seconda. In 15 anni di prelievo fiscale
è passato dal 31,1 % (1970) al 49,2% (1984). Inventare nuove
tasse o aumentare quelle esistenti è oggi una pura follia.
Ci ritroveremmo con una sorta di stato socialista che espropria tutta
la ricchezza prodotta dal paese per conseguire fini istituzionali
fantasma.
I politici hanno fatto una scelta: continuare a salvaguardare l'esistente,
tamponando i buchi delle decrepite strutture statali e accontentandosi
di una crescita del 2,5% all'anno.
Ma per uscire dalla crisi ci vuole ben altro: una vasta opera dì
aggiustamento e di risanamento, finalizzata al recupero della competitività.
Un più basso tenore di vita per chi ha già un'attività
e uno stato assistenziale meno largivo sono i sacrifici che si devono
pagare. E questo significa accettare che i salari crescano in misura
inferiore al costo della vita; e significa soprattutto tagliare in
modo drastico la spesa pubblica (riqualificandolo). Solo così
si potranno finanziare nuovi posti di lavoro. I politici lo sanno
bene. Ma continuano a ragionare in un'ottica tutta loro. E' vero:
tutti sono concordi sulla necessità di ridurre le spese. In
teoria è facile. Ma voi a fare qualche proposta specifica.
Vai a dire "Chiudiamo questa o quella linea ferroviaria",
oppure, "aboliamo quegli uffici postali": sarebbe la guerra.
In Italia esistono circa sei milioni di veri poveri. Certo: una riduzione
del numero degli assistiti rappresenterebbe una forma di giustizia
sociale atta a favorire chi ha veramente bisogno di assistenza. Eppure
si continuo a trattare in modo eguale chi eguale non è.
E' chiaro che i politici temono venga meno quello per cui vivono e
credono: il successo o, più esattamente, gli applausi e i consensi
dell'opinione pubblica (chi infatti accetterebbe di buon grado una
riduzione della pensione e del salario reale?). E non ha importanza
doverli ottenere ricorrendo ad una politica sleale, fatta di sprechi,
di clientelismi di compromessi.
Ma a tutto c'è un limite. E le proteste che si levano dal paese
stanno a dimostrare che quei limite è stato superato: non sappiamo
più che farcene di una classe politica che non ha riguardi
che per se stessa; e tanto meno di uno Stato fallimentare che si porta
via quasi la metà della ricchezza prodotta dal paese. L'economia
può essere governata. Basta volerlo. Ed è proprio questa
volontà che dobbiamo ritrovare oggi, Credere che posso bastare
la favorevole congiuntura internazionale o un solo strumento di politica
economica per risolvere tutti i problemi interni e mistificatorio.
Catastrofismo? Forse. Fatto sta che il prezzo per uscire dalla crisi
è alto: ed è soprattutto un prezzo politico. Chi è
disposto a pagare per primo?