L'ITALIA EMERGENTE




Maria Rosaria Pascali



Il "sistema Italia" vive ormai due realtà separate. Come una grande montagna che col tempo si è spaccata a metà: da un lato vive un sottosistema sociale, dinamico e in continua metamorfosi; dall'altro vegeta un sottosistema politico, rigido e incurante degli interessi collettivi. In mezzo non c'è più nulla. Nessuno che riesca a saldare i due lati della montagna. Nessuno che governi la complessità.
Finora è stata la società civile a tenere a galla le sorti del paese. E questo fatto non ha certo invogliato la classe politica a formulare una linea di sviluppo al passo con i tempi. Anzi: il crescente deterioramento della sua forza rischia oggi di avere effetti perversi. A questo punto, "l'alibi della forza permanente del vitalismo spontaneo" non regge più. Non si può, con esso, sperare di risolvere i complessi problemi-sistema e compensare così l'inettitudine della classe politica. Il vitalismo stesso ha bisogno di essere razionalizzato. In caso contrario, le energie sprigionate dalla società andranno per lo più disperse o, comunque, alimenteranno una spirale di forme e processi degenerativi. E' questo il monito con cui il Censis, nel 19° apporto sulla situazione sociale del paese, preannuncio il suo cambiamento di rotta. Da sempre del parere che la politica fosse qualcosa di superfluo, incapace di influire sui processi di rinnovamento della società, giunge ora alla constatazione che solo una ristrutturazione pubblica potrà assicurare la sana crescita del paese. Fino a questo momento le imprese hanno reagito da sole alla crisi. Da sole si sono risanate. Ma lo sviluppo è diventato un fatto privato e tende al consolidamento dell'esistente. E così mentre solo alcune imprese avanzano, nel complesso il paese ristagna.
Lasciati a se stessi i problemi-sistema non fanno che aggravarsi. Dalla spesa pubblica alla riforma dello stato sociale, al rafforzamento della sicurezza collettiva: le decisioni non sono decisioni. A meno che per decidere non s'intenda stabilire cose che non si verificheranno mai.
Qualche politico ha detto che il vero nemico da abbattere è il catastrofismo. Sarà. Resta il fatto che i mancati interventi del governo sulla spesa pubblica e sullo stato assistenziale stanno portando al degrado del sistema democratico. E, in questa realtà, ci riesce difficile intravedere qualcosa di positivo o, comunque, di meno catastrofico.
Positiva è la vitalità dei soggetti semplici. Ma questo non ha niente a che vedere con l'intervento politico. Anzi, proprio la mancanza di decisioni di parte politica ha indotto aziende e famiglia a elaborare strategie sempre più sofisticate atte a svincolarle dalla morsa statale; e a sostituirsi allo Stato nella creazione di quei servizi che esso non riesce più a dare.

Vitalità dei soggetti semplici
Naturale che si tratti della vittoria degli egoismi e dei particolarismi. Ma come biasimarla? I soggetti semplici sono stati gli unici a rispondere con efficienza all'inefficienza. Da essi trae forza e sostegno tutto l'apparato parassitario statale. Così è sempre stato. E' vero: la mobilità comporta una lunga serie di devianze, di illeciti. E l'illecito non ha mai una giustificazione. Ma si tratta di ingiustizie che nascono da altre ingiustizie: quelle di un "pubblico" che non sa (o non vuole più) svolgere la sua parte. Che preferisce dibattere animatamente su "questioni specifiche di basso livello" (sull'ora di religione, per esempio), mentre i problemi (quelli veri) lo sovrastano, difficili da abbattere ormai. A questo punto, ogni moralismo è fuori posto. E' incoerente lasciarsi turbare dal sommerso e, nel contempo, ignorare le cause che favoriscono il suo moltiplicarsi. Così come diventa assurdo continuare a pagare allo Stato il costo dei servizi precari e molte volte inesistenti quando, essendo ormai scomparsa la fiducia nel pubblico, anche i meno abbienti si rivolgono al privato per ottenere prestazioni di qualità.
