Ancora una volta,
l'Italia fa impazzire l'ago della bussola di economisti e sociologi
del mondo. Data quasi per spacciata in tempi recenti (quelli del "rischio
Italia", quando per un prestito estero dovevamo garantire con
il trasferimento di riserve auree), si riprese nel giro di un anno,
smentendo tutti i profeti che avevano previsto un'ulteriore caduta
a vite. Attraversata da una crisi che sembrava irreversibile, colpita
da due shoks petroliferi, con l'industria di trasformazione delle
materie prime costretta a pagare di più e a rendere di meno,
è riemersa col "sommerso" e col "made in Italy",
che hanno conquistato mercati perduti e mercati nuovi, surclassando
concorrenze accanite. Tutte le previsioni sono state sconvolte e regolarmente
smentite.
Crazy Italy, "pazza Italia", dicono. Incapace, cioé,
di darsi rigorose linee di comportamento, invalicabili e immutabili,
almeno nel medio periodo. Ma forse proprio questo è il segreto
del suo successo: fantasia, flessibilità, spirito di adattamento,
estro, creatività, difficilmente si accordano con un progetto.
Oppure, più realisticamente, sono essi stessi progetto, magma
in continuo trasformazione, in costante evoluzione. Si ritiene che
questo sia il destino dei paesi trasformatori, che come unica materia
prima sono costretti, in mancanza d'altro, ad usare l'ingegno. In
questo senso, c'è una scuola tipicamente nostra, e assai diverso,
ad esempio, da quella giapponese, che plagio e miniaturizza, ma non
crea. L'immagine dei "cespugli" che per la nostra economia
diede De Rita è forse la più pertinente: solo che i
"cespugli" devono rinnovarsi senza sosta per sopravvivere,
e aggredire sempre nuovi spazi per non estinguersi. Così, la
proliferazione spontanea garantisce recuperi che quella programmata
non sempre riesce a dare. Allora la "follia" diventa persino
genialità, e genera idee vendibili.
Ma qual'è l'immagine che noi abbiamo di noi stessi? Chi riteniamo
di essere, e come ci comportiamo? Soprattutto, che cosa ci riserva
il nostro futuro? Abbiamo rivolto queste ed altre domande ad alcuni
uomini di spicco, giornalisti, economisti, imprenditori pubblici e
privati. Quale Italia? E' emerso un paese allo specchio, con contorni
precisi, con ipotesi contigue alla realtà, pur nella suo mutevolezza
sistematica o orruffona, invisibile o travolgente. E queste facce
della nostra realtà proponiamo qui, perchè siano elemento
di riflessione e di dibattito. Per sapere chi siamo, ma anche per
capire come siamo, in quale direzione ci muoviamo e insieme con chi
vogliamo andarci. E con ogni probabilità, la scoperto più
interessante è proprio questa: che una filosofia molto pragmatica
è al fondo dei nostri comportamenti; che il rischio imprenditoriale
non è più esclusivo di una parte del paese; che persino
la religione è - oltre che un'esigenza dello spirito - un fatto
in sé "produttivistico", più venata di calvinismo
di quanto sia dato credere. Come popolo, siamo profondamente cambiati.
Non siamo più la gente degli anni '60, ma neanche gli uomini
del dopo - '68. Ci attrae come curiosità dialettica la scuola
di Francoforte, con I suoi mugugni e con le sue astratte spinte rivoluzionarle:
ma abbiamo i piedi radicati per terra, e le nostre rivoluzioni le
facciamo quotidianamente, rinnovando la sola cosa che ci è
rimasta, e nella quale siamo unici specialisti planetari: il miracolo.
Questo è solo "cosa nostra". Allora non c'è
proprio da rimpiangere alcun passato: proprio perchè miracolosamente
continuiamo ad affrontare il futuro.
QUALE ITALIA
Arrigo Levi
La creazione umana
è un processo senza fine; e mai in passato è stata intensa
e drammatica come nell'epoca attuale. Ciò è vero per
l'Italia come per ogni altro paese del mondo d'oggi. La società
italiana non è mai stato più vitale e più creativa,
nella sua lunga storia, di quello che è oggi. Questa nazione
di costruttori (fin dai tempi più antichi), è, da alcuni
decenni, più che mai impegnata a trasformare, con il suo lavoro,
il volto stesso del nostro paese. Questo non vuoi dire che noi non
proteggiamo i grandi monumenti del passato che abbiamo ereditato.
Una società in sviluppo non può diventare un museo:
in verità, la speciale bellezza dell'Italia d'oggi nasce da
una ineguagliata combinazione del passato col presente, della tradizione
con la modernità.
