UN GRIDO DAL SUD




G. D. M.



Lo scrittore Carlo Alianello è morto a ottant'anni. L'alfiere, (pubblicato nel 1943), fu il primo romanzo di autore contemporaneo da cui la TV italiana nel 1956, appena nato, trasse uno sceneggiato a puntate. Ne curò la regia Anton Giulio Maiano, che poi mise in scena un altro romanzo dello stesso scrittore, L'eredità della priora. Alianello fu consulente di Rossellini per "Viva l'Italia", di Visconti per "Senso" e di Genina per "Maddalena". Ha scritto di lui Bàrberi Squarotti: ciò che mi ha sempre interessato e piaciuto in Carlo Alianello è stato il carattere non conformista. Di Garibaldi, Alianello parlò male tante volte, e anche delle rivoluzioni dei democratici, del Risorgimento e di tanti altri mostri sacri. Il parlar male del Risorgimento avrebbe potuto, sì, ottenergli anche approvazioni e consensi, soprattutto da quando è diventato di moda trattarlo come un errore o, addirittura, un sopruso, che avrebbe fatto di uno Stato avanzatissimo, prospero, sereno, come il regno del Sud, un paese coloniale, oggetto di feroce sfruttamento: ma Alianello aggiungeva alla condanna del Risorgimento sabaudo la simpatia per i Borboni, la celebrazione della fedeltà militare al giuramento al re, un cattolicesimo tradizionale con il rifiuto pressoché totale del mondo moderno.
E se andava bene il parteggiare dello scrittore per i briganti filoborbonici, anch'essi oggetto di lodi e inni postumi da parte della pubblicistica "di sinistra" in questi anni, ecco che poi Alianello impostava la sua rappresentazione del brigantaggio in termini di nobile lotta per il trono e l'altare, che veniva a piacere molto meno. Questa coincidenza delle posizioni ideologiche di Alianello con le mode culturali spiega come i suoi due romanzi più filoborbonici, "L'alfiere" del 1943 e "L'eredità della priora" del 1963 siano stati pubblicati rispettivamente da Einaudi e da Feltrinelli; e l'immagine dello scrittore ha finito per esserne un poco distorto. Alianello sceglie la struttura del romanzo storico in funzione del punto di vista e delle idee con cui affronta non soltanto aspetti e situazioni del Risorgimento, ma più ampie questioni storiche, umane, religiose. La fedeltà al trono, nella narrazione della fine del regno borbonico ne "L'alfiere", nella rappresentazione del brigantaggio ne "L'eredità della priora", nella celebrazione della repressione borbonico del maggio 1848 contro i liberali e i fautori della costituzione in "Soldati del re", del 1953, è immagine della fedeltà a Dio e alla Chiesa.
Alianello invoca, contro i liberali e i democratici, rappresentati come "mostri" di crudeltà e di odio soprattutto in "Soldati del re", l'istintiva e appassionata difesa del re e dell'altare da parte del popolo di Napoli e del Regno delle Due Sicilie. Trono e altare coincidono ancora, per lui, con un'inattualità alla quale bisogna riconoscere un indubbio coraggio. C'è non poco padre Bresciani in tutto questo: ma c'è anche la capacità del narratore di muovere folle di personaggi ben rilevati e disegnati con piglio sicuro sullo sfondo delle crisi decisive in senso politico, morale e religioso dell'Italia dell'Ottocento. "L'alfiere" è il suo romanzo migliore, perchè piena di decadente suggestione è la raffigurazione della caduta del regno borbonico, avvolta nella malinconica simpatia per i vinti, per ciò che è finito per sempre, per un mondo definitivamente perduto. Quando Alianello riesce a dare alle proprie prospettive ideologiche, e al proprio punto di vista nel narrare la storia, il senso della loro sconfitta irrimediabile, allora la sua narrativa si fa più intensa e profonda, sfiorata com'è dalla luce triste, colta con viva partecipazione, della fine di un mondo a cui lo scrittore sente di appartenere ancora, disperatamente.