Nella vitalità dei soggetti semplici il Censis individua una corso all'individualismo, alle scelte autonome e quindi incondizionate. Basta una più attenta riflessione per scoprire che così non è. E che il vitalismo si è trasformato in spirito di conservazione, lotta per la sopravvivenza. Il dirigismo in atto è tutto volto a impedire la crescita del microcapitalismo. Ma questo porto solo al rafforzamento del "gene egoista" dei soggetti semplici, e allora, occhio per occhio, dente per dente: i depredati diventano predatori. Così famiglie e imprese spogliano lo Stato delle "provvidenze", per ottenere le quali lo Stato continua a depredare famiglie e imprese. Sembra un gioco di parole. E', invece, un circolo vizioso e ingiusto. Nel senso che solo i più furbi se ne avvantaggiano. Ne viene che la prosperità di taluni si basa sul malessere di altri. E che i ricchi diventano sempre più ricchi; i poveri sempre più poveri.

La famiglia
E' il soggetto semplice per eccellenza. Reagisce alla crisi del Welfare State trasformandosi (diventa "lunga"), cambiando le sue scelte (diventa "combinatoria"), proteggendo i suoi membri (diventa "tutelatrice").
Quello della famiglia lunga è un fenomeno insolito e finora inesplorato. Giovani e meno giovani preferiscono restare più a lungo con i genitori. Vivono, infatti, con la famiglia di origine il 31 % delle persone di età compresa tra i 25 e 34 anni, nonché il 54% dei laureati. Non si tratta - dice il Censis - solo di una questione di necessità: il 55% di resta in famiglia ha già un lavoro.
Ma il ruolo di questo soggetto non si ferma qui. Esso reagisce al problema della disoccupazione tramandando il lavoro del padre al figlio. Da sempre esistente nei settori dell'artigianato tradizionale, delle attività imprenditoriali ed autonome e delle libere professioni, il fenomeno si sta estendendo anche al lavoro dipendente. In molte aziende pubbliche è stato già istituzionalizzato e, quindi, reso oggetto di contrattazioni sindacale. Nelle altre si manifesta attraverso contrattazioni informali.
Altro aspetto interessante: la famiglia agisce secondo la logica sistemica tipica dell'azienda. Tutte le scelte sono volte a ottenere le migliori prestazioni. Combina, quindi, convenientemente, servizi pubblici e servizi privati, mostrando di privilegiare questi ultimi soprattutto nei settori sanitario e formativa.
Ma è nella gestione del risparmio che la voglia di capitalismo della famiglia si manifesta in tutta la sua forza. Gli investimenti in Bot e Cct si sono rivelati una vera manna per i risparmiatori. Alti tassi di interesse e totale esenzione fiscale sono le condizioni offerte per il loro acquisto. Difficile resistere. E così, circa un terzo del risparmio familiare è andato a ingrossare le casse statali. Un affare? Per la nostra economia non è che l'ennesima burla di un'amministrazione - quella pubblica - fin troppo allegra. Ma nessuno ride più. Quantità enormi di risorse sono stare sottratte alle forze attive del paese per finanziare le spese improduttive dello Stato. Un'operazione, questa, che, al di là di egoistici interessi individuali, costa cara a tutti. Soprattutto alle imprese, che sono costrette a pagare il denaro il triplo dei loro concorrenti stranieri. Ma anche alla pubblica amministrazione che, se non ci sarà un'inversione di tendenza, tra pochi anni dovrà destinare l'intero gettito Irpef al pagamento degli interessi su titoli.
Comunque, c'è un fatto positivo da rilevare: ed è che, nonostante la fortissima tentazione rappresentata dai titoli di Stato, le famiglie hanno finanziato le imprese più di quanto non avessero mai fatto prima: il 28% del risparmio familiare risulta, infatti, investito in azioni di imprese produttive.

