Esiste una questione
meridionale per l'economia italiana alle soglie del terzo millennio?
li Governatore della Banca d'Italia non ha dubbi: sì. Nelle
sue considerazioni finali, ha riepilogato con chiarezza quali sono,
oggi, i termini del problema. Rispetto a trent'anni fa, il Mezzogiorno
ha compiuto un enorme salto di qualità, ma il processo che
lo ha portato a triplicare il prodotto pro-capite e a ridurre progressivamente
il divario con il Centro-Nord si è interrotto nel 1973. Per
questo motivo, nel prossimi dieci anni le regioni del Sud saranno
le prime vittime di quella miscela esplosiva (aumento dell'offerta
di lavoro per effetto di recente baby-boom e contrazione della domanda
indotto dall'innovazione tecnologica) che in tutto il paese tenderà
ad accrescere la disoccupazione giovanile.
Da queste stesse premesse muove uno studio recentemente realizzato
dalla Svimez che esamina le tendenze dell'occupazione al Sud e chiarisce
le caratteristiche specifiche che il problema della disoccupazione
assume nelle singole regioni. Nel Sud d'Italia oggi è concentrato
il 40% dei senza-lavoro: un milione e 700 mila persone, per metà
tra i 14 e i 29 anni. Nel Nord il tasso di disoccupazione è
intorno al 10%. Sulla base di queste cifre, i ricercatori della Svimez
hanno realizzato una stima del numero dei lavoratori in cerco di occupazione
al Sud di qui al 1994. Il risultato della simulazione non lascia spazio
all'ottimismo: si tratto di 2,3 milioni di unità, pari al 57%
dell'offerta aggiuntiva di lavoro in tutto il paese. Oltre al fattore
demografico, l'aumento è spiegato da una richiesta sempre più
marcato di partecipazione al mercato del lavoro da parte delle donne
e dalla tendenza a un'ulteriore diminuzione dell'occupazione nel settore
agricolo.
Ma se queste sono le tendenze spontanee dell'offerta di lavoro, quale
dev'essere il numero di nuovi posti da creare nel Sud? La Svimez ritiene
che si possa definire di pieno impiego una situazione caratterizzato
da un tasso di disoccupazione del 5% (livello di disoccupazione "frizionale").
Ciò significa che, per ottenere Il pieno impiego nel Sud, sarebbe
necessario creare nell'arco di nove anni circa un milione e 800 mila
nuovi posti di lavoro, pari ci due terzi della nuova occupazione che
occorrerebbe creare a livello nazionale.
Secondo la ricerca Svimez, un traguardo intermedio perseguibile in
un orizzonte temporale più breve potrebbe essere quello di
riportare il tassi di disoccupazione meridionale dall'attuale 15%
all'11%. Ma anche per realizzare questo obiettivo, la domanda di lavoro
aggiuntiva dovrebbe aggirarsi sulle 200 mila unità ogni anno.
E questa cifra, secondo la Svimez, evidenzia la necessità dell'intervento
straordinario nel Sud.
Infatti, nemmeno una lunga e sostenuta fase di ripresa potrebbe riuscire
a metter su nei prossimi anni una domanda di lavoro così elevata.
Le ipotesi più ottimistiche sulla congiuntura fanno comunque
ritenere che prima di creare nuovi posti di lavoro, la ripresa comporterò
una fase di aumento del prodotto senza aumento dell'occupazione. L'intervento
dello Stato, dunque, deve creare infrastrutture ed economie esterne
tali, da permettere una ripresa nel lungo periodo dell'industrializzazione.
Ma in quali zone va concentrata l'azione dello Stato? L'analisi dei
vari indicatori dei malessere mette in evidenza una situazione estremamente
differenziato. Si va da una regione come l'Abruzzo, che raccoglie
solo il 4,9% del totale dei disoccupati meridionali ed è riuscita
a ridurre il divario di prodotto procapite con il resto del paese
al 28,7%, fino a una regione come la Calabria, che oltre alla forte
incidenza della disoccupazione lamenta il più forte gap di
sviluppo con il resto del paese (43,2%).
In posizione intermedia si colloca la Puglia, dove l'incertezza delle
prospettive è dovuto alla forte crescita dell'offerta di lavoro.