Quest'immagine di un'Italia che cambia è il risultato di un
intenso sviluppo economico. La nostra crescita non è stata
interrotta dalle crisi economiche mondiali degli ultimi dieci anni.
Durante questo periodo la nostra economia ha continuato ad espandersi,
in termini geografici; abbiamo aumentato la nostra percentuale del
commercio mondiale; abbiamo adottato o inventato nuove attività
produttive.
La nostra famosa "economia sommersa" è andato emergendo,
gradualmente e in modo impressionante: le piccole imprese familiari,
spesso fondate su antiche tradizioni artigiane, sono diventate solide
e competitive industrie di media grandezza, e talvolta di grandi dimensioni.
In questi anni, essendo sempre alla ricerca di nuovi mercati, abbiamo
insegnato agli americani a bere vino, ai tedeschi e agli inglesi a
mangiare pasta; la nostra dieta mediterranea è diventata popolare
ovunque. Milioni di persone in Europa e in altri continenti usano
piastrelle italiane per le loro stanze da bagno, guidano automobili
italiane, indossano abiti e scarpe di casa nostra. Siamo pericolosi
concorrenti per tutti nel mercato mondiale delle grandi opere pubbliche:
stiamo costruendo dighe e strade, acciaierie e impianti chimici, porti
e sistemi telefonici dell'America Latina alla Russia, dall'Asia all'Africa.
Duemila anni fa, i nostri antenati Romani erano già maestri
riconosciuti in alcuni di questi campi: ma sappiamo gareggiare anche
nelle attività più "moderne" con i paesi più
avanzati del mondo.
E tuttavia, le fondamenta su cui poggia la vitalità della nostra
economia sono, per una parte non piccola, antiche. Il nostro senso
dello stile e della bellezza è quasi innato, e più forte
che mai; le qualità secolari dei nostri artigiani sono state
trasferite nell'industria moderna; abbiamo saputo sempre lavorare
con le nostre mani, e in questo siamo ancora piuttosto bravi.
Dai tempi di Leonardo e di Galilei siamo ancora tra i pionieri delle
nuove tecniche e della ricerca scientifica. Dai tempi di Colombo ci
è sempre piaciuto, e ci piace ancora, viaggiare nel mondo alla
scoperta di nuove terre; questa passione aiuta a spiegare perchè
siamo bravi esportatori e perchè andiamo d'accordo con tutti
i popoli del mondo. E abbiamo seguito sentieri originali nella nostra
marcia verso l'industrializzazione. Abbiamo evitato di costruire quelle
immense e ingovernabili aree metropolitane, che altrove sono così
poco vivibili. Ci sono nel nostro paese relativamente poche di quelle
regioni ad altissima concentrazione industriale, dove nasce il male
del secolo, l'alienazione. Il nostro ideale è una modernizzazione
"dal volto umano". Nemmeno è accaduto che lo sviluppo
economico abbia sommerso l'Italia in un mare di uniformità.
La varietà dei nostri paesaggi regionali rimane tanto grande
quanto la varietà dei settori produttivi che si sono sviluppati
spontaneamente in aree diverse, ciascuno di essi fondato su tradizioni
diverse. Queste qualità rendono la nostra economia resistente
e adattabile, in un periodo di crisi mondiali ricorrenti.
Forse questo vuoi dire che tutto va bene nell'Italia d'oggi? Certamente
no. E tuttavia, questo antico paese non si è mai sentito casi
giovane e casi fiducioso nel suo avvenire. Siamo ben coscienti dei
nostri problemi, e talvolta siamo portati a drammatizzarli. Ma siamo
anche fiduciosi di poterli affrontare, portando avanti quel lavoro
creativo che ha fatto dell'Italia la meta preferita, ogni anno, da
milioni di visitatori stranieri.
QUALE ITALIA
Romano Prodi
Lo scenario economico
mondiale è caratterizzato con intensità crescente da
un vasto processo di integrazione tra i vari sistemi nazionali. Nell'ambito
di un andamento generale estremamente difficile e complesso, dove
mercati e prodotti non crescono ma mutano continuamente, tale processo
rappresenta una delle poche costanti su cui maturerà con certezza
il domani della nostra economia.
Non a caso lo stato di salute manifestato dalle due maggiori economie
nazionali, Stati Uniti e Giappone, è maturato all'insegna del
l'integrazione. Negli USA l'aumento del livello di cooperazione tra
le grandi aziende ha facilitato il processo di sfruttamento delle
sinergie dei singoli Stati dell'Unione. L'industria giapponese, certo
aiutata dalla sua collocazione geografica nell'intraprendere un discorso
di apertura internazionale, ha di fatto dato via ad un vasto sottosistema
che coinvolge anche numerosi paesi extra-asiatici. Basta pensare che
il più classico dei prodotti del Giappone d'oggi, il computer,
se escludiamo il progetto ed alcune componenti elettroniche, è
il risultato di parti ed assemblaggi realizzati fuori dai confini
nipponici.