Le Imprese
Il dinamismo delle imprese emerge dalla velocità con cui esse hanno saputo rinnovarsi. E' un dinamismo tuttora presente. Tuttavia, non si può fare a meno di notare la scissione che si è verificata, all'interno dell'apparato produttivo italiano, tra coloro che hanno avviato un profondo processo di ristrutturazione e coloro che non sono riusciti ad attuare alcun rinnovamento. Nel triennio 82/84 il 6,4% delle aziende non si è rinnovato; mentre, ben il 50% di esse ha cambiato in profondità i suoi assetti.
Nel difficile processo di ristrutturazione le imprese hanno seguito sentieri autonomi. Ne derivano comportamenti differenziati: il 16,4% di esse ha realizzato un solo tipo di innovazione; il 30,4% ne ha effettuate due; il 29,8% ne ha introdotte tre; mentre, il 17% ha operato quattro e più nuove realizzazioni tecnologiche.
Si tratta, peraltro, di una ristrutturazione ottenuta attraverso l'impiego di lavoro più qualificato e di capitale più efficiente, nonché tramite un'intensificazione del grado di sfruttamento dei fattori produttivi. In questo modo è stato privilegiato l'obiettivo della redditività e resa molto modesta la crescita del potenziale produttivo.
Il processo di razionalizzazione della struttura industriale ha avuto un enorme merito: l'aver elevato la base qualitativa dei prodotti cosiddetti tradizionali, per i quali si è così verificata una diminuzione dell'elasticità di prezzo delle esportazioni e un aumento di quella delle importazioni.
Altro aspetto rilevante dell'industria italiano è la sua attività multinazionale. Dal 1980 al 1984 gli investimenti nazionali in paesi stranieri sono cresciuti del 442,6%. Notevole è anche il flusso di capitali stranieri in Italia; flusso generalmente diretto all'acquisto di imprese già operanti sul mercato.
Critico lo stato occupazionale. C'è da dire, comunque che l'espulsione delle tute blu non è ancora iniziata, ad eccezione del settore delle macchine utensili, dove il 61,9% delle imprese espelle manodopera. In molti settori vi è sostanziale stabilità. Crescono gli occupati (+ 144 mila unità); ma crescono anche, e in misura maggiore, le persone in cerca di prima occupazione (+ 152 mila unità). Un dato preoccupante: sono un milione 808 mila i giovani in cerca di lavoro, dei quali ben 687 mila sono forniti di laurea o di diploma di scuola media superiore.
Calano gli addetti all'industria del 2,2%. Anche l'agricoltura continua a sopprimere inesorabilmente posti di lavoro (-3%). Aumenta invece, anche se in misura decrescente rispetto allo scorso anno, l'occupazione nel terziario (+3,2%).
Il dinamismo dell'impresa ha sentenziato la crisi del sindacato. Dice il Censis: "Di fatto, il sindacato è escluso da ogni possibilità di incidere in tutta la tematica dell'innovazione, su cui, in realtà, si gioca il futuro". In questo campo, infatti, le imprese che decidono da sole sono il 74,5%. Le cose non migliorano quando si tratta di contrattare le mansioni o la gestione del personale (il 50% delle imprese non vuole intermediari). Solo per quanto riguarda i licenziamenti e cassa integrazione i sindacati possono ancora dire la loro, anche se il loro campo di azione è notevolmente limitato, non potendo fare altro che salvare il salvabile.
Purtroppo i risultati raggiunti dalle imprese sono fragili. Su di essi pesa una situazione generale molto preoccupante. Infatti:
a) l'alta inflazione, aumentando i costi di produzione e, quindi, i prezzi delle merci, rende meno competitivi i nostri prodotti rispetto a quelli dei paesi concorrenti. Per poter vendere le merci nazionali agli stessi prezzi praticati dagli altri paesi, le nostre imprese sono costrette a rinunciare agli alti profitti, pregiudicando così il loro futuro. Si produce infatti una bassa accumulazione che porta lentamente, ma inesorabilmente, al degrado della nostra base produttiva;
b) gli alti tassi di interesse di Bot e Cct, come abbiamo già detto, esasperano la situazione. Le banche, infatti, per reggere la concorrenza del Tesoro, sono costrette ad offrire compensi più alti a chi presta loro denaro. Per coprire questo maggior costo, aumentano i tassi di interesse sui finanziamenti concessi alle aziende. Ecco perché le imprese, ristrutturandosi, hanno dovuto trovare condizioni di profittabilità a livelli di produzione quantitativamente più bassi; e oggi producono e occupano molto meno di prima, con gravi effetti (diretti) sulla produzione totale e (di ritorno) sulle stesse imprese.