Ma i problemi più dirompenti (oltre a quelli originati dalle
aree arretrate o che maggiormente hanno risentito dalla crisi, come
la Sardegna) nascono dalle aree metropolitane. Il rapporto Svimez
sottolinea infatti la gravitò della situazione campana, che
totalizza il 30,6% della disoccupazione meridionale (351unità
mila disoccupati, includendo anche i cassintegrati a zero ore). Ma
parlare della Campania equivale a parlare di Napoli, dove vive il
75 %.della popolazione campana; così come i problemi della
Sicilia sono in larga parte riconducibili a quelli di Palermo e di
Catania.
A questo punto, una domanda: ha un avvenire l'industrializzazione
del Sud? E se non ce l'ha, diciamo nei prossimi quattro-cinque anni,
che cosa occorre fare? Abbandonare a se stessi i meridionali oppure
supplire con altre iniziative alla mancata ripresa industriale? Sono
interrogativi che si pongono in molti, anche alla luce dei sommovimenti
che scuotono le gerarchie del capitalismo italiano e dai quali tutto
traspare, fuorché una strategia che rilanci in modo unitario,
a Nord e a Sud, il sistema industriale e ne faccia la fonte di lavoro
e di ricchezza per tutto il paese.
Il primo ad aver cercato di dare una risposta a questi interrogativi
è stato Pasquale Saraceno, il quale ha detto in sostanza che
l'industrializzazione del Mezzogiorno, finora trainata dalle decisioni
di investimento di grandi imprese del Centro-Nord, nei prossimi anni
continuerà a ristagnare, come è accaduto almeno da un
decennio a questa parte. La grande industria centrosettentrionale
va da tempo realizzando investimenti "intensivi", cioè
investimenti che non accrescono la capacità produttiva, bensì
razionalizzano gli impianti esistenti con l'automazione, con la riorganizzazione
del lavoro, con la contrazione degli organici. Ma il Sud puo' approfittare
solo degli investimenti "estensivi", che sono quelli che
accrescono la capacita produttiva e l'occupazione, e dunque danno
vita a nuovi stabilimenti. Perciò, conclude Saraceno, bisogna
attendere che si compia tutta intera la ristrutturazione dell'industria
forte, del Centro-Nord, e poi sperare che l'accumulazione muti segno,
passando da intensiva ad estensiva. Nel frattempo, nelle regioni meridionali,
si possono intraprendere investimenti pubblici compensativi, come
quelli per il risanamento delle città che da un lato affrontano
problemi acuti di vivibilità, e dall'altro preparano l'ambiente
alla successiva, auspicata ondata di nuova industrializzazione.
Il ragionamento di Saraceno apparentemente non ha folle. E gli investimenti
pubblici che egli rivendica non sono la solito spesa pubblica per
assistere gli emarginati. Quindi, non dovrebbero attrarre gli strali
di quei rigoristi della finanza pubblica, i quali vorrebbero impugnare
la scure e tagliare le spese improduttive. C'è tuttavia una
premessa maggiore (dicevano una volta gli Scolastici), che è
una premesso non convincente. Perchè mai la ripresa industriale
del Sud dovrebbe fare perno ancora e sempre sugli investimenti della
grande impresa del Centro-Nord?
Che i grandi impianti industriali localizzati al Sud nel decennio
1965-75 abbiano cambiato, nel bene e nel male, la geografia economica
di una parte del Sud, è un dato di fatto irrefutabile. Che
i generosi incentivi all'industrializzazione siano stati incassati
perciò dalla megaimpresa settentrionale è un'altra constatazione
di fatto da tutti ammessa. Ma siamo sicuri che da qui alla fine del
secolo la musica riprenda e che il rinnovamento industriale del Sud
debba necessariamente assomigliare al deja vu?
E' tempo di mettere in discussione simili ipotesi e di avanzarne altre,
alternative. Siamo infatti convinti in molti che il futuro Industriale
del Sud dipenderà sempre meno dalla grande impresa, spinta
semmai a localizzare nuovi impianti (se ce ne sarò bisogno)
in altre parti del mondo, dove abbondano materie prime e forze di
lavoro a basso prezzo e dove tirano i mercati per i prodotti maturi.
E dipenderà sempre di più dall'impresa medio-piccolo,
di origine locale. Dipenderà sempre di più dagli imprenditori
meridionali.