Di fronte a tali esempi, l'integrazione delle economie europee diventa
un fattore determinante per uscire da uno stato di drammatica immobilità,
che certo la debole e timorosa ripresa del Vecchio Continente non
allontana.
Ma perseguire quest'obiettivo sembra oggi un'impresa ancora molto
difficile. Sono soprattutto le differenti matrici storico-culturali
a porre un freno costante al processo integrativo, agendo a tutti
i livelli. è dunque necessario sfrondare tutte le culture nazionali
degli inutili egoismi. Con la convinzione che tali valori avranno
la possibilità di tradursi in elementi decisivi per una cultura
contemporaneo solo se gli Stati europei sapranno adeguarsi alle esigenze
del mercato.
Non a caso negli Stati Uniti si è sperimentato che ad un processo
di integrazione economica risponde una rivalutazione delle caratteristiche
distintive culturali. Così come ad ogni immissione di nuove
tecnologie avanzate fa riscontro una crescita parallela della sensibilità
e del livello di adattamento dell'uomo. Altro elemento negativo nei
confronti del l'integrazione economica europea è la pretesa,
da parte di più di un paese, di rappresentare l'elemento-guida
nel progetto di unificazione. In realtà, oggi ogni Stato europeo
è abbastanza grande da poter prendere da solo quelle decisioni
che gli permettono di sopravvivere, ma non è sufficientemente
grande da assumersi la responsabilità di provvedimenti capaci
di dare slancio all'intero apparato produttivo europeo. Il mantenimento
di tale assetto in realtà impoverisce, giorno dopo giorno,
i poteri decisionali dei governi europei. Già oggi, rispetto
a molti settori d'intervento, i singoli Stati non decidono più,
ma si limitano ad inseguire con affanno Il ritmo vertiginoso dell'innovazione
tecnologica
Nell'ambito industriale, tuttora molte importanti aziende guardano
alle società concorrenti come ai possibili partners di domani.
E la strategia di accordi e cooperazioni che stanno attuando si rivela,
giorno dopo giorno, come lo strumento più idoneo per pervenire,
in tempi relativamente brevi, all'internazionalizzazione dei sistemi.
Questa strada dovrà essere seguita necessariamente anche dall'apparato
produttivo italiano.
La sfida che attende la nostra economia e, nello stesso tempo, il
modello su cui essa si formerà, sarà costituita da tre
fasi interdipendenti fra loro ma parallele nello sviluppo. Sarà
necessaria una maggiore integrazione tra un'industria pubblica risanata
e l'industria privata. Quest'ultima, nella sua dimensione piccola
e media, ha dimostrato, proprio in questi anni difficili, tutta la
sua vitalità, assicurando a gran parte del sistema produttivo
italiano un passaggio senza traumi eccessivi nella crisi.
Sta oggi agli enti economici a partecipazione statale, come l'Iri,
fornire a questo prezioso tessuto tutto quell'insieme di servizi e
tecnologie avanzate che ne moltiplichino nel futuro il potenziale
commerciale. Tale sforzo dovrà essere coadiuvato da un processo
di definitiva integrazione con l'industria europea. Senza svendere
il proprio patrimonio di idee e possibilità, in un dialogo
capace di porre le nostre società sullo stesso piano di quelle
degli altri paesi del Vecchio Continente, dobbiamo saper creare un
vero modello europeo. E' una questione di volontà e di intelligenza.
E solo quando le tecnologie sviluppate in Europa risultino insufficienti
sarà necessario operare in un terzo scenario, quello più
ambizioso del l'integrazione e della cooperazione tra la nostra industria
con quella americana e nipponica. Il risultato di questa continuo
tensione porterà il nostro paese ad essere investito da un
flusso sempre maggiore di nuove tecnologie.
La nostra realtà dovrà adattarsi a situazioni ed occasioni
estremamente differenti dalle attuali. Questi mutamenti investiranno
anche la pubblica amministrazione. La parola d'ordine oggi è
rappresentato dalla deregulation. Credere che tale formula permetto
di guarire tutti i mali di una pubblica amministrazione cresciuta
a dismisura è illusorio. Ma certo i prossimi anni saranno caratterizzati
da un vasto processo di semplificazione e di riduzione di strutture
oggi incapaci di agire in uno scenario in rapida evoluzione. L'obiettivo,
dunque, rimane quello di contribuire ad uno sviluppo equilibrato e
costante, i cui protagonisti siamo sempre più sensibili al
rapporto tra le risorse investite e i risultati ottenuti. Mancare
tale obiettivo significherebbe impedire ad un qualsiasi paese europeo
di poter essere padrone del proprio futuro.
