L'ACROBATA SUL FILO




Gianni Agnelli



Qualche mese fa, l'Economist ha raffigurato l'economia italiana come un acrobata che cammina sul filo. E' un'immagine molto efficace. Come un acrobata, raccogliamo applausi: per i risultati della nostra industria, per la vivacità dei nostri mercati finanziari.
Ma, come un acrobata, camminiamo su un percorso estremamente instabile e insicuro. Ogni accelerazione del nostro processo di crescita compromette i nostri conti con l'estero. Ogni sforzo per accrescere la competitività del sistema industriale appesantisce il problema dell'occupazione. L'insicurezza rende precarie le nostre prospettive di sviluppo. E' importante, quindi, che ci interroghiamo su come ridurre questa insicurezza attraverso il pieno utilizzo di tutte le nostre risorse. Quest'obiettivo, però, comporta una profonda ristrutturazione di tutto il nostro sistema, sul piano economico, sul piano delle regole, sul piano dei comportamenti. Una ristrutturazione che finora soltanto l'industria ha avuto la forza e la determinazione di portare avanti sotto la pressione del confronto con la concorrenza internazionale. E' bene ed è importante che questo sia avvenuto; è altrettanto importante che continui ad aver luogo. Ma certo ci sono ancora molti ostacoli da rimuovere all'esterno della struttura produttiva.
Non ho l'intenzione di rinnovare il lungo elenco delle questioni non risolte, di cui tutti siamo a conoscenza. Dirò solo che avanti a tutto viene la questione della finanza pubblica. Nessuno dei problemi della nostra economia può trovare una soluzione adeguata se non si affronta seriamente questo nodo. Sono state spese molte parole inutili e molta retorica. Non credo che si possa arrivare a una conclusione positiva, se almeno uno dei partiti maggiori non si assume l'onere di proporre soluzioni concrete ed energiche, anche a costo di una sua impopolarità.
Ma noi siamo un'economia aperta: le nostre prospettive di sviluppo sono condizionate anche da fattori esterni. La nostra competitività dev'essere misurata sui mercati internazionali; il nostro tasso d'inflazione dev'essere comparato con quello di altri paesi. Ma il confronto tra noi e il resto del mondo non può essere limitato a fattori esclusivamente economici.
E' necessaria una valutazione globale della nostra dimensione relativa e della nostra reale capacità di influire sugli eventi che si sviluppano al di fuori del nostro paese. Soltanto in questo modo possiamo disegnare una strategia di sviluppo realistica e consapevole delle nostre possibilità e dei nostri limiti. In questo senso, anche il nostro collocamento nel contesto mondiale è una risorsa da ottimizzare.
Una prima considerazione da fare riguarda la nostra dimensione.
Sul piano economico, abbiamo dato, in passato, prove eccezionali della nostra vitalità e della nostra capacità di crescita. A tutt'oggi, in diversi settori, la nostra industria occupa posizioni di primato, per qualità e per contenuto tecnologico delle nostre produzioni. Ma, ragionando in termini globali, il nostro commercio internazionale rappresenta meno di un ventesimo del volume degli scambi mondiali.
La consistenza del reddito che noi produciamo è un decimo di quella degli Stati Uniti e un terzo di quella del Giappone. Dipendiamo in gran parte dall'Europa per i nostri mercati di sbocco. Dipendiamo quasi totalmente dal resto del mondo per gli approvvigionamenti di materie prime. Nel sistema economico mondiale, malgrado le nostre brillanti prestazioni, siamo un'entità limitata e dipendente.
Le stesse conclusioni possono essere tratte sul piano della nostra dimensione politica. Come molti altri paesi, dipendiamo dal gioco degli equilibri delle due superpotenze mondiali. A volte, il nostro collocamento al centro del Mediterraneo può farci pensare di avere un ruolo particolare: di essere l'ago della bilancia negli eventi che percorrono questa parte del mondo. Questa nostra ambizione ricorre, di quando in quando, fin quasi dalle origini dello Stato unitario. In realtà, il nostro ruolo di potenza mediterranea è scomparso da molti secoli. E, almeno da settant'anni, il Mediterraneo non è più il centro del mondo; e gli eventi che qui si verificano, si decidono in altri contesti e ben lontano da noi.