Un ceto imprenditoriale dinamico, aggressivo, proteso all'innovazione
si è fatto ormai le ossa nel Mezzogiorno, e ambisce, e ha le
capacitò di crescere. Sono questi i protagonisti della rinascita
industriale del Sud. Ed è inutile sognare la ripetizione di
un passato irripetibile.
Semmai, il discorso dovrebbe spostarsi sugli strumenti che possano
favorire la crescita dei nuovi imprenditori meridionali. Incentivi
finanziari e fiscali bastano, oppure sono tipici strumenti disegnati
e abbondantemente utilizzati dalle grandi imprese nel decennio d'oro,
tra metà anni '60 e metà anni 70? Non servono allora
all'affermazione dei piccoli imprenditori meridionali altri incentivi,
quelli che si chiamano incentivi reali, come una buona rete energetica,
la trasmissione efficace delle informazioni a distanza (telematica),
le aree industriali (e quelle artigiane) attrezzate?
E non è forse meglio deregolamentare il sistema degli incentivi,
anziché costruire - come fa la nuova legge sul Mezzogiorno
- una selva di controlli e di veti incrociati? Controlli, visti, autorizzazioni
sono funzionali a un disegno di cosiddetto contrattazione programmata,
tra Stato e grande impresa, per nuovi investimenti a Sud. Ma diventano
un abito stretto se l'interlocutore da privilegiare è il piccolo
imprenditore. Allora: a che gioco si sta giocando?
QUALE SUD
Paolo Savona
Su quali basi
ricostruire le prospettive di sviluppo del Mezzogiorno drammaticamente
cadute? Come affrontare il problema della concentrazione del Mezzogiorno
dei tre milioni di disoccupati preconizzati da Ciampi a politiche
immutate? Vediamo innanzitutto come la pensa il Governatore della
Banca d'Italia. Egli sostiene che "la questione meridionale si
ripropone quale snodo decisivo del progresso economico e civile dell'intera
società italiana"; essa pareva assopita e per taluni liquidata
con l'aumento del livello di benessere delle popolazioni. Prendendo
come indicatore il valore del prodotto per abitante, il "benessere"
del Mezzogiorno si è triplicato e il divario Sud-Nord è
sceso dal 49% del 1960 al 38% del 1973, ma da allora è fermo:
la crisi petrolifera pare aver congelato la crescita del prodotto
meridionale e le politiche attuate si mostrano inefficienti a garantire
ulteriori progressi.
Ma, come ripetutamente detto, il livello di benessere non è
tutto per il Sud. Infatti il Governatore denuncia che in quest'area
"le iniziative e la creazione di posti di lavoro sono scoraggiate
da una produttività inferiore a quella del Centro-Nord".
Su questo aspetto del problema le "Considerazioni" non sono
supportate da dati, in quanto quelli disponibili non sono inequivocabilmente
probanti. E' noto, tuttavia, che - mediamente - i divari di produttività
NordSud sono sostanzialmente rimasti identici, forse perchè
nel Nord il progresso in questo campo è stato più rapido
di quello del benessere, ma anche perchè la dotazione di capitale
nel Sud è ancora modesta.
Alcune stime indicano che il lavoro rende nel Sud un 20% in meno che
nel, Nord per il combinato effetto di macchine meno efficienti e specializzazioni
meno elevate. Ciampi afferma che "lo sgravio degli oneri sociali
tende a compensare il divario; il divario non colmato si traduce in
differenziali di salario o in maggiore disoccupazione". "Ma
l'azione pubblica - precisa il Governatore - è chiamata soprattutto
a eliminare i dislivelli di produttività, generando economie
esterne, migliorando le infrastrutture, promuovendo nuove iniziative
e capacità produttive nel Mezzogiorno", per cui anche
nel Sud vale la prescrizione che "la via per creare occupazione
è l'accumulazione di capitale, unita a rapporti di lavoro più
flessibili", e questa accumulazione, a sua volta, richiede "il
risanamento del bilancio pubblico".
Non è solo attraverso il risanamento del bilancio pubblico
che Ciampi colloca la questione meridionale nel quadro della soluzione
più generale dei problemi del paese. Egli indica che "l'obiettivo
di ridurre il vincolo esterno che frena l'intera economia coincide
con l'esigenza di proseguire nell'opera di ammodernamento dell'agricoltura
meridionale" ed aggiunge che "l'ampliamento dei settori
tecnologicamente avanzati può avvenire anche privilegiando
nuovi investimenti al Sud, sia nell'industria sia nei servizi",
e conclude che "le possibilità del turismo vanno pienamente
valorizzate".
