L'ANTITESI FRA SOCIALISMO E LIBERALISMO




Gennaro Pistolese



La dottrina economica, che ha dominato il pensiero scientifico e la stessa ideologia e strategia politica degli anni che hanno preceduto e seguito le due guerre mondiali, è contrassegnata dall'antitesi fra liberalismo e socialismo nelle loro varie e contrastanti espressioni, che tutte però sono molto distanti dai loro originari punti di partenza.
Soprattutto il primo ha mostrato sostanziali mutamenti, riconoscendo l'evoluzione del suo quadro di riferimento e di applicazione, tant'è che si parla per esso di un neo-liberalismo, mentre per il socialismo, pur essendo profonde le incidenze determinate dal revisionismo, più nette sono le incertezze d'interpretazioni e di sbocchi.
Tre sono i piani da considerare in questa problematica.
Il primo è costituito dallo sfondo socio-politico, da cui è scaturito e scaturisce il contesto della ricerca e degli assetti scientifici. In tale contesto trovano spazio le composite dottrine sociali tendenti alla riforma delle istituzioni che costituiscono il presupposto delle nuove sistematiche teoriche: siamo così di fronte alle interpretazioni legate alla scuola del cristianesimo sociale, al cooperativismo, al sindacalismo, al solidarismo, al corporativismo e così via.
Siffatte interpretazioni ed i relativi tentativi di applicazione hanno avuto un andamento alterno nel corso dei tempi, con balzi innanzi o ripiegamenti, che nella contraddittorietà hanno dimostrato un grado di maturità ancora lontano da proposizioni sufficientemente concrete e definitive. E ciò è confermato dagli sforzi in atto per meglio definire contenuto e spazio del cristianesimo sociale e per meglio concretizzare la funzione e le motivazioni di un Sindacato nuovo, nonché dalla stessa dinamica del movimento cooperativo con l'accelerazione e la decelerazione che esso registra da periodo a periodo.
Il secondo piano è quello che vede mobilitati, in composite e contrapposte schiere i cosiddetti dirigisti. Quella parte di essi che, trae le sue motivazioni dalla realtà occidentale o ad essa intende applicarsi, riconosce la fondatezza della proprietà privata, ma auspica profonde riforme di struttura, che dovrebbero investire il sociale come l'economico. E ciò attraverso l'instaurazione di un sistema sociale, la revisione dei modelli di ripartizione dei redditi, le nazionalizzazioni, l'impostazione di piani tendenti a rendere stabile l'equilibrio economico e ad organizzare ed incentivare lo sviluppo. Su questo piano si incontrano molte espressioni anche del pensiero non strettamente dirigista, convenendo sul finalismo così espresso e divergendo invece nella scelta dei mezzi, che poi diventa il vero solco di demarcazione fra le diverse scuole e tendenze di pensiero socio-economico.
Il terzo piano è infine quello che raccoglie le tendenze e gli indirizzi compresi nella denominazione di neoliberalismo, risultando il liberalismo puro un presupposto storico di ispirazione, rivissuto e da rivivere nel tempo come presidio di libertà, ma da concepire nei mutevoli climi storici.

Il pensiero neo liberale
In sostanza il pensiero neoliberale riconosce che nella realtà del mercato non mancano di operare elementi turbatori della concorrenza e che detti elementi perturbatori, e cioè le cause di squilibrio, non attivano autonomamente meccanismi correttivi.
Da questi riconoscimenti però non derivano concetti di menomazione della libera iniziativa, pur se essa deve esplicarsi lungo precisi binari che sono quelli che ne devono garantire, nella società d'oggi, la più positiva e dinamica esplicazione.
La difesa dell'economia di mercato così intesa si affida al fatto che gli autori liberali attribuiscono agli squilibri una durata di breve periodo subito superata dall'intervento dei meccanismi riequilibratori. La prova di ciò sarebbe fra l'altro nel fatto, oltre che nella capacità di riforma e di miglioramento che in clima di libertà può essere congruamente conseguito, che i paesi a più alti salari sono proprio quelli in cui la libertà economica è più grande. Testimonianza questa offerta proprio dal modello che opera nel sistema più avanzato, quale è quello statunitense.