Scrive Alianello "La libertà?... Ce l'ho qui - rispose Franco e si batté sul petto - dacché fra la mia e quella dei liberali ho scelto liberamente, da uomo. Non mi piace la loro libertà, ché quando te la vengono a imporre con le baionette, non è più essa. Io sto da questa parte, perchè così piace a me, che sono don Enrico Franco, e mi piace perché oggi è la parte più bella. Altri combattono e muoiono per una conquista, una terra, un'idea di gloria, per un convincimento magari o un ideale, ma noi moriamo per una cosa di cuore: la bellezza. Qui non c'è vanità, non c'è successo, non c'è ambizione. Noi moriamo per essere uomini ancora. Uomini che la violenza e l'illusione non li piega e che servono la fedeltà, l'onore, la bandiera e la Monarchia, perché son padroni di sé e servitori di Dio. Ieri forse poteva sembrar più nobile, più alta la parte di là, ma oggi con noi c'è la sventura, e questa è la parte più bella. Perché sopra, noi ci possiamo scrivere: senza speranza ... ".
E ancora, all'ultima, pagina dell'"Alfiere"; "Con quest'universo che gli dissolveva attorno anche le sue amicizie, i suoi affetti, se ne andavano ( ... ) la morte, l'ignoto ( ... ). Cos'era finito? Un governo, un regno, un'idea... Ma non il male del mondo, né la sua anima.
Balzò in piedi e s'appoggiò alla feritoia respirando forte. Dentro la casamatta era già tenebra fitta, ma fuori il giorno non era ancora tutto spento. ( ... ) Con un guizzo il sole sprofondò nel mare e quell'aureola dorata, stretta in un fascio di luce, salì all'orizzonte e si diffuse sperdendosi nel cielo già pallido. Nella sua branda Franco si scosse, si rigirò, annaspò un poco respirando forte e ripeté ancora: - Io non ho capitolato".
Chi lo ha conosciuto bene, Mario Sanfilippo, scrive di lui e della sua opera: ho letto "L'alfiere" tra la sera del 18 luglio del 1943 e la mattina del 19: poi arrivarono i "Liberators" americani a bombardare San Lorenzo. Così capii cosa fosse un bombardamento e persi quel libro. Oggi, a mente fredda, non si riesce neppure a immaginare l'effetto esplosivo di quel libro su uno studente che aveva appena terminato la scuola media dopo la famosa riforma Bottai. Alianello spazzava via tutto il Risorgimento sabaudo e oleografico. I garibaldini avevano vinto, ma erano "poveri cristiani" come i soldati di Franceschiello; questi ultimi erano poveri cafoni analfabeti, ma si erano battuti valorosamente per il loro re e per la loro regina. Ma allora, questi Borboni nefandi, "la negazione di Dio", erano tanto amati? E l'unificazione italiana era stata raggiunta anche a prezzo di tanti tradimenti da parte degli ufficiali, ma non dei soldati?
Nella scuola elementare, nella scuola media e successivamente al ginnasio e al liceo - pur fatti in una diversa atmosfera politica - nessun professore aveva mai parlato o parlò di fatti del genere. Ugualmente non c'erano libri (chi sapeva che fosse esistito un De Cesare?) che presentasse quest'aspetto della storia d'Italia. Gli storiografi di professione ritenevano poco salutare occuparsi di questi argomenti e - al di là della trama romanzesca - l'operazione culturale di Alianello fu quella di recuperare una tradizione, scritta e orale, meridionale. Ormai ogni sogno di rivincita borbonica era tramontato; anzi, pochi mesi dopo l'uscita di quel libro, l'ultimo Savoia (o penultimo che sia) doveva chiudere ignominiosamente il suo regno effettivo con la fuga di Pescara. Così Alianello non dava la sensazione di parlar male di Garibaldi, anzi sembrava che gli desse un nuovo valore: caso mai era stato un povero idealista in mezzo a un mare di fetenti. Ma la scoperta era che, ancora una volta, non si poteva fare un taglio netto tra bianco e nero, tra buoni e cattivi, tra eroici patrioti e luridi borbonici. Quindici anni circa dopo "L'alfiere", il "Gattopardo" avrebbe consolidato l'operazione tentata da Alianello.