Ciampi è molto accorto nell'evitare lo scoglio politico di
chi si deve dare cura della "questione meridionale" e rammenta
che "lo sviluppo del Mezzogiorno è affidato in primo luogo
alle attitudini organizzative e all'impegno della società meridionale",
ma - avverte - "rimane essenziale ( ... ) l'azione penetrante
di coordinamento che la legge ha affidato agli organi centrali".
In questi lucidi passaggi vi è la sintesi emergente del "nuovo
meridionalismo", la cui analisi va guadagnando terreno ed ha
ora ricevuto un'autorevole conferma nelle "Considerazioni finali"
della Banca d'Italia. Le tesi del "nuovo meridionalismo"
possono essere sintetizzate nelle seguenti proposizioni:
- preoccupiamoci meno del benessere e più della produttività;
- preoccupiamoci meno del livello di domanda e più dell'offerta;
- è illusorio colmare i divari con contributi a fondo perduto,
occorre eliminare le cause che li generano; tra queste ancora pesa
la carenza di infrastrutture capaci di generare economie esterne;
- lo sviluppo non coincide con la sola industrializzazione, ma deve
scaturire anche dall'agricoltura e dal terziario, compreso un migliore
sfruttamento del turismo.
Per completare il quadro manca però, da un lato, il richiamo
ad una più intensa applicazione nel Mezzogiorno delle prescrizioni,
in altra parte avanzate da Ciampi, concernenti la ricapitalizzazione
delle imprese. Queste prescrizioni appaiono particolarmente rilevanti
per il Mezzogiorno, dove gli elevati incentivi all'indebitamento hanno
creato strutture finanziarie squilibrate, rese ancor più pesanti
dal perdurare della crisi meridionale. Dall'altro, manca il riconoscimento
che il Mezzogiorno è un'economia totalmente aperta al resto
d'Italia e collocato nelle regole di scambio vigenti nel resto del
mondo; questo riconoscimento conduce a ritenere impossibile procedere
prevalentemente con politiche che compensino il deficit dei conti
"con l'esterno" (il resto del paese e l'estero propriamente
detto) del Mezzogiorno con soli trasferimenti pubblici; occorre aumentare
le esportazioni. Data la base ridotta del proprio mercato "interno",
il problema della conquista di nuovi mercati sui quali collocare le
produzioni meridionali diviene centrale per beneficiare delle economie
di scala di cui già gode il Nord o soltanto per ipotizzare
al Sud un più esteso uso di tecnologie moderne ad alto "gettito"
di prodotto.
QUALE SUD
Giorgio Ruffolo
Lo scopo dell'intervento
straordinario, nella cultura buona del meridionalismo, è sempre
stato quello di integrare il Mezzogiorno organicamente al resto del
paese. Il suo successo doveva stare proprio nella sua capacità
di autodistruggersi, come certe capsule spaziali, una volta compiuta
la missione. Ciò richiedeva un grande sforzo nazionale, fondato
su una strategia di sviluppo coerente e su un sistema di decisioni
efficace.
Nelle prime fasi dell'intervento, quando si trattava di far decollare
il Mezzogiorno, che era allora una grande area prevalentemente agricola,
relativamente omogenea, fortemente sottosviluppata, vi furono sia
una strategia (fondata sul binomio grandi opere pubbliche-finanziamenti
agevolati alla grande industria) sia un forte soggetto decisionale
(la Cassa). Poi, il disegno si è gradatamente imbrogliato.
La strategia, sempre fondata su quel binomio, è però
scaduta nella quotidianità degli interventi a pioggia. Il sistema
decisionale si è frammentato disorganicamente, e il tentativo
di riassumerlo nella programmazione nazionale è fallito.
Intanto il Mezzogiorno - sotto l'impulso dell'intervento e delle tendenze
spontanee - cambiava. Cambiava bene, con la crescita dell'apparato
produttivo e, soprattutto, dei consumi. Cambiava male, con la crescita
del disordine sociale, del quale tre aspetti sembrano oggi particolarmente
preoccupanti: il primo, lo sfascio dell'ambiente, naturale, urbano
e "culturale" in senso lato; il secondo, l'avvento di una
pseudoborghesia di Stato e di partito, vorace e parassitaria, che
vive in gran parte di rendite d'intermediazione tratte dall'intervento
pubblico; il terzo, l'estendersi dell'economia e della società
extralegale, nelle forme più familiari del "sommerso",
o in quelle più inquietanti della malavita. Nell'insieme, oggi,
il Mezzogiorno non è più propriamente una economia sottosviluppata.