La nostra collocazione nel quadro mondiale è quella di un paese di frontiera. Un paese di frontiera in senso geografico, data la posizione che occupiamo tra l'Est e l'Ovest del continente europeo, tra l'Africa e l'Europa. Un paese di frontiera in senso politico, dato che siamo una democrazia occidentale a ridosso del blocco socialista. Un paese di frontiera in senso economico, dato che per ultimi siamo entrati nel club dei paesi altamente industrializzati e siamo nella posizione-limite tra questi e i paesi a più vasto tasso di sviluppo.
La nostra dimensione e la nostra collocazione geo-politica possono dare luogo a diverse scelte di comportamento. Potremmo decidere di percorrere una nostra via autonoma, chiudendoci in una specie di autarchia politica ed economica: ma questa sarebbe la scelta dell'isolamento e dell'autodistruzione. Potremmo praticare una specie di equilibrismo politico tra l'uno e l'altro versante del mondo, scegliendo di volta in volta di essere i primi tra gli ultimi o gli ultimi tra i primi.
E' un comportamento che ci può dare il senso effimero di contare nel mondo più di quanto realmente contiamo; in realtà, sarebbe il cammino verso la nostra progressiva balcanizzazione. Possiamo, infine, percorrere la via delle alleanze certe, durevoli, conforme alla nostra vocazione storica e alle possibilità di trarne vantaggi scambievoli per il nostro sviluppo economico e civile. Non dovrebbero esistere dubbi sul fatto che quest'ultima è la sola alternativa possibile.
Dopo l'ultima guerra mondiale, l'Italia ha compiuto due scelte di campo fondamentali per la sua storia. La scelta atlantica e quella europea. Questa doppia scelta ha avuto il conforto e la conferma di uno sviluppo straordinario in economia, in democrazia, in crescita civile. Malgrado tutto, la nazione italiana è ancora compresa nel 15 per cento dei popoli più evoluti, più ricchi, più liberi, tra i cinque miliardi di uomini che coprono il pianeta.
E' una posizione di privilegio. Ma è una posizione difficile da mantenere, e ancor più difficile da migliorare. Specie se si tiene conto delle tensioni politiche ed economiche che si manifestano nel mondo in misura crescente. Certo, non è possibile mantenere questa posizione da isolati. Rafforzare con determinazione, con chiarezza, le scelte di campo già fatte, è una condizione essenziale per il nostro sviluppo, per non consumare il patrimonio che abbiamo accumulato, per non dissipare in anticipo il nostro futuro.
Ugo La Malfa, molti anni fa, diceva che l'Italia deve scavalcare le Alpi. E' una posizione oggi più che mai attuale. Ma scalare le Alpi è difficile. Una specie di forza di gravità trascina noi verso il Mediterraneo. Una specie di forza centrifuga contrasta e rallenta i legami politici ed economici tra gli Stati d'Europa. Le difficoltà economiche di questi ultimi anni hanno accentuato le ragioni nazionali a danno di quelle comunitarie. E allo stesso tempo sembrano suscitare, specie in alcuni paesi, i fantasmi della grandezza e della potenza passata. Alcuni di essi tendono a comportarsi come se si fosse ancora ai tempi in cui "i destini del mondo si decidevano sui tavoli di Londra e di Parigi". E si va diffondendo l'illusione che Londra, o Parigi, o Bonn possano essere ancora i centri di un potere e di un predominio, che in realtà è qualcosa di evanescente di fronte alle forze che si confrontano sul nostro pianeta.
Ventitré anni fa De Gaulle, dall'alto della sua "grandeur", definì il primo ministro del Giappone, che era andato a visitare la Francia, un "piccolo venditore di transistor". Oggi, i piccoli venditori di transistor sono la seconda potenza economica del mondo. Il prodotto interno del Giappone è diventato pari al 40 per cento di quello degli Stati Uniti, dall'8 per cento che era vent'anni fa. La penetrazione dei prodotti giapponesi minaccia la stessa potenza economica americana e preme duramente alle porte del nostro continente.
Ma noi, in Europa, ci comportiamo spesso come se non lo sapessimo. Continuiamo a disperdere nelle liti di frontiera e nei contrasti di bandiera le possibili economie di scala. E ci sembra a volte di dimenticarci che la vecchia Europa è finita a Versailles, nel 1914, è finita con il crollo dell'impero austroungarico e con la fine di quello britannico; e che la guerra del 1939-45 ha sancito la definitiva collocazione dei paesi del nostro continente in una posizione di secondo rango negli equilibri politici del mondo.