Tali espressioni del pensiero trovano fra l'altro importanti punti di riferimento nelle opere di Jacques Rueff e Ch. Riest (per quest'ultimo nello studio dal titolo "Prècis des mécanismes elémentaires").
Le denunce che ne derivano in questi autori si riassumono nei seguenti punti principali:
- contestazione dell'interventismo statale o del cosiddetto dirigismo, da cui deriverebbero i maggiori mali di cui soffrono società ed economie. Dice in particolare Rueff: "Di tutte le turpitudini del nostro regime ho trovato la fonte dell'intervento dello Stato". Fra l'altro lo stesso Rueff nel suo studio dal titolo "L'Ordre social" mette in guardia dal controllo dei prezzi generatore di falsi diritti e di falsi crediti che il sistema non può pagare senza attentare alla propria stabilità monetaria.
Non meno radicale in siffatte affermazioni di principii si manifesta il pensiero di L. von Mises, quale si desume dal suo studio "Il socialismo".
Questo nella sua integrità originaria, come nelle sue diverse interpretazioni a carattere riformistico, non sarebbe applicabile o per lo meno non si può tradurre in espressioni durature, per la semplice ragione che non è conciliabile, anzi è la contraddizione di ogni pur indispensabile ed irrinunciabile calcolo economico.
Secondo Emile James (Storia del pensiero economico) vari Mises fonda il suo ragionamento e le sue conclusioni sul fatto che un dirigismo economico non può che essere disordinato ed abbandonato all'arbitrio dei pianificatori che possono ben procedere a adattamenti a breve distanza, ma in fin dei conti non sanno dove vanno, per cui il dirigismo economico è impossibile. Guardando più a fondo in questo pensiero C. Napoleoni ("Pensiero economico del 900"), rileva che il motivo sul quale vari Mises fondava la sua accusa di irrazionalità ad un'economia pianifiacata può essere così esposto: poiché scopo dell'economia è quello del più efficiente utilizzo di risorse scarse nel perseguimento di certi fini, ne consegue che per poter operare le scelte che l'efficienza della gestione richiede, occorre consentire che le risorse stesse assumano un prezzo su un libero mercato. Dato poi che un'economia pianificata è per definizione priva di mercato ogni criterio razionale di scelta viene meno in tale economia, la quale è perciò destinata all'arbitrio ed al disordine.
Come si vede, si tratta di affermazioni perentorie ed assolutistiche, che hanno in se stesse del vero e del falso, le prime nell'attuazione di un dirigismo assoluto e le seconde in una condotta economica a dirigismo temperato, che meglio potrebbe definirsi ad ispirazione mirata ed organizzata in una certa progettualità.
Altri autori che si sono posti nel solco di questo pensiero sono F.A. von Hayek con "The nature and history of the problem" e "The present state of debate" in "Theory of Games and Economic Behavuor", nonchè L. Robbins con "The Great Depression".
Essi, pur riconoscendo a differenza di von Mises che all'economia pianificata non può essere negata la possibilità di calcolo, ne riconoscevano l'impossibilità di applicazione pratica, perché è impossibile un calcolo effettivo di tutte le reali implicazioni inerenti all'equilibrio economico generale e perché anche nell'ipotesi della realizzazione di un calcolo effettivo questo avrebbe un valore del tutto contingente e provvisorio e risulterebbe superato al momento dell'applicazione.
In sostanza questi due autori se riconoscono l'ammissibilità in linea di principio dell'economia pianificata ne contestano la capacità di fonte di un assetto stabile.
Ad O. Lange ("On the economic teory of Socialism") e a M. Dobb ("Pianificazion" in Dizionario di economia - ed in tre articoli sul problema del calcolo economico in un'economia socialista in "On Economic Theory and Socialism") si devono le principali risposte alle suddette teorie.