QUALE ITALIA
Luigi Lucchini
Dopo alcuni anni
di appannamento, l'industria italiana è tornata ad occupare
un ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale. Il mode in Italy
si afferma su molti mercati. Il processo di sviluppo è ripreso,
sia pure ad un passo troppo lento rispetto alle necessità del
paese. Le aziende hanno saputo stare al passo con la nuova rivoluzione
tecnologica e in molti casi hanno registrato un vero e proprio salto
di efficienza. A livello sociale, sono tramontate le utopie del "tutto
e subito" e si sta lentamente affermando un clima più
vicino alle esigenze delle imprese.
Il credito dell'Italia sui mercati internazionali è la testimonianza
di questo ritorno della fiducia. I tempi del "rischio Italia"
appaiono ormai lontani e si sta consolidando la tendenza alla ripresa
anche degli investimenti diretti da parte delle imprese internazionali.
Elemento di fondo di questo successo è la scelta compiuta nel
dopoguerra di aprirsi agli scambi internazionali. Le grandi potenzialità
d'inventiva e le capacità creative caratteristiche tipiche
degli italiani sono state esaltate dal confronto col più vasto
mercato mondiale. Siamo ancora convinti che solo l'apertura dei mercati
può assicurare il massimo dei benefici per i consumatori e
per le imprese. Questa regola deve essere rispettata da tutti: non
si possono creare continuamente artificiose barriere alla libera circolazione
delle merci, dei capitali, degli uomini e delle tecnologie.
Ed è per questo che l'Italia deve battersi in tutte le sedi
per perfezionare l'integrazione economica europea e per dettare corrette
regole del gioco nella concorrenza tra le grandi aree del mondo. Per
poter competere con successo su tutti i mercati, fantasia e capacità
di lavoro, da soli, non possono bastare. Per rendere stabile la presenza
dei nostri prodotti nel mondo e per ampliarne la gamma, l'industria
non può continuare ad operare in solitudine: occorrono sempre
maggiori sostegni agli investimenti, ulteriori incentivi alla ricerca
e un sistema scolastico in grado di preparare ad un futuro che sarà
sempre più affidato all'alta professionalità della gente.
La mobilità sociale è poi indispensabile per poter affrontare
i grandi cambiamenti che ci stanno di fronte: mestieri nuovi che nascono
in sostituzione di mestieri vecchi che non hanno più alcuna
validità economica. Gestire questa mobilità senza cadere
nella degenerazione assistenziale, ma predisponendo opportuni ammortizzatori
sociali: questa è la grande sfida che i governi, specie quelli
europei, devono affrontare con coraggio.
L'industria italiana ha le carte in regola per poter chiedere agli
altri attori comportamenti coerenti, allo scopo di incrementare lo
sviluppo. Il nostro nuovo "Rinascimento" si gioca nei prossimi
anni. L'impresa italiano ha scelto con determinazione questa strada.
QUALE ITALIA
Franco Reviglio
Si è parlato
a lungo di energia negli anni difficili seguiti agli shock petroliferi
dell'ultimo decennio. Se ne discute molto meno oggi, e ciò
rischia di creare il convincimento che il problema abbia perso d'importanza
o sia divenuto meno urgente: ma non è proprio così.
Alcuni importanti cambiamenti sono intervenuti dopo la "rottura"
traumatica del 1973-74, che aveva dato luogo ad una situazione caratterizzata
dalla fortissima ascesa dei prezzi del petrolio e dalla paura di una
vera e propria carenza nelle disponibilità di tale materia
prima. Così, molti sforzi sono stati compiuti per diversificare
l'approvvigionamento di energia con il concorso di fonti diverse dal
petrolio (carbone, gas naturale, nucleare), e per cercare di ridurre
in modo stabile la quantità di energia utilizzato nei processi
produttivi e nelle diverse forme di consumo. l'insieme di queste azioni,
portate avanti con intensità e determinazione differenti da
paese a paese, ha dato risultati apprezzabili. Oggi si impiega una
minore quantità di energia per unità di prodotto, si
è arrestato il processo di arretramento del carbone e si utilizzano
percentuali maggiori di gas naturale, di energia idrogeoelettrica
e di energia nucleare. Il tutto, a riduzione del peso del petrolio.
Sembra, dunque, che la situazione abbia imboccato un sentiero più
sicuro, lontano dalle difficoltà e dai rischi del recente passato.