Alianello riscrisse più volte, sotto vari titoli e in forme diverse, quel suo primo libro fortunato. "I soldati del re" e "L'eredità della priora" completarono una specie di trittico sul crollo del Regno del Sud. Poi tentò di riprendere in forma saggistica tutto l'argomento. Programmaticamente, l'unità d'Italia era divenuta l'invasione pie montese.
Nel 1972 si verificò una strana consonanza tra il cattolico e conservatore Alianello e gli ultrarivoluzionari arrabbiati. "La conquista del Sud" indubbiamente è stato il meno riuscito dei libri di Alianello.
Ormai i tempi erano veramente cambiati, la questione meridionale era al centro di tanti interessi politici e storiografici. Se non c'era stato (e non c'è ancora stato) un risarcimento per il Mezzogiorno almeno la verità storica, o ciò che noi ci ostiniamo a credere sia la verità storica, era stata in gran parte ristabilita: e tanti pseudo marxisti-leninisti non si avvedevano che la storia era stravolta in una logica conservatrice, tanto erano abituati a stravolgerla in una logica pseudorivoluzionaria.
A lungo ha insegnato, con successo almeno tra gli studenti più intelligenti, nei licei. Come per il libro, continuamente riscritto, si può dire che abbia ripetuto costantemente una sola lezione. Al di là degli schemi fissi, al di là della fortuna e decadenza delle istituzioni, bisogna saper vedere gli uomini e la loro vita concreta, che spesso è anche una vita talmente condizionata da non permettergli di esprimere quello che avevano dentro. Com'erano italiani anche i borbonici sconfitti, così bisogna sempre diffidare di chi vince e impone la sua storia.
Morì, Corrado Alvaro, un quarto di secolo fa. I cittadini di San Luca lo ricordano, quasi a riparare il torto dei padri, con manifestazioni a livello locale e regionale. Alvaro, a venticinque anni dalla morte (11 giugno 1956), resta uno dei maggiori interpreti della realtà sociale del Mezzogiorno per una volontà di denuncia che lo differenzia da molti altri scrittori del Sud, inclini a fissare le immagini più che a ricercare le cause dei mali di una terra geologicamente e storicamente segnata dalla sventura. Erano gli anni in cui l'Italia approntava bonifiche in terre straniere, invece di installare cantieri in casa propria; erano gli anni nei quali si lastricavano di asfalto le strade dei Negus e si favoriva l'emigrazione meridionale verso l'America. Erano gli anni degli agrari, che soprattutto in Calabria sfruttavano i contadini; erano infine gli anni in cui i padroni dell'Aspromonte - quelli stessi che toglievano il tozzo di pane ai pastori, se la sera, nello stazzo, mancava all'appello qualche pecora - non perdonavano ad Alvaro il suo riscatto dalla povertà attraverso gli studi e l'impegno culturale.
"Sparlavano di me per mettermi in cattiva luce presso i miei compaesani", disse una mattina di primavera al suo amico Mario de Gaudio, due anni prima della morte, mentre la finestra del suo studio era spalancata al profumo delle azalee lungo la gradinata di Trinità dei Monti. "Dicevano che invece si scrivere libri avrei fatto meglio ad arruffianarmi con qualche ministro per riparare le strade di San Luca o sollecitare le pensioni sociali della povera gente. Mi hanno sobillato il paese intero, non ci posso mettere piede. Quando sento nostalgia, vado da mio fratello prete a Casignana, un villaggio dirimpetto al mio. Da lì sto delle ore a contemplare San Luca. Laggiù, nel cimitero a ridosso della valle, riposano mio padre e mia madre".
Oggi, a ricordare Corrado Alvaro non sono soltanto gli "eredi" di Argirò, il pastore di "Gente d'Aspromonte", che lanciò dalle gole della montagna il grido di rivolta contro lo sfruttamento, ma anche i suoi figli e nipoti. La mutata realtà sociale, il livello culturale più omogeneo hanno compiuto il miracolo.