Secondo il primo l'impossibilità in linea di principio di un'economia pianificata è insostenibile una volta che si sia ammesso che il prezzo non sia semplicemente un rapporto di scambio, ma sia un coefficiente di scarsità. Dice C. Napoleoni nel ricordato suo volume che "tale concezione del prezzo lo rende calcolabile anche al di fuori di un effettivo sistema di mercato, cioè a prescindere dal verificarsi di un atto di scambio". Il Lange postula in concreto un insieme di unità di produzione di proprietà pubblica, con la possibilità per essa di una notevolissima autonomia di decisioni nell'ambito di regole generali di comportamento (qualcosa di vicino, per quanto attiene all'esplicazione dell'attività pubblica in Italia, alla nostra formula IRI); nonché l'operatività di un organo centrale cui demandare la fissazione dei prezzi di conto, sulla cui base le unità di produzione dovrebbero prendere le loro decisioni con periodiche scelte dirette ad eliminare squilibri fra domande ed offerte. Mentre più o meno chiara risulta la concezione relativa al primo aspetto, tutt'altro che evidente e sperimentabile e sperimentata positivamente appare il secondo.
Dobb a sua volta condivide la tesi della difficoltà del calcolo economico, ma ne rileva la scarsa consistenza pratica, dato che la pianificazione deve essere intesa come strumento di coordinati interventi e come tale essa deve essere considerata come sostituto del mercato, con coordinamenti delle varie decisioni di investimento effettuate a priori, e non a posteriori come quelle che deriverebbero dall'andamento di mercato.
Il rallentamento e la deviazione dal progresso conseguente alla massificazione degli indirizzi di condotta socio-politica e di scelte economiche, dovendosi invece attribuire alle "èlites" un ruolo trainante, nell'ottica della libertà economica.
Uno dei maggiori teoreti a questo riguardo è Louis Baudin, che oppone al socialismo il liberalismo o meglio ancora l'individualismo, come fermento di iniziativa e fonte quindi dello stesso progresso sociale, fisiologicamente conseguito.
Caratteristiche di fondo di queste "élites" sono la grande capacità creativa conseguita con uno sforzo costante ed organicamente predisposto, così distinguendosi nella consapevolezza del senso dell'interesse generale e quindi nel perseguimento del bene comune; l'apertura di accesso a tutte le forze che hanno valori veri da esprimere. Precisa Baudin che "i membri dell'"èlite" non sono necessariamente i più ricchi, i più potenti, né coloro che sono nati da stirpe nobile, né i più influenti, né i meglio considerati. Essi non formano un gruppo determinato, si possono trovare in tutti i gruppi sociali. La loro presenza è necessaria per assicurare l'ordine e promuovere il progresso". In questo pensiero vi sono analogie con quello di Pareto manifestato fra l'altro nell'opera "Sociologia".
Restano tuttavia le zone d'ombra, di incertezza ed anche di dissenso che derivano da queste impostazioni, per molti versi più apodittiche che non effettivamente dimostrate od addirittura dimostrabili.
Difatti, se le "élites" trovano il loro terreno di germinazione nella libertà, una vola affermatesi consapevolmente e talvolta anche inconsciamente conducono alla stessa negazione o per lo meno forte limitazione della libertà.
D'altra parte, si domando ad esempio James, è possibile che in un mondo caratterizzato dalla concentrazione dei capitali il potere possa appartenere con facilità alle "èilites"?
- la funzione determinante spettante allo Stato nella reazione o nell'acquisescenza alla creazione ed all'esplicazione dei monopoli o oligopoli, con l'affermazione per contro che in un mondo libero i monopoli e gli oligopoli non possono abusare della loro situazione. Il che è più che altro apodittico, più che dimostrato, anche se questa linea del pensiero si alimenta di apporti di un certo significato e contenuto, quali quelli rilevabili da John Kenneth GaIbraith, che ha preso a riferimento delle sue meditazioni e dei suoi approfondimenti l'economia e la società americane.
Il suo saggio più rappresentativo è quello di "American Capitalism: the Concept of countervailing Pover", nel quale fra l'altro afferma che da ogni eccesso provocato da un monopolista deriva l'entrata in funzione di un meccanismo riequilibratore, il cui avvento è la conseguenza della reattività dei ceti che sono colpiti dal monopolio, in qualità di clienti o di fornitori.
Ma rispetto a questa enunciazione sorgono vari interrogativi suggeriti dalla realtà, e fra l'altro concernente la possibilità di ogni sistema di dar vita spontaneamente a correttivi riequilibratori una volta che si sia verificata la sopraffazione esercitata dal monopolio. Più pertinenti ci appaiono invece le tesi più sopra richiamate, secondo le quali spetta allo Stato di evitare che siffatti monopoli si creino e sopravvivano.