Ma qualche cautela è necessaria. Intanto, non va sottovalutato
il fatto che la forte contrazione dell'attività produttiva
che si è avuta fino a qualche tempo fa ha favorito una diminuzione
in quantità della domanda di energia e, più in particolare,
del petrolio. Ciò ha compromesso, a sua volta, i vantaggi acquisiti
in precedenza dai paesi produttori dell'Opec, risolvendosi in una
sensibile riduzione dei prezzi del petrolio in dollari e in una limitazione
dei loro volumi di produzione, con i gravi problemi finanziari e politici
che stanno emergendo. Questo quadro, tuttavia, non è privo
di ombre e di rischi ed è d'obbligo, allora, una certa cautela
nel guardare al futuro. I paesi importatori di petrolio, e in particolare
il nostro, commetterebbero infatti un errore di prospettiva se considerassero
risolto il "vincolo" energetico che grava sulle loro economie.
Non si può infatti banalizzare la natura stessa degli avvenimenti
dell'ultimo decennio, e non si può rallentare la diversificazione
verso altre fonti di energia, nè sottovalutare la necessità
di proseguire nei processi complessi di trasformazione strutturale
- spesso appena iniziati - che possono assicurare un migliore impiego
dell'energia. La "previsione" migliore che possiamo fare
per il futuro sta dunque nell'impegno per allentare il vincolo complessivo
che l'energia pone al nostro paese e a molti dei paesi industrializzati.
In questa prospettiva, un'importante risposta sta nel promuovere una
più stretta collaborazione in materia energetica fra i paesi
industrializzati e lo sviluppo di un serio dialogo con i paesi produttori
di idrocarburi, abbandonando gli approcci unilaterali che in parte
sono all'origine delle difficoltà finora riscontrate. Dei resto,
l'alternativa al dialogo e ad accordi con i paesi produttori è
il perpetuarsi di una situazione di incertezza e di instabilità,
di duplicazione degli investimenti, di spreco delle risorse, di possibile
accanita concorrenza per la difesa e la conquista dei mercati di consumo.
Bisogna dunque puntare, in concreto, su una logica di cooperazione,
che costituisce una scelta ancora più obbligata per l'Italia,
per la quale rimane molto forte la dipendenza dalle importazioni di
fonti energetiche. Il mercato energetico mondiale richiede di legare
ad un orizzonte meno angusto i programmi che il nostro paese deve
realizzare per rendere più razionale il suo sistema energetico
e diversificarne meglio la composizione. E, questa, una via importante
per aiutare la crescita dell'economia italiano e le sue possibilità
di competere a livello internazionale.
QUALE ITALIA
Cesare Romiti
Negli ultimi anni
'70, quando più acuto si manifestava la crisi del sistema industriale,
si diffuso in Italia un dibattito, per certi versi originale, sulla
posizione che questo paese avrebbe dovuto occupare nell'economia internazionale.
Ci si domandava se per caso non fosse inutile e dannoso continuare
a scegliere l'Europa industrializzata come modello di riferimento
o non, piuttosto, seguire la "vocazione mediterranea" e
porsi su un livello più basso, a leader dei paesi del Terzo
Mondo.
Il dibattito non ebbe grande seguito per molte ragioni. La scelta
del "livello più basso" apparve improponibile per
motivi politici, per motivi storici, ma soprattutto perchè
l'Italia era un paese industriale avanzato, che si era conquistata
questa posizione con venti anni di sviluppo che avevano indotto la
trasformazione economica e sociale più grande e più
rapida della storia. Il problema non era quello di scegliere alternative
di rinuncia, ma al contrario, quello di evitarle, mettendo in grado
l'industria di confrontarsi con la nuova competizione internazionale
e il paese di riprendere il cammino dello sviluppo.
Questo problema è stato affrontato dal sistema dell'industria
privata italiana fin da prima della grande crisi recessiva degli ultimi
anni. E che questo impegno abbia dato i suoi frutti può essere
riscontrato dai dati complessivi del 1984: l'industria privato italiana
ha incrementato il suo fatturato, ha migliorato i suoi conti economici,
ha ridotto il suo indebitamento, ha aumentato le sue esportazioni.
Non basta il miglioramento della congiuntura internazionale a dare
conto di questa inversione di tendenza. Esso è soprattutto
il risultato di un processo di ristrutturazione e di riorganizzazione,
di innovazione del ciclo produttivo e nei prodotti, affrontato con
decisione e con coraggio, spesso con duro impegno e con sacrificio.
Questo processo ha consentito di ridare nuovo vigore ai settori in
cui l'Italia è tradizionalmente forte, i cosiddetti "settori
maturi", che teorie superficiali e frettolose avrebbero voluto
abbandonare.