Apparato statale
Il dubbio è forte: esiste ancora uno Stato?
Quasi si stenta a riconoscerlo. Eppure c'è. Trasformato in una enorme buco nero che attrae e disperde ogni energia positiva. Ma c'è. Affatto avaro, abbonda nei finanziamenti a fini di sviluppo. E non sa che esso stesso, con tutti i suoi cavilli, è barriera, orami difficilmente valicabile, a tale sviluppo. Nessuno più si chiede dove sia andato a finire il suo ruolo di guida, di raccordo delle decisioni della collettività: "II potere è il luogo che bisogna avere il coraggio di non occupare mai".I politici rifuggono dalle loro responsabilità e, di fronte alle difficoltà che il riordino di uno Stato "gonfio ed eccedentario " comporta, cercano sempre più di separare il loro destino da quello, appunto, dello Stato. E a chi si chiede se esiste ancora una classe politica, essi rispondono dando prova di grande fermezza in materia di politica estera o esercitando poteri di veto su realtà sociali ormai più veloci di loro.

Servizi pubblici
a) Sanità
Siamo il paese che ha una percentuale di personale sanitario pubblico fra le più alte nel mondo: 17 medici e 51 infermieri ogni 100 posti letto. Ma siamo anche il paese che, in tema di mortalità infantile, supera di due punti la media Cee; in cui aumento la mortalità per motivi cardiocircolatori; e in cui crescono smisuratamente i decessi per disturbi psichici. Il motivo è semplice: assoluta mancanza di personale specializzato. Perché non è chi ha una specializzazione che può accedere alle Usi, ma solo chi è dotato di benemerenze politiche. Logica disumana, trattandosi di un settore tanto vitale. La riforma delle Usi resta un sogno. Stesso fine è toccata alla miniriforma , che alcune forze politiche hanno bloccato perché ritenevano costituisse un tentativo di snaturamento delle Usi. E si chiedeva solo di allentare un po' la presa dei politici sulla sanità. Difficile riconoscere proprio in quei partiti da sempre schierati in prima fila contro le spartizioni politiche gli artefici della mancata miniriforma. Eppure, congelando la legge, essi hanno detto no alla proposta di commissariare le Usi più sprecone; no alla richiesta di revisori di conti professionali; no ancora alla creazione dì una maggioranza che governa e di una minoranza che controlla. Di conseguenza, e in questo andando contro ogni loro dichiarato principio, hanno acconsentito ai clientelismi, alla deresponsabilizzazione. Per quanto ancora?
I primi a lamentarsi sono i medici. Chiedono che la struttura Usi sia divisa in due livelli: quello politico, da assegnare ai comitati di gestione, e quello operativo, da affidare agli esperti. In attesa, le famiglie cambiano le loro abitudini: si pagano i servizi privati, dotati di prestazioni dì alta qualità e ripiegano sul medico delle Usi solo per i disturbi più lievi.
b) Previdenza
Lo sfascio dell'Inps è noto. Ma forse è utile ricordare alcune assurdità di gestione: nessuno sa quanti siano esattamente i crediti accumulati verso i contribuenti morosi (giusta ricompensa per una politica troppo permissiva nella concessione di dilazioni di pagamento). Si parla di 15 mila miliardi. Nessun dato certo però, poiché caratteristica dell'Inps è l'assoluta incapacità di compiere verifiche. E così si giunge oggi alla constatazione che se l'Inps è nei guai, non è solo perché sperpera troppo e inutilmente, ma anche perché incasso troppo poco. Altra sua colpa è non aver perseguito l'evasione. Inutile lamentarsi, allora, se il 43% delle aziende e degli artigiani sfuggono totalmente al pagamento dei contributi (i contributi evasi si aggirano intorno i 13 mila miliardi).