- gli attentati alla libertà individuale in genere che derivano dalle limitazioni della libertà economica, essendo il concetto di libertà indivisibile. E questa è una verità inoppugnabile, che ha però sul terreno interpretativo ed applicativa i suoi limiti reali, che non possono essere negati, oltre l'affermazione di principio. Il problema non è tanto quello di professare in assoluto questa verità, ma quello di determinarne le reali incidenze, che poi riguardano la coesistenza del pubblico con il privato, della sfera dell'interesse generale con quella dell'interesse individuale, cui bisogna riconoscere in un certo senso almeno la funzione di molla dello stesso progresso sociale e dello stesso avanzamento e soddisfacimento dell'interesse generale.
Vari sono gli autori che appartengono a questo filone del pensiero, che vanno da Daniel Villey a Renè Courtin, da Louis Rougier a Maurice Allais, il quale ultimo si è distinto particolarmente per le sue dissertazioni sull'economia del benessere, che tanti importanti saggi ha suscitato nell'evoluzione della dottrina, fra cui quelli di Pigou, Kaldor, Scitowsky, Bergson, Hotelling, Hicks, Little, Arrov, Samuelson. Rueff da una parte e Hayek dall'altra sono fra i più espressivi di questa tematica concernente la libertà economica come presidio della stessa libertà politica, e soprattutto il secondo si distingue con il suo libro "The Road to Serfsem".

Economia di mercato ed intervento dello Stato
La sistematica di questo pensiero neo liberale ha seguito un processo graduale, che ha cominciato ad essere più organico e costante nell'immediata vigilia della seconda guerra mondiale, culminando in un'opera collettiva dei neoliberali dal titolo "Dirigismo economico o economia collettivista". Nel 1938 poi aveva luogo un "simposio Walter Lippman" con l'intento di redigere un'agenda e con il seguito delle riunioni di Mont Pellerin.
In sostanza il pensiero economico così espresso rivendica il ritorno ad un'economia di mercato, ma non ritiene questo finalismo inconciliabile con l'intervento dello Stato.
Qualche anticipazione su questa linea può essere tratta dal pensiero espresso dall'americano J. M. Clark, che fra l'altro si è distinto con il cosiddetto principio dell'acceleratore, sviluppato in un saggio che risale a molti anni prima e che va sotto il titolo "Bussiness acceleration and the law of demand: a technical factor in business cycles" recentemente ristampato a cura dell'"American Economic Association".
I neo liberali, della scuola economica, denunciano le conseguenze degli interventi dello Stato nell'affievolimento della libertà di mercato e della validità del regime di concorrenza (con la prevalenza del pubblico sulla mano privata ed anche con l'emarginazione di questa), per contro denunciano le degenerazioni provocate dai grandi monopoli privati e dalle intese fra i produttori. In "Città libera" Walter Lippmann teorizza questa posizione, ponendo in evidenza le degenerazioni conseguenti o conseguite con la fissazione concordata dei prezzi, con gli indirizzi degli investimenti e così via.
Il pericolo di andare incontro a delle contraddizioni od a mancati adeguamenti a quella che è la realtà effettiva è aggirato (anche se si ritiene di superarlo) con una certa elasticità nella determinazione e nell'interpretazione dei principii di fondo. L'appello all'economia di mercato è ritenuto in effetti un'insegna, con tutti gli adattamenti pratici che devono derivarne, dando luogo a diverse fisionomie di un mercato reale, in determinate condizioni di tempo e di ambiente. Una di queste condizioni è quella delle fasi belliche, che anche a giudizio dei neoliberali non possono essere improntate a libertà di mercato. Ma nel realizzare l'economia del tempo di guerra, come di ogni fase eccezionale, il fine da tenere presente è quello di saper discernere da interventi buoni e conformi da quelli di opposto contenuto. Si tratta di selezionare, non già di negare in astratto. Tuttavia il principio suggestivo nella sua sintesi, è incerto - come si sa - nell'applicazione che la politica gli dà, anche per la sua corica ideologica e di parte, e pure per la vaghezza delle stesse enunciazioni che la scienza economica è in grado di offrirle.