Ma è ancora una economia assistita: le risorse che esso consuma
eccedono (del 13 per cento circa) quelle che produce.
In tali condizioni, occorrerebbe riprendere, in forme rinnovate, il
grande disegno meridionalista: promuovendo, cioè, nel Sud,
per renderlo autonomo, non tanto opere ed impianti, quanto capacità
imprenditoriali ed amministrative, energie produttive e servizi sociali.
Ciò comporterebbe (ma quante volte lo si è detto?) un
grande sforzo nazionale: un riorientamento di tutta la politica economica,
industriale, sociale del paese sulla scommessa nazionale dello sviluppo
meridionale. Il fallimento storico di questo disegno non significa
solo la condanno del Mezzogiorno a una cronica subalternità,
ma il compimento, dal lato perverso, della profezia: L'Italia sarà
quel che il Mezzogiorno sarà.
Ebbene, a questa domanda nazionale noi offriamo, una volta ancora,
una risposta regionale. La nuova legge "organica" trasforma
la Cassa in un Fondosportello, da cui trarre le risorse per finanziare
progetti regionali e centrali disparati. Il piano fornisce a tali
progetti un "quadro di riferimento" fatto solo di parole:
non un piano, ma un discorso sul piano.
E come potrebbe essere diversamente? Il Ministro dell'Intervento Straordinario
comanda una piccola parte del campo di operazioni. Come potrebbe dare
ordini di battaglia a divisioni che dipendono da altri generali, impegnati
in guerre diverse e lontane? Non c'è da stupirsi che egli non
emetta ordini, ma formuli ipotesi, auspici, "orientamenti".
E però: un piano vero non è fatto di parole ma, soprattutto,
di cifre; non di orientamenti, ma di decisioni. Non si tratta - e
in ciò il Ministro del Mezzogiorno ha ragione - di elencare
opere e progetti particolari. Si tratta, però, di quantificare
gli obiettivi e, prima di tutti, quello fondamentale, per il Mezzogiorno,
del l'occupazione: che senso ha "stanziare" (si fa per dire)
140 mila miliardi, se non sappiamo quanti posti di lavoro, presumibilmente,
intendiamo creare e dove, regione per regione? Si tratta di precisare
l'entità degli investimenti, necessari per realizzarli, e il
quadro, flessibile sì, ma definito, della loro ripartizione,
per regione e per destinazione.
Un piano del genere può essere scritto in una decina di pagine,
prosciugate dalla sociologia, dense di cifre, scarne di proposizioni.
Un documento, insomma, del tipo di quelli che Pasquale Saraceno definiva
Rapporto alla Regina. La Regina, si sa, non ha tempo da perdere. E
ha anche il diritto sovrano di essere un pò stupida: non deve
scervellarsi a interpretare discorsi culti. Deve poter fare i conti
sulle sue dito regali. Tuttavia, un piano così semplice richiede
un lavoro politico complesso. Richiede uno sforzo nazionale di programmazione:
che consenta, sulla base di obiettivi chiari e precisi, di coordinare
davvero, efficacemente, progetti regionali e nazionali, interventi
ordinari e straordinari. Diversamente, possiamo bene immaginarci quel
che avverrà. I bei discorsi sul coordinamento resteranno nel
regno del linguaggio socio-politichese, quel linguaggio in cui non
appare mai il vincolo della cifra 100, e tutto è "compatibile"
e "verificato". L'intervento straordinario si perpetuerà
come sistema periferico. La suo gestione sarà ispirata alla
logica spartitoria e assistenzialistica, non a quella programmatrice
e produttivistica. Altro che rivoluzione copernicana! Il regno tolemaico
del Sud godrà di una proroga di altri nove anni, e di un piccolo
tesoro di 140 mila miliardi.
Temo che questo non sia buon meridionalismo moderno: ma cattivo sudismo,
vecchio e subalterno.