Altri dati: l'Italia è ancora un paese di pensionati poveri (e, questo, nonostante le pensioni di vecchiaia liquidate negli ultimi anni si siano attestate su livelli soddisfacenti anche rispetto alla media europea): infatti, il 65% delle pensioni che l'Inps paga ai lavoratori dipendenti e il 99% di quelle che paga agli autonomi sono pensioni minime e uguali per tutti.
c) Scuola
Le anomalie del sistema scolastico sono enormi. Manca soprattutto il necessario coordinamento scuola-formazione-mondo del lavoro. Esiste invece tutto un groviglio di competenze (nella gestione della scuola, della ricerca, della formazione) che appesantisce il sistema, rendendolo insensibile alle esigenze poste dalla realtà sociale. Nessuna cultura dell'innovazione viene perseguita. Dal rapporto Censis emerge inoltre una diminuzione della spesa da destinare alla scuola rispetto alla spesa totale dello Stato, é vero: un aumento reale c'è stato (del 34,5% dal '77 all'84). Ma è bene ricordare che questo viene assorbito quasi completamente dalle spese per il personale.
Il Rapporto individua anche una vitalità del tutto endogena al sistema scolastico, invisibile all'esterno. Vitalità fortemente limitata, però; poiché si basa su un impegno volontario degli insegnanti e si sviluppa solo nelle aree forti.
Fino a qualche anno fa, le famiglie reagivano cercando nel privato ciò che non ottenevano dal pubblico (soprattutto per quel che riguarda l'insegnamento delle lingue straniere e le attività sportive). Oggi le proteste studentesche rivelano il cambiamento di tendenza. Nel senso che tornano di moda le scuole statali. Ad esse si richiede completezza nell'insegnamento, efficienza. Ed è dire basta all'arte di arrangiarsi. E, naturalmente, basta agli sprechi.
d) Ferrovie
Il sistema ferroviario costa oggi allo Stato ben 10 mila miliardi l'anno. Troppo, se si considera che il servizio interessa appena l'8% delle persone e l'11 % delle merci. Questo significa che, nel settore, domanda e offerta sono lungi dall'incontrarsi: lo Stato continua a investire nel trasporto ferroviario; e i privati continuano a preferire il trasporto su gomma.
Dei cosiddetti "rami secchi" sono stati individuati ben 8 mila nell'agosto dell'85. Solo 975 saranno eliminati. Tutti gli altri continueranno ad alimentare l'enorme disavanzo dell'azienda ferroviaria (basti pensare che ogni passeggero che sale su una di queste linee viene a costare alle ferrovie un po' più di un milione di lire).
e) Caso
"Nausea del mattone" la chiama il Censis.
L'investimento in edilizia non conviene più. Il mercato è saturo: il 70% di coloro che cercano caso possiede già l'abitazione (la domanda diventa dunque sempre più sofisticato). I soldi investiti all'inizio del 1983 nell'acquisto della caso, hanno reso fino all'85 solo il 2,5% in termini monetari (ossia hanno perso il 25% in termini reali); mentre Bot e Cct hanno reso quasi il 50% e le azioni addirittura il 100%.
Fallisce, così, anche la politica edilizia pubblica: il Piano decennale '77/'87, che doveva realizzare 100.000 alloggi l'anno, chiederà il suo ciclo con al massimo 500.000 nuove unità, la metà, cioè, di quanto programmato.
Pessimo affare anche il condono edilizio. Si prevedono basse oblazioni per gli abusivi: 1 milione e 300 mila lire (opportunamente dilazionate) è la multa di cui lo Stato si accontenta per sanare un alloggio di 100 metri quadri. Il condono dovrebbe fruttare allo Stato una somma compresa tra i 6.300 e i 9.700 miliardi. Ma, scopre il Censis, più dello Stato incesseranno i tecnici e i professionisti incaricati di curare le pratiche del condono: infatti, per ogni 100 lire di oblazione, essi ne riceveranno ben 115. Per non parlare delle manutenzioni straordinarie, il cui costo istruttorio supera del 20% l'oblazione stessa.