E ciò risulta anche dalla genericità degli interventi che vengono postulati. In concreto, essi riguardano anzitutto la definizione delle istituzioni che forniscono il contesto dell'attività economica e che devono essere salvaguardate nel loro funzionamento, con le garanzie anche di efficienza che ne devono derivare per il sistema.
Questo, come è noto, è un finalismo che lo Stato moderno si pone, essendo alla ricerca di un equilibrio che sia duraturo e costruttivo ai fini dell'evoluzione statale, civile, sociale ed economica. In questo campo però siamo lontani ancora da formulazioni e sistemi, cui l'esperienza abbia dato il suggello di una dimostrata validità. Tant'è che l'autocritica è in atto in tutti i sistemi, con una maggiore ampiezza di prospettive e di positive volontà proprie e prevalentemente - per non dire unicamente - nei sistemi liberi.
In questo ambito non basta definire quadri istituzionali, ma anche concretizzare mezzi e strategie esplicative. Ma su questo discorso della progettualità ci intratterremo in altra occasione.
Un altro cardine di questo pensiero neo liberale è quello dell'esclusione dal novero delle istituzioni di cui prima si è detto vanno escluse quelle che possono generare una coartazione del regime concorrenziale. Di qui le precauzioni da prendere in materia di grandi società anonime, di intese, ecc., come le iniziative da assumere nello svolgimento regolare delle diverse forme di impiego sul mercato dei capitali, e così via. In sintesi la lotta deve essere condotta contro tutti gli ostacoli alla elasticità di mercato, avendo a riferimento anche gli studi compiuti al riguardo da Edward Chamberlin con la sua "Teoria della concorrenza monopolistica".
E ciò nella prospettiva di una difesa dell'elasticità dell'offerta e della domanda, venendo a mancare la quale o divenendo essa flebile, è indispensabile l'intervento dello Stato. Tipica a questo riguardo la sua serie di interventi accettato in periodo di guerra per il calmieramento delle merci, materie prime o derrate che siano. Ma questi interventi devono cessare subito, allorché vengono ad essere superate le condizioni che li hanno determinati, e cioè in quanto la fisiologia da salvaguardare è quella della correntezza del mercato, che deve costituire il dato immanente con deroghe strettamente definite e limitate a stati eccezionali, veramente eccezionali e ricavabili da condizioni obiettive, e non già da valutazioni subiettive di parte.

Economie libere e sviluppo occupazionale
Spinte più evolutive sono intervenute a seguito dall'opera di J. M. Keynes con il suo studio dal titolo Generai Theory, che è un contributo con le misure proposte alla conciliabilità delle economie libere con lo sviluppo occupazionale in ispecie ed al credo nell'essenzialità delle istituzioni liberali. Commenta Claudio Napoleoni, ne "Il pensiero economico del '900", che il Heynesè è una delle maggiori figure di tutta la storia del pensiero economico e che di lui si può dire "che come i teorici della concorrenza imperfetta cercarono di dimostrare la possibilità di un equilibrio non di concorrenza, così Keynes cercò di dimostrare la possibilità di un equilibrio non di piena occupazione". Ma delle espressioni di questo pensiero così articolato e rappresentativo diremo in altra occasione, per ora bastandoci un solo richiamo alla influenza di questo pensatore sull'evoluzione delle impostazioni liberali.
A questa evoluzione hanno concorso Lionel Robbins e James Meade, che hanno affermato essere condizione dell'operatività di una vera economia di mercato la previa realizzazione di riforme di struttura e del sistema di ripartizione dei redditi in senso egualitario. In sostanza si mira ad evitare crisi e deviazioni, riconoscendo la necessità dell'impiego di certi mezzi tutt'altro che definiti tuttavia nella loro concretezza e nelle possibili modalità di applicazione. Come si vede, questa è pertanto più materia di riconoscimenti generali che non campo definito di scelte.
Al pensiero di questi due teoreti britannici si affianca quello del francese Maurice Allais, che si inserisce nel novero degli studiosi della economia del benessere. Anch'egli tende ad un'economia di mercato, ma nel suo conseguimento egli pone una premessa da assolvere, e cioè quella della nazionalizzazione della proprietà fondiaria e l'altra dell'adozione di misure monetarie particolarmente rigorose. Sennonché sono proprio queste premesse a rendere problematico il ritorno all'economia di mercato, dato che la storia politica e quella economica confermano che dai giri di vite si passa sempre più a quelli maggiormente stretti e che sulla strada degli inasprimenti non vi sono vie di ritorno che non siano quelle della radicale soppressione degli inasprimenti stessi.