L'esempio dell'auto è emblematico, a questo proposito: dopo
che molti, anni addietro, ne avevano proclamato la decadenza, oggi
l'industria italiano del settore è leader in Europa, per posizione
sul mercato, per modernità degli impianti, per qualità
dei modelli. Ma quello che può essere detto dell'auto, può
essere detto per altri settori e per altre imprese: tutti quei settori
e quelle imprese che hanno scelto la via di affrontare attivamente
la crisi, piuttosto che subirlo.
Accanto ai settori tradizionali sono cresciuti e si sono sviluppati
alcuni settori avanzati in cui l'Italia occupa le prime posizioni
sui mercati internazionali, come ad esempio quello dell'automazione
e della robotizzazione: l'Italia è il secondo paese europeo
dopo la Svezia per la produzione di robot, ed esporta il 30% della
sua produzione. C'è quindi una grande quantità di riferimenti
per poter dire che il sistema industriale italiano è vivo e
vitale, ed è in grado di affrontare la competizione internazionale
più difficile e più avanzata.
Questi segni di vitalità del nostro sistema industriale sono
ancora più importanti se si tiene conto del contesto del paese
in cui si manifestano: una strutturo pubblica arretrata, un sistema
dei servizi inaffidabile, una situazione politica perennemente instabile.
Cioè: esiste tuttora una differente velocità di sviluppo
tra "sistema industriale" e "sistema Paese", che
costituisce di per sé una sfida aggiuntiva, per l'industria,
alla sfida della concorrenza internazionanale.
E' necessario però mettere in luce che molte cose sono cambiate
e stanno cambiando, in Italia, intorno al sistema industriale. in
questi ultimi anni si è accresciuta, nell'opinione pubblica
e nel mondo del lavoro, la sensibilità verso i problemi dello
sviluppo e la consapevolezza delle azioni necessarie per mettere ordine
all'interno del nostro sistema economico. E' sorpassato l'atteggiamento
ostile all'industria che aveva caratterizzato tutti gli anni '70.
Oltre a ciò, sta emergendo una nuova generazione più
preparata, più attenta al nuovo, più disposta a impegnarsi
per il cambiamento. Da questo punto di vista, la situazione è
migliore di quanto possa desumersi dal comportamento degli esponenti
politici e sindacali. Si può quindi concludere che, malgrado
i gravi problemi ancora aperti, che è urgente risolvere, esistono
le capacità e i presupposti perchè il sistema industriale
italiano possa continuare a mantenere alte le sue tradizioni di qualità
e di prestigio sui mercati del mondo.
QUALE ITALIA
Carlo De Benedetti
L'industria del
computer nel mondo affronterà nei prossimi anni un fenomeno
analogo a quello già verificatosi per le imprese dell'automobile,
che si sono ridotte a meno di venti delle duecento, quante erano negli
anni '20.
Negli ultimi sei o sette anni, la tecnologia microelettronica ha abbassato
la soglia d'ingresso per i nuovi produttori. Il crollo del rapporto
tra prezzo e prestazioni, reso possibile dall'innovazione tecnologica,
ha generato mercati di massa prima sconosciuti nell'area dei prodotti
informatici. La svolta è stata rapida e non tutta l'offerta
- soprattutto la grande offerta - ha saputo adeguarsi prontamente
e con i prodotti giusti: questo ha lasciato spazio libero per molti
nuovi venuti. Ma allo stesso tempo gli alti costi di ricerca, marketing
e automazione di fabbrica hanno alzato la soglia per restare sul mercato.
Così i nuovi venuti, dopo avere sfruttato la loro nicchia di
domanda, troveranno difficile rimanere stabilmente sul mercato.
Ci sono fattori nuovi che stanno modificando le regole del gioco nella
competizione internazionale e che richiedono perciò risposte
nuove da parte delle imprese. Nell'analisi dei fattori più
significativi del mutamento della competizione internazionale, la
prima area da considerare è quella tecnologica.
Il ritmo dell'innovazione microelettronica non è ancora entrato
nella fase di decelerazione. I produttori di hardware, da oltre vent'anni
a questa parte, si trovano a convivere con una rivoluzione tecnologica
permanente. Il numero di componenti elementari miniaturizzati su un
medesimo chip, dall'inizio degli anni '60 ad oggi, è sistematicamente
raddoppiato ogni anno. In nessun altro settore, nella storia industriale,
il progresso tecnologico si è manifestato con tanto continuità.
Non siamo di fronte ad un "gradino" tecnologico: siamo di
fronte ad una "scala" tecnologica. Questa scala ha determinato
le grandi fasi dell'evoluzione informatica: dal grande calcolatore,
il cosiddetto mainframe, ai mini e poi ai microcomputers. Possono
esistere idee divergenti sul contenuto della prossima fase, ma non
sul fatto che dopo i microcomputers la tecnologia renderà possibili
nuovi orizzonti per l'offerta e per i mercati. Questo significa che
per sopravvivere le imprese di informatica devono destinare quote
elevate del proprio fatturato alle spese per ricerca in modo continuativo
e devono avere sempre accesso alle tecnologie più innovative.