QUALE SUD
Giovanni Russo
Pasquale Saraceno,
che è stato uno dei principali ispiratori della politica di
industrializzazione del Mezzogiorno, ha ammesso che, nella condizione
attua e, è unanime il riconoscimento che non è più
possibile fare buoni investimenti nel Sud di impianti industriali.
Saraceno afferma che questo è ormai un dato di fatto incontrovertibile
e consiglia di impostare il nuovo intervento straordinario dello Stato
negli assetti urbanistici e nelle infrastrutture che dovrebbero preparare
futuri investimenti industriali quando l'epoca, che egli stesso però
considera impossibile oggi prevedere, dovesse di nuovo diventare propizia.
In un mondo in cui, com'è chiaro anche ai ciechi, la contraddizione
principale dei paesi più avanzati è fra quello che viene
definito l'"hardware" e quello che viene chiamato il "software",
questo è un modo rovinoso di impostare il problema di un intervento
di ben 140.000 miliardi di lire nei prossimi nove anni per il Sud;
a meno che non si voglia, come nel passato, farlo disperdere nei rivoli
di iniziative parassitarie e assistenziali che farebbero lievitare
ancora forme di corruzione e di delinquenza.
E' innegabile quindi che, anche per gli errori d'impostazione della
politica della Cassa per il Mezzogiorno, dopo il primo periodo positivo
di programmazione, il Sud ha perduto definitivamente l'occasione di
diventare sede di un organico sistema industriale. Le cattedrali nel
deserto non ce le siamo inventate noi. Ma questo svantaggio potrebbe
trasformarsi in un grande vantaggio per il Sud se gli uomini di governo
comprendessero finalmente che, mentre il Nord rimane la sede storica
principale di un grande sistema industriale che va ristrutturato,
come ha giustamente osservato un economista come Talamona, guardando
il futuro, il Sud èla terra vergine ideale per diventare la
sede delle prospettive di sviluppo di un avvenire che batte già
alle porte: quello della ricerca scientifica, del polo elettronico
delle più avanzate tecnologie, insomma del "software".
Nel Sud, infatti, esistono cervelli e strumenti, checché se
ne pensi, per raggiungere questi obiettivi avanzati.
Molto opportuno è l'appello di Antonio Giolitti alla Camera
perché vengano indicati i criteri-guida "totalmente assenti"
nella nuova legge per il Mezzogiorno e la sua denuncia delle mode,
spesso d'importazione, sulla "deregulation" per evitare
quel coordinamento da parte degli organi centrali, auspicato dal Governatore
della Banca d'Italia, che è in sostanza l'invito a scegliere
chiaramente la strada della programmazione.
C'è chi si preoccupa di non ripetere gli errori degli ultimi
vent'anni, c'è chi paventa il ricorso ancora all'istituto della
"concessione" come sorgente di nuovi potentati economici
che possono provocare la disgregazione ulteriore dello Stato nel Sud.
Vogliamo ricordare, a questo proposito, che l'istituto della concessione
fu adottato dal governo italiano, subito dopo l'unità, per
la costruzione del sistema ferroviario, in quanto il giovane Stato
non disponeva dei mezzi finanziari per realizzare questo progetto
di modernizzazione del paese.
Oggi è vero il contrario. L'istituto dei a concessione si è
trasformato in un mezzo giuridico attraverso il quale grandi forze
parassitarie non solo non fanno le anticipazioni di capitale fisiologiche
in tali tipi di convenzione, ma addirittura lavorano con fondi anticipati
dallo Stato.
Se Silvio Spaventa volle la nazionalizzazione delle ferrovie per estirpare
quelle imprese che egli chiamò nuove forze feudali, oggi il
nostro Stato deve rifiutare l'istituto delle concessioni che sembra
invece ancora essere considerato attuale. Se si continua per la vecchia
strada, cadremo inevitabilmente nell'assistenzialismo, nel parassitismo
delle grandi concessioni che, a loro volta, verrebbero applicate ai
centri storici del Mezzogiorno. Ma i centri storici sono l'ultima
vera risorsa, insieme a quella dell'alta cultura, del nostro Sud.
Lo credano o no i nostri falsi profeti, essi sono il più grande,
inesauribile patrimonio e, come ha detto nel suo appello lo scienziato
Eduardo Caianiello, potrebbero trasformare il nostro Mezzogiorno in
una delle società più avanzate del mondo, se sarà
scelta la strada della rivoluzione scientifica e tecnologica.