Come si vede, molteplici sono le sfumature, le reciproche negazioni, i reciproci tentativi di superamento che si manifestano fra questa e quella espressione di pensiero, non tutte perciò convergenti e perciò tali da definire una scuola vera e propria.
Dopo questo excursus, con le contrapposizioni fra socialismo nelle sue varie forme e pensiero liberale con le minori differenziazioni che le caratterizzano, siamo ora alle soglie del duemila.
Ci distaccano ormai molti decenni dalla nascita e dalle opere dei capostipiti. Quanto a Marx molte esegesi che lo riguardano e che sono state compiute in occasione di celebrazioni di nascita o di morte hanno avuto, secondo l'acuto valutazione di taluni, più il carattere del processo che non quello dell'esaltazione.
Una valida contestazione di questa fascia del pensiero economico è fatta fra gli altri da Joseph A. Schumpeter, la cui attualità dottrinaria è sottolineata da più parti a differenza di quanto avviene per Keynes, le cui teorie sono per contro oggi oggetto di riserve.
Dice in particolare Schumpeter, riassumendo le sue affermazioni in due principii di fondo:
1) fatta eccezione per i periodi bellici i popoli che vivono nella miseria sono quelli che non hanno conosciuto il regime dell'impresa privata.
2) nei sistemi privatistici l'accrescimento del prodotto globale si è sempre ed ovunque accompagnato ad un aumento - in termini monetari e reali - dei salari contrariamente alle previsioni marxiste.
Ne discende che se è vero, ed i dati statistici lo dimostrano, che il progresso materiale della classe lavoratrice è strettamente legato al successo dell'impresa privata deriva che l'antagonismo fra il capitale ed il lavoro e la lotta di classe sono pessime teorie delle relazioni industriali.
Ciò non implica però nel pensiero dello Schumpeter l'assenza di ogni contrasto, operando nelle società contemporaneamente i motivi della solidarietà e quelli dell'antagonismo, per i quali occorre ricercare motivi di equilibrio e di proficua coesistenza diretti ad assicurare maggiori occasioni di progresso.
Ricorda sempre Schumpeter che vi è cooperazione necessaria fra produttore di materia prima e fabbricante del prodotto finale; ma nell'atto della vendita della materia prima vi è contemporaneamente, entro certi limiti, un antagonismo di interessi fra i due, antagonismo evidentemente necessario ed inseparabile della cooperazione.
Una condizione non diversa, si può aggiungere, si riscontra nel rapporto fra capitale e lavoro, una volta che si sia superata l'errata e strumentale teoria, per fini di regime, della lotta di classe.
Secondo Schumpter, l'imprenditore è distinto dal capitalista e le relazioni che l'imprenditore stesso mantiene con i lavoratori che egli coordina ed indirizza non sono tanto dominate da un antagonismo di interessi sociali quanto da tensioni fisiologiche proprie di ogni attività umana mirata ad un certo fine.
E' un errore fondamentale, secondo Schumpeter, quello che risale a Adame Smith ed è enfatizzato da Carlo Marx e che vede nel capo d'impresa nulla altro che il capitalista. Il primo è piuttosto paragonabile ad un comandante militare, essendo essenzialmente un lavoratore che dirige altri lavoratori. E questo è un fatto che è stato ingigantito dalla crescita di dimensioni dell'impresa provocato dalla rivoluzione industriale e dalla capillarizzazione del capitale e che si registra anche nell'ambito delle imprese minori e di quelle familiari dove il titolare non solo il più delle volte è un ex lavoratore dipendente, ma partecipa al processo produttivo anche con il suo apporto manuale.
La chiarezza e l'aderenza di questi principii alla realtà che muta, ma che è così indirizzata a lungo termine, presuppongono tuttavia una maturazione di condizioni e di convinzioni, che nascono da un rinnovamento profondo della stessa cultura, con le fasi intermedie che essa deve attraversare, passando da concezioni errate -quella ad esempio della lotta di classe - ad altre più sane e più vere.