Di una timidezza allarmata - così lo ricorda Valentino Bompiani - "affrontava la realtà casi come ci si butta in una dimostrazione di piazza o in un corteo: per vedere e per capire. Contadino sradicato dalla sua terra, Alvaro lavorava come se avesse dovuto portare il suo "prodotto" all'ammasso". "Bisogna aprire gli occhi sul mondo", diceva. "E credo che lo scrittore sia per sua natura impegnato a farlo". E per questa sua concezione, che collegava la letteratura al sociale, subì la persecuzione. Lontano dalle mafie politiche, ma anche dai salotti letterari. Schivo, talvolta sino alla scontrosità, si trovava a suo agio solo nel suo studio romano di Piazza di Spagna, accovacciato sulla poltrona dalla spalliera alta, come un piccolo budda dal faccione mobile e buono, che somigliava, diceva Pietro Pancrazi, "a un pugno chiuso visto di profilo".
La solitudine nella quale viveva si spalancava spesso oltre la siepe dei ricordi; allora si dissolveva e facevano capolino la curiosità e l'impegno. Della realtà meridionale, più che un problema politico, fece una categoria che andava decifrata con mezzi quasi sacrali. Prediligeva Lukàcs, perché riteneva che la lezione del filosofo ungherese provenisse da uno spirito non asservito agli orientamenti ufficiali del marxismo, ma teso a stabilire legami tra passato e presente. Era la fase della maturazione, durante la quale proclamava che era necessario rintracciare i valori ovunque essi si trovassero. E diceva anche che bisognava valutare i risultati dell'arte in assoluta indipendenza dalla politica. Ma i tempi andavano imbarbarendosi. Era incominciata la corsa al consumismo e la "brava gente", compresa quella aspromontana, cominciava ad inquinarsi. Lo spirito di lotta e di sacrificio cedeva il passo al pragmatismo più spregiudicato. Si affacciavano di prepotenza le nuove generazioni in violento conflitto con le vecchie. Alvaro "intuì" la portata del ciclone giovanile e non lo contestò. Preferì mettersi da parte. E forse comprese i limiti della sua cultura contadina, impreparata agli urti di una società che, sbeffeggiando il gradualismo, avrebbe irriso anche alle "radici".
In una delle sue ultime lettere alla moglie scrisse: "E ora che gran parte della vita è finita, cosa ti dirò ancora per ingannarti? Ma che cosa dirò per ingannare me stesso? Perché ho ingannato non soltanto te, ma anche me stesso. Senza volere, s'intende. Non avrei potuto mai pensare che ci sarebbe toccato di vivere al tramonto di un mondo. Certo, è ridicolo che io ti chieda scusa del tempo, del secolo, dell'epoca, del mondo come va. Ma ogni uomo è responsabile del suo tempo".
Scriveva in "Un treno nel Sud" "I lavori pubblici in Calabria sono stati sempre veduti come un rimedio alla disoccupazione stagionale, né hanno mutato stile. Concepiti come palliativo sociale, inducono imprese e lavoratori alla medesima concezione. Mezzo secolo d'una tale concezione nella destinazione del denaro dello Stato ha creato tutta una mentalità, in modo che non si sa chi sia l'ingannato e chi l'ingannatore; lo Stato non vi ha guadagnato di prestigio, i governi non vi hanno mai acquistato solidarietà: la perdono anzi da anno ad anno. Per molto tempo la Calabria ignorò lo Stato come ne era ignorata. Venti anni dopo l'unificazione, l'emigrazione bastava a dare ai calabresi una vita e una speranza. New York e Boston erano più vicine di Roma o di Milano, e se l'emigrazione fosse rimasta aperta, i calabresi avrebbero risolto i loro problemi da sé, disgregato il latifondo, industrializzato nei suoi limiti il paese. L'emigrazione sbarrata fu la causa non ultima delle crisi sociali italiane. Se ardissi riferire una sola delle vicende con cui oggi i calabresi tentano l'emigrazione in un qualunque angolo della terra, farei fremere di raccapriccio, e vergognare chi tollera tanto e chi ne approfitta, anche straniero ... ".