La tecnologia condiziona in un ulteriore modo la forza competitiva
di un'azienda di informatica. La microelettronica ha determinato una
convergenza tra informatica e telecomunicazioni, al punto che oggi
non sempre è facile stabilire per certi prodotti dove finisce
la funzione di trattamento delle informazioni e dove inizio quella
di trasporto delle informazioni. In Europa, le sollecitazioni del
mercato in questa direzione sono ritardate dalla gestione frammentaria
delle telecomunicazioni, generalmente basata sul principio del monopolio
nazionale assai più che su quello del mercato aperto. Invece
di poche forti aziende europee, abbiamo una trentina di deboli aziende
nazionali. In ogni caso, i pochi sopravvissuti al processo di concentrazione
dell'offerta, che avrà luogo anche in Europa, avranno come
denominatore comune una forte competenza tecnologica sia nell'informatica
sia nelle telecomunicazioni. Sono molti gli accordi di collaborazione
conclusi negli ultimi due o tre anni tra aziende provenienti da questi
due settori: ma ancora di più saranno gli accordi che si concluderanno
nei prossimi anni.
Una seconda area di fattori che cambiano lo scenario competitivo è
quella del mercato e dei marketing dei prodotti. L'evoluzione verso
i prodotti di massa ha modificato radicalmente le condizioni della
competizione. La scelta dei canali di distribuzione ha acquisito un
ruolo decisivo, così come la capacità di assistenza
tecnica: il parco di calcolatori installati nel mondo - e quindi di
calcolatori che devono essere assistiti - era di poco più di
100 mila a fine degli anni '60, di 2,5 milioni a fine degli anni '70,
e oggi (limitandoci a considerare mainframes, mini e personal computers
professionali) si sta avviando a toccare i 15 milioni.
La storia recente delle imprese europee è ricca di episodi
- di successo e di fallimento - nella ricerca di soluzioni adeguate
al problema della distribuzione. Finora molti movimenti sono stati
fatti casualmente e in direzioni diverse: ma le tendenze vincenti
cominciano ad emergere. Si può essere certi che i sopravvissuti
avranno una forte base commerciale, con un approccio dinamico e innovativo
alla vendita, orientato alla soluzione dei problemi dell'utente. La
parte più interessante del mercato è infatti costituita
da acquirenti che non richiedono l'installazione di singoli prodotti,
ma che vogliono risolvere un problema di automazione del lavoro attraverso
l'introduzione di pezzi adeguati di hardware e software.
La quarta grande fase nella storia del mercato dell'informatica -
dopo quella dei mainframes, dei mini e del micro - sarà quella
delle stazioni di lavoro multifunzionali che esaltano la capacità
di vendere un servizio, più che un prodotto, perchè
sono destinate a soddisfare un'esigenza articolata e complessa del
cliente, qual'è l'automazione degli uffici. Questi prodotti,
inoltre, per le tecnologie che contengono e le standardizzazioni che
richiedono, rafforzano la tendenza all'internazionalizzazione, presupposto
indispensabile della capacità di competizione. Le economie
di scala sono ora più di prima un fattore decisivo per abbassare
i costi di produzione e per ripartire in modo migliore gli alti costi
della ricerca. Nascono in questo modo nuovi schieramenti, nuove alleanze
tra imprese che si scontrano sul mercato mondiale con una gamma completa
di prodotto.
La terza area di fattori che cambiano le regole del gioco della competizione,
con particolare riguardo all'Europa, è quella delle politiche
industriali. Nel passato, i governi europei hanno generalmente optato
a favore della creazione di imprese di bandiera nel settore dell'informatica
o delle telecomunicazioni, utilizzando strumenti diversi: sussidi
finanziari e creditizi, agevolazioni alla ricerca concentrate sull'azienda
prescelta, commesse pubbliche riservate. I risultati sono stati negativi,
perchè la strategia delle imprese di bandiera si è scontrata
con la forte esigenza di internazionalizzazione che caratterizza l'industria
e il mercato del l'informatica: un'industria e un mercato che sono
proiettati verso il libero scambio e la libera concorrenza.