Il supporto di questo passaggio da una fase all'altra è rappresentato dall'avvento di una società nuova e di una morale nel componimento dei rapporti che sia diversa da quella corrente e comunque riacquisti il suo impero rispetto ai meccanismi burocratici che sorreggono invece le teorie socialiste.
Dice fra l'altro, sempre lo stesso Schumpeter, che le famiglie, le fabbriche, le società non funzionano se nessuno accetta i suoi doveri, se nessuno sa farsi accettare come leader e se ciascuno si limita a fare il bilancio dei vantaggi e degli svantaggi in termini personali ed immediati. C'è in sostanza una contabilità di dare e di avere da rispettare, con una visione equilibrata e non prevalente di rapporti fra l'uno e l'altro, proprio perché né possa derivare il più alto e non effimero grado di sviluppo economico, possibile solo nell'equilibrio, e di progresso sociale, fondato sulla giustizia e sulla continuità.
La chiave di volta in tutto ciò è rappresentata dalla solidarietà, vera sola in una società libera. Siffatto concetto del solidarismo si concretizza nel cosiddetto corporativismo associantistico, nel quale secondo alcuni si trova un riscontro dell'enciclica "Quadragesimo anno".
Condizione di questa evoluzione è l'instaurazione di un dialogo, che poi è lo sbocco naturale ed obbligato del pluralismo che contraddistingue le convivenze umane e che sono tanto più avanzate quanto più hanno saputo istituire e rendere funzionale questo dialogo. Un dialogo al quale, si può aggiungere, tendono più o meno tutti, anche se una parte di essi mira a costruire con esso, il mezzo della sua prevalenza e prevaricazione.
Con queste impostazioni Shumpeter, come è stato detto da taluni, a cent'anni dalla nascita gode ancora di ottima salute, perché in sostanza si è rivelato l'ideologo dell'innovazione, innovazione che è la sfida dominante di questa fase del pensiero e della azione economica.
Innovazione e centralità dell'imprenditore che sono i due valori di base intorno a cui ruotano dialettica e strategia economica costituiscono in sostanza le due fondamentali intuizioni di questo studioso, che vede l'economia ed i suoi presupposti e fattori in continuo movimento, distruttivo quanto e quando è necessario, ma costruttivo nella sua motivazione e nella sua continuità coerente ed univoca.
Pur essendo quest'ispirazione ottimistica nel suo finalismo, naturalmente non di breve termine, essa diventa pessimistica allorché prende in considerazione le persistenti degenerazioni provocate dal crescente intervento pubblico e dal potere dei sindacati.
Da tutto ciò risulta uno Schumpeter definito giovane, a fronte di un Keynes le cui impostazioni sono al contrario oggetto di contestazione e comunque oggi tali da ridimensionare il suo ruolo esercitato soprattutto con la famosa "Teoria generale del l'occupazione, dell'interesse e della moneta".
Il pensiero di Keynes ha comunque suscitato una continuità anche nella critica le nell'innovazione interpretativa, come è confermato in questi ultimi anni dalle elaborazioni dell'ultimo premio Nobel per l'economia, Franco Modigliani.
Come osserva qualche critico, "Modigliani è riuscito a sanare una difficile contraddizione che fino ad allora si riscontrava fra l'ipotesi Keynesiano dell'incremento della propensione al risparmio all'aumentare del reddito familiare e le serie storiche che non riuscivano a verificare l'aumento del tasso di risparmio. Il Modigliani ha elaborato la teoria del ciclo vitale, secondo la quale gli individui risparmiano durante la loro attività per disinvestire poi durante gli anni della pensione". Ma del pensiero di Keynes come dei suoi continuatori e dei suoi critici avremo modo di dire in altra occasione.

FATTORI D'INCERTEZZA ED ASPETTATIVE

Altre espressioni del pensiero economico che si riscontrano nel grande solco fin qui richiamato hanno a che fare più che con teorie generali, tali da farne discendere vere e proprie scuole, con prospezioni tematiche di portata specifico. Un'angolazione particolare da questo punto di vista è quella concernente l'analisi dei fattori di incertezza e delle aspettative possibile.