E se "non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d'inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque", come scrisse in "Gente d'Aspromonte" non è più bella la vita in Sicilia, in una Sicilia tormentata dalla fame, dall'emigrazione, dalla mafia e dal banditismo. Sempre in "Un treno nel Sud", scrive del più celebre fuorilegge siciliano: "La voce popolare racconta addirittura che Giuliano, già soldato del genio telefonisti in guerra, abbia trovato il modo di agganciarsi in certi luoghi ai fili del telefono e far sentire la sua voce, le sue richieste, al prefetto e al questore. Non sarà vero, ma è comunque da registrare come una delle leggende di questo assetto brigantesco e del suo pericoloso prestigio. E dà un'idea di questo voler trattare la resa e il perdono da forza a forza".
Giuliano è il re di Montelepre, e Montelepre è, con Partinico, una delle grandi capitali della mafia. Ai piedi della montagna muta e pericolosa è "disteso Partinico" sulla feconda pianura. Case uguali, strade uguali, "all'apparenza come uno di quei padiglioni di fabbriche a vari reparti col profilo triangolare dei tetti dei vari padiglioni che si vedono sui cartelli reclame dei prodotti industriali". Uno sprone di monte, una roccia marina arenata in questa pianura, forma nel mezzo del paese una fantastica costruzione, una torre o una cattedrale. La gente si rasenta appena, si saluta appena, "ma le trecento famiglie vedove o orfane, dei confinati, banditi, assassinati, vestite di nero, col velo nero dalla testa alle ginocchia le donne, tutte uguali nel lutto per fatti cui la loro ragione non arriva e che si confonde in una uguale sventura sociale", aspettano la cucina popolare che stanno mettendo insieme. E come se tutti, da una parte e dall'altra, "fossero travolti da un dramma più grande di loro".
E infine, in "Gente d'Aspromonte", il roccioso uomo-pastore che è anche abruzzese e molisano, transumante nella Capitanata: "Nella solitudine ventosa della montagna il pastore fuma la crosta della pipa, guarda saltare il figlio come un capriolo, ode i canti spersi dei più giovani, intramezzati dal rumore dell'acqua nei crepacci, che borbotta come le comari che vanno a far legna. Qualcuno, seduto su un poggio, come su un mondo, da fiato alla zampogna, e tutti pensano alle donne, al vino, alla casa di muro. Pensano alla domenica nel paese, quando si empiono i vicoli col loro grossi sospiri, e rispondono a loro, soffiando, i muli nelle stalle e i porci nei covili, e i bambini strillano all'improvviso come passerotti, e i vecchi, che non si possono più muovere, fissano l'ultimo filo di luce, e le vecchie rinfrescano all'aria il ventre gonfio e affaticato, e le spose sono colombe tranquille. Pensano alla visita che faranno alla casa di qualche signore borghese, dove vedranno la bottiglia di vino splendere tra le mani avare del padrone di casa, e il vino calare nel bicchiere che vuoteranno tutto d'un fiato, buttando poi con violenza le ultime gocciole in terra. Quei vino se lo ricordano nelle giornate della montagna come un fuoco dissetante, poveri ed eterni poppanti di mandra".
Quanta parte di questo mondo è stata spazzata via negli ultimi vent'anni? Quanti pastori, emigrando nelle città del nord, con le fabbriche e con le ciminiere, hanno indossato la tuta blu? Tanti, forse troppi, o forse pochi, meno di quanto era dato pensare? Domande alle quali non è agevole dare una risposta. Perchè questi mondi, microcosmi e macrocosmi del Sud, non hanno mutato spesso se non in peggio il loro paesaggio: non vi è arrivata la trasformazione del lavoro, non vi è arrivata l'industria dell'allevamento. Non "producono" in senso moderno. Danno un reddito, questo si: ed è il reddito da mafia o da 'ndrangheta, da criminalità organizzata, da sequestro di persona, e quando il lavoro si fa pulito, da commercio, da terziario, è il consumo che prorompe ancora, sono l'assistenzialismo e il trasformismo che prevaricano. Come dire: ben poco o nulla è cambiato, se non gli strumenti del controllo. E non c'è un Fiore; e non c'è un Alvaro, e neanche un Levi, oggi, che si impegnino a lavorarci di penna e di pensiero.

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