Nel
momento in cui il losco intreccio di affari, politica e criminalità
si manifesta in una fase particolarmente acuta, la nostra Repubblica
sembra il Laocoonte stretto con i figli nelle spire dei serpentoni di
Atena. Nell'arco della nostra storia patria forse non si sono conosciuti
giorni più inquietanti di questi. Potremmo dire di avere toccato
il fondo del pozzo se non avessimo il fondato sospetto che la "corruttela
italiana", come la chiamava Machiavelli, è un pozzo senza
fondo.
Mentre la denuncia di malversazioni, estorsioni, intrighi, complotti
degni del Valentino, procede con un crescendo rossiniano, ciò
che raggiunge il sublime nell'ipocrisia è la contemporanea controdenuncia
dell'"uso strumentale degli scandali", come se ciò
potesse attenuarne la gravità. Molti, mostrando di aver perduto
ogni barlume di rettitudine, avvertono l'opinione pubblica che gli svelatori
di abusi, illeciti, malversazioni, furti, non sono mossi da un desiderio
di giustizia, ma da uno spirito ricattatorio e per insondabili vantaggi
personali o di parte. Disonesti i ladri, disonesti due volte quelli
che ne provocano la cattura.
E lo stivale
non fa una piega
Di fronte allo spettacolo dell'"Italia della malavita",
impressiona l'apparente indifferenza del grande pubblico. Gli italiani,
non certo famosi per la loro flemma, che in ogni minimo scontro interpersonale
inveiscono come dervisci urlanti, dirimpetto alle più sconvolgenti
furfanterie a cavallo tra scena pubblica e privata, non battono ciglio.
Mantengono una calma da fare invidia a un santone indiano. Ma è
possibile che la anestesia italiana nei confronti dello scandalismo
dilagante, più che a insensibilità civile, sia dovuta
a una forma di difesa contro un eccesso di stimoli perturbanti. Invocare
la questione morale, come fanno alcuni dei partiti minori, interpretando
forse l'animo di tanti e tanti che hanno fame e sete di giustizia,
è sacrosanto. Ma, di fronte a fenomeni di simile portata, urge
interrogarsi sui motivi profondi che li hanno determinati.
Non si va lontani dal vero se, nel marasma che oggi ci affanna, si
vede l'ultimo grado di dissoluzione del "sogno" che ha fatto
l'Italia. Nel Risorgimento, infatti, l'indipendenza e l'unità
della patria erano gli obiettivi evidenti: ma, ciò che contava
non meno, era la mobilitazione morale, la tensione ideale, indispensabile
a raggiungerli. In altre parole, l'indipendenza e l'unità presupponevano
una rigenerazione etica e politica che portasse il Paese fuori dalla
palude di ignavia, di lassismo, di egoismo, di doppiezza, di tornaconto
immediato, di fazionismo, di astuzia e di cinismo che erano stati
i fattori principali della nostra decadenza e che De Sanctis - uomo
esemplare del Risorgimento - prese a partito nel mirabile saggio "L'Uomo
del Guicciardini". Nello scagliarsi contro lo scettico cavaliere
del "particulare". De Sanctis precisava lo spirito del Risorgimento
in senso forte: come associazione stretta della causa morale e della
causa nazionale.
La storia italiana dall'Unità a oggi non è, purtroppo,
se non la storia della dissipazione di questo spirito. Al fallimento
del sogno risorgimentale, sancito dall'avvento del fascismo, hanno
tenuto dietro i fallimenti dei sogni più suggestivi del post-fascismo,
quali si delinearono nelle due principali forze politiche affermatesi
nel Paese, e che, piaccia o no, ne condizionano come nessun'altra
l'atmosfera.
Per quanto riguarda i cattolici, non possiamo non notare il dislivello
fra la proposta iniziale del partito democristiano e la realtà
in cui si è andata consolidando. ispirata alla Enciclica di
leone XIII, tale proposta puntava su una rinascita cattolica imperniata
su valori tali da scongiurare i pericoli (paventati da una fila di
pensatori che vanno da Platone a Mazzini) che insidiano la democrazia
quando diventa di massa, puramente quantitativa, scevra dei fini che
innalzano il profilo umano e sociale, e unicamente e afosamente fondata
sul numero e sulla conquista dei voti.
Invece il ruolo dei cattolici (in politica) è stato quello
di portare proprio cattolici nella democrazia senza aggettivi, con
le conseguenze negati che sono sotto gli occhi di tutti.
Veniamo ai comunisti. Anche qui fossato che si manifesta fra il parti
vagheggiato da Gramsci e quello odierno è grande. Davanti a
un marxleninismo che si andava ghettizzando nell'Urss e che perciò
stesso si avvia a perdere la sua carica liberatrice a trasformarsi
in "instrumentum regni" di una potenza oppressiva e imperialistica,
Gramsci sperava che l'apporto culturale del partito italiano avrebbe
restituito al comunismo il respiro di una rivoluzione veramente mondiale.
Sogno svanito nel nulla. Lungi dall'avere occidentalizzato il comunismo
grazie al suo "primato" intellettuale nell'orizzonte del
marxleninsmo, il partito italiano oggi sente tutto il peso di quel
colosso conservatore che l'Urss è diventata, chiudendo nella
sua logica di potenza. Nel "realismo" dell'odierno, poi,
di Gramsci si parla sempre meno. Il suo nome diventato quello di un
istituto.
Risorgimento
tradito
La dissoluzione dello spirito del Risorgimento, l'eclissi delle idealità
originarie nelle maggiori formazioni politiche italiane, hanno avuto
conseguenze gravissime. Perchè noi siamo diversissimi dai Paesi
anglosassoni dove morale pubblica e morale privata sussistono separatamente.
Da no se la causa morale si slega da una grande causa civile e ideale,
non converte in morale privata, si disintegra e lascia il posto all'"
Uomo del Guicciardini".
Su uno sfondo in cui impera l'individualismo sfrenato, il culto del
potere e del benessere materiale, egoistico e fine a se stesso, non
stupisce che la lotta di tutti contro tutti si scateni senza esclusione
di colpi. L'"Uomo del Guicciardini", peggiorato e scorretto,
domina la scena odierna. Lo incontri a ogni passo. E, come già
di lui diceva De Sanctis parafrasando Cicerone, "non solo vive;
ha il coraggio di presentarsi anche in Senato!".
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