Errori e ritardi delle politiche industriali nazionali hanno non poca
parte nello spiegare i risultati deludenti dell'industria europea
del computer nel suo complesso. Ma da qualche tempo è in atto
una svolta. Deregolamentazione e internalizzazione sono principi che
trovano uno spazio crescente, dalla Gran Bretagna all'Italia, dal
settore dell'informatica a quello delle telecomunicazioni. E' un'evoluzione
da seguire con grande attenzione. Nei prossimi anni non mancheranno
episodi traumatici, ma certamente ci sarà più chiarezza,
e soprattutto si creerà maggior spazio per quelle poche imprese
europee che meritano di restare.
QUALE ITALIA
Piero Ottone
Che l'Italia stia
a galla, ormai, è chiaro a tutti. Le industrie producono ed
esportano. Il tenore di vita si regge a un livello soddisfacente,
e chi viaggia attraverso le città italiane ha l'impressione
di trovarsi in un paese prospero: ristoranti affollati, strade piene
di traffico, esodo verso il mare o la montagna nei week-ends. Le vetrine
dei negozi sono eleganti, talvolta opulente. La lira subisce un'inflazione
superiore alla media europea, e il tasso inflazionistico è
considerato un fatto tecnico col quale è possibile convivere:
basta prendere i necessari provvedimenti. I discorsi sulla crisi suprema,
sulla disintegrazione, sul crollo del paese, ormai, non si fanno più.
Ancora una volta, la nazione italiana ha dato prova di vitalità.
Il problema è un altro: si tratta di capire in quale posizione
l'Italia sia destinata a collocarsi, di qui alla fine del secolo,
fra le nazioni industriali dell'Occidente. E non alludo, ovviamente,
a un semplice problema di classifica. Importa poco che l'Italia sia
al quinto, al settimo o al decimo posto. Quel che importa è
la qualità della sua economia e, in ultima analisi, del suo
modo di vita. Sarà uno dei paesi avanzati, presente nei settori
di nuova tecnologia, capace di mantenere una sua autonomia e una sua
creatività? O scivolerà fra le nazioni di seconda serie,
destinate a luccicare di luce riflessa, quindi a diventare semplici
appendici del nucleo di avanguardia? Possiamo porre la stessa domanda
in termini tecnici: quale sarà il valore aggiunto delle sue
esportazioni? O possiamo porla in termini giornalistici: sarà
l'Italia in concorrenza con l'Olanda o con l'Inghilterra nell'informatica,
o con i paesi del Terzo Mondo nei tessili o negli elettrodomestici?
Alcuni fattori positivi inducono all'ottimismo. Il primo fattore è
la capacità inventiva. Mi rendo conto che questo è ormai
un luogo comune, perchè quando si parla degli italiani si cita
sempre, carne loro virtù congenito, la capacità inventiva
o l'iniziativa individuale: però è vero. Dopo la guerra
vi era stata la nascita improvvisa di imprese piccole e medie, in
tante diverse ragioni, per produrre macchine utensili e frigoriferi,
rotative e caffettiere. Adesso si assiste a una nuova proliferazione
di attività più moderne. Gli italiani mantengono spirito
imprenditoriale e senso di avventura. Anche chi dava per scontata
l'iniziativa individuale manifestava perplessità, negli anni
scorsi, a proposito delle grandi imprese. Si temeva che fossero destinate
a decadere e si diceva, giustamente, che l'economia nazionale di un
grande paese non può essere solida se il tessuto delle imprese
minori non è sostenuto da alcuni grandi gruppi. Nel frattempo,
mentre si esprimevano questi timori, le grandi imprese provvedevano
silenziosamentre ad accrescere la produttività e a ridiventare
competitive sul piano internazionale. Fiat, Olivetti, Pirelli hanno
riconquistato posizioni sui mercati internazionali, raccolgono capitali
in Italia e all'estero, decidono massicci investimenti.
All'origine di questi fenomeni è, evidentemente, uno stato
d'animo aggressivo, che non accetta la sconfitta. L'Italia è
un paese giovane, che vuole costruire per l'avvenire, e preferisce
la lotta alla vita comoda. Questo è vero sia per quegli operai
che si industriano in mille modi anche nelle ore libere sia per quegli
imprenditori che affrontano tutte le difficoltà dei pionieri
per dar vita a nuove attività.
A questi fattori positivi si contrappongono alcuni ritardi organizzativi.
Mi rendo conto che ritardi analoghi si osservano ovunque in Occidente,
persino nei paesi più moderni e dinamici. L'adeguamento delle
istituzioni alla nuova situazione è compito della classe politica,
cioè dei partiti.
Prevarranno i fattori positivi o quelli negativi? Non è il
caso di fare previsioni, anche perché in faccende del genere
le previsioni sono totalmente arbitrarie. E' preferibile che ciascuno
lavori al meglio delle sue possibilità e pensi ad assolvere
bene il proprio compito. Il che, per fortuna, in molti casi sta accadendo.
Poi si vedrà.