C'è un'interessante opera illustrativa a questo riguardo dovuta ad Ignazio Visco, che prospetta appunto le aspettative nell'analisi economica.
In quest'analisi un posto trova anche Keynes, che distingue le aspettative di lungo periodo da quelle di breve periodo, essendo le prime quelle derivanti dai flussi di profitti futuri che determinano le decisioni di investimento delle imprese e si riassumono in una variabile esogena ed essendo le seconde quelle legate alla domanda alla quale deve rispondere la produzione degli impianti esistenti che sono una variabile endogena.
La stranezza degli equilibri postulati da Keynes sta nel fatto che essi sono equilibri di breve periodo, nel senso che sono ciascuno condizionale ad un valore dato delle aspettative di lungo periodo; d'altra parte pur essendo equilibri di breve periodo hanno una caratteristica di stazionarietà perché le aspettative di breve periodo già si sono realizzate.
Ma altri saggisti si sono cimentati su questa tematica e fra essi sono da annoverare Kngth, Hicks, Lachmann, Katona, Grunberg, Simon, Nerlove, Muth, oltre che il già ricordato Modigliani.
Secondo Muth, in particolare, la razionalità delle aspettative deriva dal loro essere il risultato di un modello teorico coerente con le relazioni di comportamento del modello più generale nel quale i valori attesi si inseriscono. Siffatta coerenza comporta che le aspettative siano ugualmente pari alle previsioni ricavabili dalla teoria economica.
In sostanza questi filoni del pensiero si esprimono più che in ricerche di macroeconomia, e quindi di elaborazione di principii fondamentali e perciò di caratterizzazione e propulsione di nuove grandi correnti, in analisi specifiche di temi e di aspetti, che ereditano i loro precedenti - anche nella critica - dalle grandi scuole per ricavarne motivi di avanzamento e di approfondimento di cause e di effetti. Le grandi intuizioni cedono così il passo ad applicazioni più concrete e circoscritte.

DUE MODELLI A CONFRONTO

Ma altre considerazioni e conclusioni possono trarsi dall'analisi delle correnti dottrinarie che trovano alimento ed ispirazione nel socialismo e nel liberalismo, e nelle loro nuove creazioni di pensiero. Esse ci appaiono essenzialmente le seguenti:
- i modelli classici sono ormai nell'uno e nell'altro campo sottoposti a critiche e revisioni, come è richiesto dalle condizioni nuove e dalle dimensioni maggiori che la realtà economica ed il divenire sociale stanno assumendo. Ormai la fedeltà assoluta nei principii originari, anche per il timore di essere superati dai tempi e di essere incapaci di dare risposte alle nuove domande che si levano dalle società ed alle sollecitazioni che lo stesso progresso scientifico comporta ed avanza, non si manifesta se non in termini di cultura arretrata e di ritardato avanzamento civile e sociale. Ne sono conferma i superstiti ed, invero pochi ed incerti modelli ancorati tuttora al feticcio marxista che fra l'altro non sono riscontrabili neppure nei Paesi dell'Est che sono alla ricerca, difficile, di una strada, impraticabile fino a quando non sarà garantita da un clima di libertà.
- l'evoluzione del pensiero socialista, a mano a mano che entra a contatto con la realtà e con gli imperativi che essa pone, con gli squilibri che ne provoca la sua più o meno rigida applicazione, procede con ridotta dinamica e mostra segni di avvicinamento, allorché vuole essere realistica, più ai principii di liberalismo, sia pure manifestati in termini di revisionismo, che non a quelle delle origini della sua dottrina. Di ciò si ha conferma nelle impostazioni e nella prassi che il socialismo, definito democratico o no, viene manifestando nell'Occidente. La stessa dottrina del comunismo occidentale viene attenuando per molti aspetti le sue linee di divergenza dal socialismo democratico, quale ad esempio è praticato nella Germania Occidentale.
- l'ombrello del pensiero liberale, ovviamente non in tutte le sue possibili applicazioni ed in tutti gli schieramenti politici, sociali, di dottrina economica, copre sempre più larghi strati delle convivenze civili, anche in funzione della sua adattabilità alle condizioni nuove, sempre tuttavia nel presidio della libertà che è l'unico mezzo di sopravvivenza e di esercizio della stessa democrazia.


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