Produttività del settore pubblico
La produzione del settore è del tutto inadeguata a compensare lo spreco delle risorse sottratte al paese. Questo fatto finisce per condizionare la produttività media di tutto il sistema, riducendo la sua concorrenzialità nei confronti del resto del mondo.
Eppure, la necessità di provvedimenti atti ad incrementare la produttività del settore statale viene puntualmente ignorato. Così nella legge finanziaria; dove, invece, sono contemplate molte disposizioni volte ad aumentare la pressione tributaria. Errore colossale, se si considera la struttura del nostro sistema tributario: un sistema che, privilegiando i tributi sul reddito guadagnato rispetto a quelli sul reddito consumato, penalizza gravemente la propensione al risparmio. Un aumento del prelievo fiscale non può che alimentare consumi, di certo non investimenti, accelerando così la perdita di competitività della nostra economia.

Il prezzo da pagare
Diceva Keynes: "Non riuscirete mai a mettere a posto il bilancio pubblico usando misure che penalizzano l'economia".
Di fronte a una dilatazione inammissibile della spesa pubblica, due sono le alternative: ridurre le spese o aumentare le entrate. E si è sempre optato per la seconda. In 15 anni di prelievo fiscale è passato dal 31,1 % (1970) al 49,2% (1984). Inventare nuove tasse o aumentare quelle esistenti è oggi una pura follia. Ci ritroveremmo con una sorta di stato socialista che espropria tutta la ricchezza prodotta dal paese per conseguire fini istituzionali fantasma.
I politici hanno fatto una scelta: continuare a salvaguardare l'esistente, tamponando i buchi delle decrepite strutture statali e accontentandosi di una crescita del 2,5% all'anno.
Ma per uscire dalla crisi ci vuole ben altro: una vasta opera dì aggiustamento e di risanamento, finalizzata al recupero della competitività. Un più basso tenore di vita per chi ha già un'attività e uno stato assistenziale meno largivo sono i sacrifici che si devono pagare. E questo significa accettare che i salari crescano in misura inferiore al costo della vita; e significa soprattutto tagliare in modo drastico la spesa pubblica (riqualificandolo). Solo così si potranno finanziare nuovi posti di lavoro. I politici lo sanno bene. Ma continuano a ragionare in un'ottica tutta loro. E' vero: tutti sono concordi sulla necessità di ridurre le spese. In teoria è facile. Ma voi a fare qualche proposta specifica. Vai a dire "Chiudiamo questa o quella linea ferroviaria", oppure, "aboliamo quegli uffici postali": sarebbe la guerra. In Italia esistono circa sei milioni di veri poveri. Certo: una riduzione del numero degli assistiti rappresenterebbe una forma di giustizia sociale atta a favorire chi ha veramente bisogno di assistenza. Eppure si continuo a trattare in modo eguale chi eguale non è.
E' chiaro che i politici temono venga meno quello per cui vivono e credono: il successo o, più esattamente, gli applausi e i consensi dell'opinione pubblica (chi infatti accetterebbe di buon grado una riduzione della pensione e del salario reale?). E non ha importanza doverli ottenere ricorrendo ad una politica sleale, fatta di sprechi, di clientelismi di compromessi.
Ma a tutto c'è un limite. E le proteste che si levano dal paese stanno a dimostrare che quei limite è stato superato: non sappiamo più che farcene di una classe politica che non ha riguardi che per se stessa; e tanto meno di uno Stato fallimentare che si porta via quasi la metà della ricchezza prodotta dal paese. L'economia può essere governata. Basta volerlo. Ed è proprio questa volontà che dobbiamo ritrovare oggi, Credere che posso bastare la favorevole congiuntura internazionale o un solo strumento di politica economica per risolvere tutti i problemi interni e mistificatorio. Catastrofismo? Forse. Fatto sta che il prezzo per uscire dalla crisi è alto: ed è soprattutto un prezzo politico. Chi è disposto a pagare per primo?


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