E' importante aprire gli occhi su queste verità, per quanto sgradevoli possano essere. Le nostalgie del passato non servono a costruire il futuro. I ricordi sono belli da rivivere quando si è definitivamente accettato la decadenza. Ma possono essere ostacoli irrimediabili quando si cerca la via per un nuovo sviluppo.
Dobbiamo riacquistare in Italia e in Europa, il senso delle proporzioni Costruire sulla realtà di oggi i nostri disegni di sviluppo, eliminando le scorie mentali che ci legano al passato. Dobbiamo fare una specie di "zero base budgeting" per l'Italia e per l'Europa. Soltanto con la chiara conoscenza dei nostri limiti possiamo acquistare una nuova forza nei confronti del resto del mondo. Nei miei ricordi personali c'è una frase che mi veniva ripetuta costantemente, ed è quella che "gli utili della Generai Motors erano uguali al fatturato della Fiat". Era la posizione della Fiat di fronte ai suoi concorrenti. Questa chiarezza delle proporzioni è stata la dimensione sulla quale abbiamo commisurato le ambizioni della nostra azienda e sulla quale abbiamo tagliato le nostre strategie, ottenendo i successi che oggi tutti ci riconoscono.
Con questo atteggiamento dobbiamo affrontare la rivoluzione tecnologica in corso. La forza che muove il mondo è, oggi, l'innovazione, molto più decisa, molto più universale che in passato. Ma il processo di innovazione non è più quello del Medioevo e del Rinascimento, quando era concentrato nel cervello e nelle mani di pochi. E non è più nemmeno quello della fine dell'Ottocento, quando i pionieri erano nelle condizioni di godere dì lunghe rendite basate sulla inimitabilità dei loro ritrovati.
La velocità di propagazione dell'innovazione è tale da battere rapidamente ogni steccato protettivo. E le grandi innovazioni, oggi, sono il prodotto di grandi sistemi, e di grandi strutture pubbliche, che dispongono di enormi possibilità di risorse finanziarie e che determinano con la loro domando la diffusione e la realizzazione concreta delle invenzioni scientifiche. Né l'Italia né alcun altro paese europeo hanno la dimensione e il peso politico sufficiente per condurre, da soli, questo processo.
La collaborazione internazionale è la porta d'accesso per partecipare in modo attivo ai grandi processi innovativi, e non solo subirne le conseguenze. Ho qualche riserva sulla possibilità che questa collaborazione possa essere costruita sulle vie burocratiche e sulla contrattazione tra governi. E' certo più rapida e più produttiva la via degli accordi tra imprese. E devo dire francamente che questa via, oggi, mi sembra più proficua e più facilmente percorribile tra le due sponde dell'Atlantico che all'interno dell'Europa.
Naturalmente è importante ricercare le alleanze giuste; è importante valutarne attentamente le conseguenze; è importante soprattutto essere nelle condizioni di poter rinunciare a prospettive che non siano di certo e scambievole vantaggio. Certo, avrete seguito le recenti vicende della trattativa per un accordo tra la Fiat e la Ford. Quando abbiamo constatato che le divergenze di vedute erano tali, da non portare a una conclusione positiva, abbiamo preso atto con rammarico che entrambe le aziende avevano perso una valida opportunità. Ma abbiamo avuto anche la soddisfazione di constatare che potevamo prendere la nostra decisione senza alcun condizionamento economico o finanziario.
Resta il fatto che la via degli accordi internazionali è la sola che può consentire all'industria di un paese come il nostro di costruire prospettive di espansione certe e durevoli. E' su questa strada che dobbiamo camminare con decisione.
Ho creduto che fosse importante fare alcune considerazioni realistiche sulla situazione del nostro paese. Alcune ragioni mi hanno indotto a farlo. Certi comportamenti di politica economica che sembrano non tener conto della nostra dipendenza dall'economia internazionale. Certe interpretazioni dei fatti del mondo mi sembrano misurate esclusivamente sul nostro limitato orizzonte.
La mia convinzione è che dobbiamo riferirci alla realtà qual essa è, anziché a come ce la figuriamo o come la desideriamo. Solo così possiamo aspettarci di essere più autorevoli e più credibili. Possiamo pensare di risolvere i nostri problemi economici e di utilizzare con piena efficacia le nostre risorse. Possiamo aspirare ad appartenere a pieno titolo alla società occidentale, che è la vocazione della nostra storia, della nostra cultura, del nostro lavoro.

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